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ITALIA

Musica e resistenza. Il rap di Hellsy rompe gli schemi

L’industria musicale si veste di inclusività, ma continua a escludere le voci scomode. Hellsy, rapper e attivista, sfida un sistema che premia solo modelli consolidati, intrecciando musica e politica per rompere gli schemi imposti dal mercato

Orgoglio sulla faccia alla faccia del tuo rifiuto
Con la rabbia di chi è oppresso e schiacciato senza un futuro
Dentro uno stato che mi odia in nome di Dio
So qual è il posto mio, qual è il mio spazio
Sono la voce di chi è perso nell’oblio
Mentre la sua dignità soccombe sotto un applauso[1]

Mentre la questione della parità di genere nell’industria musicale continua a emergere con forza, le dinamiche del settore restano profondamente squilibrate. Se da un lato si parla sempre più di inclusività, dall’altro il gender gap persiste, con una netta disparità nelle posizioni chiave: dalla produzione alla direzione artistica, fino alla discografia. L’industria musicale sembra ancora restia a dare spazio a narrazioni che sfidino gli stereotipi consolidati.

In questo contesto, la voce di Hellsy si distingue con lucidità e determinazione. Rapper e attivista, ha costruito un percorso artistico indipendente, affrontando le barriere imposte da un mondo ancora dominato da dinamiche maschili e logiche di mercato che tendono a strumentalizzare l’inclusività più che sostenerla.

In questa intervista, Hellsy racconta la sua evoluzione nel rap, il legame inscindibile tra musica e politica e le difficoltà di emergere in un panorama che ancora fatica ad accogliere voci fuori dagli schemi.

Un percorso a partire da sé

Hellsy racconta la sua storia nel mondo del rap come un’evoluzione naturale, quasi inevitabile. Per lei, la musica è stata fin dall’inizio uno spazio di sfogo, un mezzo per dire ciò che nella vita quotidiana non riusciva a esprimere con la stessa immediatezza.

«È stato un vero e proprio percorso. A un certo punto, il rap è diventato il mezzo attraverso cui riuscivo a esprimere ciò che, nella vita di tutti i giorni, non trovava spazio in modo esplicito. Inizialmente, la mia musica era fortemente influenzata dal fatto di essere una donna trans: ho sempre avuto il timore di quanto potessi davvero raccontare di me stessa. Così, a volte, riempivo le canzoni di elementi più leggeri, quasi come una sorta di meccanismo di protezione, restando comunque fedele a una certa estetica rap».

Con il tempo, però, il rapporto tra la sua vita e la sua musica si è stabilizzato.

«Essendo politicamente attiva e nutrendo una profonda passione per il rap e l’hip hop, ho compreso quanto questo genere sia un mezzo potentissimo per veicolare messaggi. Ha un impatto diretto, arriva con forza. Ho sempre sentito il bisogno di raccontare il mio percorso personale e nel tempo ho affinato la capacità di farlo attraverso la musica. Così mi sono detta: perché non intrecciare anche le mie riflessioni, le mie elaborazioni su determinate tematiche? È quello che sto provando a fare ora».

Un settore ancora chiuso

Il percorso di Hellsy rivela l’esclusione ancora radicata nell’industria musicale italiana. Se il rap offre già poco spazio alle donne, per un’artista trans le barriere sono ancora più rigide. Nato come protesta, il genere non è esente dal replicare le dinamiche patriarcali che voleva sfidare.

«Sento, inevitabilmente, una certa responsabilità, perché avere una voce è un privilegio e credo sia fondamentale usarla per dare rilevanza alle questioni giuste. Questo si intreccia profondamente con il mio percorso personale: quando ho intrapreso la mia transizione e ho fatto coming out, ho smesso di fare musica per cinque anni. Il timore di espormi in un ambiente come quello dell’hip hop, dove la figura femminile è da sempre marginalizzata, era paralizzante. A questo si aggiungevano le insicurezze personali che molte persone trans affrontano all’inizio del loro cammino: il dubbio di non essere abbastanza femminile, la paura del giudizio. Sono pensieri difficili da gestire, ma fanno parte del percorso ed è importante riconoscerli, perché decostruire i propri bias non è immediato se non si hanno gli strumenti per farlo».

Hellsy ha messo in pausa la musica per anni, cercando risposte. Solo in un contesto politico che le permettesse di elaborare la propria identità ha trovato la solidità per tornare al rap. «Ho ricominciato quando ho acquisito gli strumenti per affrontare certi discorsi nel modo giusto». Il suo percorso artistico e politico sono inscindibili: l’attivismo ha arricchito la sua musica di significati più profondi. Dall’impegno con Liguria Pride e Zena Trans fino a Non Una di Meno, la sua arte è diventata strumento di lotta e rappresentazione.

Hellsy ha sempre scelto con attenzione il contesto in cui muoversi, restando ai margini delle logiche di mercato.

«Ho sempre preferito restare indipendente e valutare con attenzione l’etichetta con cui lavorare. Negli ultimi anni, il mercato ha inseguito artisti con determinate caratteristiche, cavalcando il concetto -spesso vuoto- di inclusività. Un termine abