approfondimenti
ITALIA
Napoli, il perbenismo urbano contro la città pubblica
In occasione del prossimo 25 aprile, molte realtà sociali napoletane porteranno nello spazio pubblico pratiche e processi di cura, visibilizzando l’alternativa urbana possibile alla città imprenditoriale
Fine settimana di pasqua, la sezione locale di un noto quotidiano titola in prima pagina «Turismo, la sfida del decoro» e racconta del «piano straordinario per l’accoglienza della graditissima folla di turisti» messo in campo dall’assessorato napoletano al Turismo. Si chiama “Vedi Napoli e poi torni” e, già ottenuta una prima parte di finanziamenti di 100mila euro, ha previsto la pulizia di zone turistiche della città, tra cui piazza Garibaldi, piazza Cavour, piazza Dante, via Toledo, le Gallerie urbane, i Decumani, e molte altre.
Si tratta solo del preludio a una strategia a lungo termine che disporrà l’utilizzo di ben più estesi fondi pubblici per allestire info-points, per creare applicazioni digitali per la promozione turistica, insomma per produrre servizi volti a rendere stabile il flusso di visitatori. Sono attesi 140mila turisti e più di 40 milioni di euro di incassi. L’economia riparte dopo la fase di stagnazione dovuta alla pandemia e le amministrazioni regionali e locali esultano. Ma i conti non tornano. Il turismo costa poiché costano i servizi pubblici locali erogati a suo supporto.
Parallelamente, la grande ricchezza portata in città dai turisti finisce nelle tasche di albergatori, host, e ristoratori. Questa forma distorta di economia circolare per cui soldi dal pubblico ritornano massimizzati al privato prevede ulteriori costi, forse tanto meno quantificabili in termini monetari quanto più gravosi in termini sociali.
Tra questi – con solo con riferimento agli ultimi giorni e all’uso dello spazio pubblico, oltre l’invasione da parte dei ristoranti di piazze e vicoli con tavolini, sedie, e pedane – sono da considerare gli effetti delle pulizie di pasqua per cui sono stati utilizzati quei primi fondi, politiche anti-degrado che hanno interessato proprio le aree coincidenti con i distretti commerciali, con le zone di maggior frequentazione turistica. Ecco spiegata la seconda parola chiave di quel titolo di giornale, decoro. A piazza Garibaldi gli spazi antistanti gli ingressi della Stazione Centrale, costituiti dall’ampia tettoia sostenuta da pilastroni grigi tripartiti, accolgono il via vai dei passanti frettolosi e le file di famiglie con valigie in attesa del taxi. Le persone senza fissa dimora che avevano fino a poco tempo fa trovato riparo al di sotto della tettoia sono scomparse e con loro coperte e oggetti personali.
Al loro posto un veicolo per la pulizia delle strade fa avanti e indietro lungo il prospetto vetrato. Qualcuna di queste persone si sistema nella grande piazza disegnata dall’archistar Dominique Perrault, dove se possibile la situazione è ancora più precaria. Enorme spazio a cielo aperto scandito da volumi emergenti dal parcheggio sotterraneo e circondato dalla strada trafficata che arriva alla stazione. Partono le lamentele, «un’immagine imbarazzante» per il povero turista appena arrivato a Napoli che aspetta l’autobus. Salva invece la vista di quelli che prenderanno il taxi. Insomma, questo sgombero non è completamente riuscito. Lo si preannunciava già a gennaio, quando fu messo in scena un altro sgombero dei senza fissa dimora nella Galleria Umberto I.
Stessa strategia a piazza Cavour e alle Torri Aragonesi a via Marina. Scandalo per la Galleria Principe di Napoli, non ripulita in tempo per i vacanzieri. Per la Galleria Morelli, vicino piazza dei Martiri, la strategia ha invece previsto prima la delimitazione degli spazi porticati con transenne, poi la costruzione di cancellate con tanto di verniciatura fresca in tinta arancione sgargiante.
Le misure normative descritte – pulizia vuole in verità essere polizia – ben rispondono al Piano di Sicurezza Partecipata e Integrata firmato a gennaio in presenza della ministra dell’Interno. Nel testo, visto il decreto legge n. 14 del 2017, che, voluto dall’allora ministro Minniti, consente l’utilizzo da parte del questore del Daspo urbano, cioè un ordine di allontanamento da un certo spazio pubblico rivolto a chi disobbedisca alle regole che normano comportamenti e usi ammissibili in quello spazio, all’articolo 5 si legge dell’impegno a individuare le aree urbane da sottoporre a tale strumento. Al contrario, all’articolo 25 si legge di una zona a burocrazia zero a favore delle attività turistiche.
Simile loop economico a quello della turistificazione pasquale – si parte da risorse pubbliche per arrivare a ricavi privati – sembra essere previsto dalla proposta di Piano della Cultura 2022-2026 presentata a marzo per la città di Napoli. Nel documento recante le linee guida per la definizione di nuovi modelli di gestione per il patrimonio culturale di proprietà del Comune ricorrono indirizzi volti alla creazione di partnership pubblico-privato in cui ruolo fondamentale sarà affidato al terzo settore e alle imprese culturali e industrie creative, di un brand urbano che possa attrarre il mercato turistico culturale. La cultura, oltre a essere considerata “cifra distintiva” della città, è ritenuta “risorsa strategica”, “asset economico”. Il piano riguarderebbe beni come Castel dell’Ovo, Cimitero delle Fontanelle, Maschio Angioino, Pan, San Domenico Maggiore, per cui la forma di gestione prevista sarebbe quella della fondazione di partecipazione.
L’associazione Mi Riconosci? Campania ha fatto partire una petizione contro la privatizzazione della cultura a Napoli, criticando la gestione del patrimonio culturale attraverso strumenti privati e società partecipate, denunciando le condizioni precarie e non in regola del* lavorat* nel settore delle fondazioni culturali, rivendicando il diritto a poter accedere al patrimonio pubblico senza dover pagare un biglietto.
La petizione è stata da subito firmata da larga parte dell’attivismo urbano napoletano, presente al presidio dello scorso lunedì 11 aprile a Castel dell’Ovo. Si attende ancora un tavolo di confronto con l’amministrazione.
Ma ancora, riguardo la gestione dell’intero patrimonio immobiliare comunale, ecco che con il Patto per Napoli arriva un’altra doccia fredda. A fronte del rosso di 5 miliardi di euro del Comune, dal Governo arriveranno 1,2 miliardi nei prossimi 20 anni. Chiaramente, a delle condizioni. Tra queste, come si legge nel testo del Patto, «la valorizzazione e alienazione del patrimonio pubblico, attraverso il piano definito con la società Invimit». Invimit, Investimenti Immobiliari Italiani, è una società di gestione del risparmio del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che si occuperà di amministrare tra Comune e imprenditori un fondo immobiliare costituito da beni comunali. Sono 65.151 gli immobili comunali, per un valore totale stimato alla fine dell’anno scorso di 4 miliardi e 30 milioni. Esclusa l’edilizia abitativa pubblica, rimane circa la metà del totale di immobili.
Dalla Galleria Principe di Napoli allo stadio Maradona, per ora sembra che ne siano stati scelti 600. Valorizzare significa mettere a reddito, affittare, attrarre investitori internazionali. Alienare significa vendere, far passare un patrimonio pubblico a un privato, privatizzare.
Volendo provare a contestualizzare la situazione locale nel suo ambito geopolitico globale, o almeno occidentale, si capisce che brandizzazione, privatizzazione, ipervalorizzazione non sono strumenti inventati ad hoc dai napoletani. David Harvey (1989) è tra i primi a spiegare il fenomeno dell’imprenditorialismo nei sistemi di governance urbana, l’introduzione del privato nella gestione del pubblico e nelle politiche di governo del territorio di una città, che comincia a avere luogo nei paesi occidentali a partire dagli anni ‘70. È basato da un lato sul meccanismo del partenariato pubblico-privato, definito dalla volontà delle amministrazioni locali di una città di richiamare investimenti esterni, privati, e dall’altro sulla costruzione speculativa dei luoghi, cioè la necessità di creare immaginari urbani attrattivi, promuovendo il turismo, spettacoli ed eventi culturali temporanei, e producendo l’ideologia dell’identità locale e dell’orgoglio civico.
I sistemi imprenditoriali urbani e la privatizzazione dello spazio urbano pubblico – finanziarizzazione urbana – migliorando la qualità della vivibilità urbana per uno specifico gruppo della popolazione – gentrificazione urbana – ne escludono degli altri – marginalizzazione urbana – quei gruppi sociali la cui sopravvivenza dipende dalla possibilità – diritto alla città – di accedere a spazi non finanziarizzati. Costituendo strategia locale del neoliberalismo urbano, l’imprenditorializzazione del governo degli spazi può assumere forme diverse privilegiando una particolare direttrice di cambiamento in base alle specificità territoriali, come l’ecologia, la tecnologia, l’innovazione sociale, la cultura. Quest’ultima, associata alla creatività, nozione che ha assimilato il romantico talento artistico alla capacità imprenditoriale atavica del liberalismo economico (Pratt 2011), è fraintesa con la spettacolarizzazione, processo che a sua volta porta a accomunare la città a un’impresa culturale e creativa.
A questo punto, sorge spontanea la critica del tipo whose city – whose culture? (Zukin 1995), a chi è indirizzata questa costruzione dei luoghi e, soprattutto, chi esclude? Come giustificare la predilezione per il target turistico a discapito della città pubblica e l’egemonia del nuovo ceto medio consumatore?
Tamar Pitch (2013) ci suggerisce che la risposta è nella confusione tra criminalità e disagio, nell’uso della teoria del decoro e della sicurezza urbani come dispositivi retorici a legittimazione della classe economica dominante. Le politiche fondate sulla distinzione tra perbene e permale mettono a tacere il conflitto di classe, spostando il ruolo del governo del territorio da un piano politico a uno morale.
La logica dei Piani Integrati di Sicurezza Urbana è quella della teoria delle broken windows. Tutto ciò che crea disagio allo sguardo del perbene, cioè paura, è da riordinare. Sporco, disordinato, e fuori norma è criminale. Ma chi sono questi corpi fuori norma? Persone senza fissa dimora, vendit* ambulanti, mendicanti, giovani della mala-movida.
Stazionano nello spazio pubblico mercificato non potendo comprarlo. Allora fuori norma è chiunque voglia accedere allo spazio pubblico, usare il patrimonio pubblico, fruire dei servizi pubblici – magari anche riproducendo un tessuto relazionale che è proprio la sostanza di cui è fatto lo spazio urbano – senza pagare. Fuori norma è chi si è inventato dei sistemi economici alternativi alle logiche di mercato e in grado di produrre sostentamento e cura per comunità e gruppi di popolazione, per pezzi di patrimonio immobiliare pubblico e intere aree urbane.
Infatti, non a caso, dal calderone di immobili da pescare per il fondo Invimit vengono fuori anche quelli «occupati dai centri sociali», secondo un’infelice definizione attribuita anche qui da nota testata giornalistica. Apprendiamo la notizia proprio leggendo qualche quotidiano, poiché non risultano incontri tra l’assessorato di competenza e le diverse comunità a cui fanno capo i beni in questione in cui sia stata veicolata tale informazione.
Ci si riferisce ai Beni Comuni Emergenti a Uso Civico e Collettivo. Si tratta di spazi urbani in origine abbandonati, poi restituiti alla collettività attraverso l’Uso Civico. Con delibera del Consiglio Comunale n. 14 del 2011 a Napoli è introdotta nello Statuto del Comune la categoria giuridica di Bene Comune. È solo l’inizio di un percorso che avrà riscontro a livello urbano, nazionale, e internazionale, essendo quello napoletano considerato come uno dei casi maggiormente esemplificativi della stagione neo-municipalista europea che ha le sue radici nelle rivoluzioni urbane del 2011 e nei successivi movimenti urbani per il diritto all’abitare a alla città. Attraverso una serie di delibere di Giunta e Consiglio Comunali vengono riconosciuti come Beni Comuni con relative Dichiarazioni d’Uso Civico gli spazi ex Asilo Filangieri, nel 2012, Giardino Liberato di Materdei, Lido Pola, Villa Medusa, ex OPG, Scugnizzo Liberato, Santa Fede Liberata, ex Scuola Schipa, nel 2016.
Successivamente, vengono inseriti nel preliminare di PUC, Piano Urbanistico Comunale. Oltre alla Rete dei Beni Comuni di Napoli ne nasce una Nazionale che porta alla costituzione di una Commissione Popolare per la Legge sui Beni Comuni. Prima dei riconoscimenti amministrativi e internazionali, quella di questi spazi è una storia di lotta e di pratiche di cura per la collettività, di comunità composte di soggettività eterogenee che decidono di auto-organizzarsi attorno ai principi dell’auto-governo attraverso gestione assembleare aperta, dell’uso non esclusivo degli spazi, del rifiuto di ogni logica di mercificazione e del condizionamento degli spazi a qualsiasi contributo economico, della redditività civica, del mutualismo, l’estensione dei diritti urbani fondamentali attraverso la reciprocità e la gratuità delle relazioni sociali.
Tali pratiche non appartengono solo agli spazi riconosciuti dalla precedente amministrazione ma sono condivise da moltissime altre realtà urbane. Esse, riproducendo da decenni continuamente e quotidianamente il tessuto sociale complesso e resistente dei diversi quartieri napoletani, costituiscono spazi di cura e emancipazione urbane al pari dei precedenti.
È il caso del GRIDAS, Gruppo Risveglio dal Sonno, associazione culturale fondata nel 1981 allo scopo di mettere al servizio del quartiere di Scampia pratiche artistiche e culturali basate sull’impegno sociale e la creatività dal basso. Nel tempo il GRIDAS si caratterizza per le opere muralistiche create insieme a bambin* e abitanti del quartiere e per il Carnevale Sociale di Scampia. Stabilitosi sin dall’inizio in alcuni locali abbandonati di un centro sociale in via Monterosa, prima assolto da sentenza penale, è oggi condannato da sentenza civile che impone di pagare 15mila euro di spese processuali e lasciare l’edificio.
E ancora, spazio di cura è lo Sgarrupato, laboratorio sociale parte del polo giovanile Ventaglieri, recentemente al centro di un processo mediatico riguardo una visita non preannunciata dell’assessorato alle Politiche Giovanili. Il Parco Ventaglieri, che si estende dai piedi della collina del Vomero fino alla zona di Montesanto, viene realizzato nel 1981 nell’ambito del Programma Straordinario di Edilizia Residenziale, PSER, prevedendo un sistema di mobilità verticale di connessione tra i dislivelli di quota e un’infrastruttura sportiva mai attivata. Dalla metà degli anni ’90 comincia il percorso di auto-recupero delle attrezzature e degli spazi pubblici abbandonati. Questa esperienza è condivisa tra abitanti e comitati di quartiere, associazioni, e Spazio DAMM, Diego Armando Maradona Montesanto, che realizzano l’idea di un Parco Sociale fondando il Coordinamento del Parco Sociale Ventaglieri.
Alla rete di spazi e attività dei Ventaglieri è inoltre legata l’organizzazione di uno dei tanti altri Carnevali Sociali di Napoli, quello di Montesanto. Radicato in questo contesto, lo Sgarrupato, tra le tante pratiche di cura per i luoghi e le comunità che li abitano, è oggi impegnato in attività sportive e di socialità rivolte al* bambin* e iniziative di solidarietà cominciate durante la pandemia e proseguite con il sostegno al popolo ucraino.
È necessario e urgente parteggiare per tutte le realtà sociali urbane che negli anni instancabilmente e attraverso percorsi lunghi di rivendicazioni e resistenza hanno messo in pratica un modello di città opposto a quello imprenditoriale. Proprio sulla base di una prospettiva condivisa di resistenza al recente attacco ai Beni Comuni e allo scenario urbano mercificato che si presenta per Napoli, il prossimo 25 aprile le comunità di GRIDAS, Sgarrupato, DAMM, Parco Sociale Ventaglieri, Mi Riconosci?, CPRS, ex Convitto Monachelle, Villa de Luca Occupata, Giardino Liberato di Materdei, Lido Pola, ex OPG, Scugnizzo Liberato, Santa Fede Liberata, ex Scuola Schipa – solo per nominarne alcune – porteranno nel Parco Sociale Ventaglieri attività e pratiche che le caratterizzano, materializzando in un’atmosfera di festa nello spazio pubblico l’alternativa urbana possibile e praticata.
Tutte le immagini di Maria Reitano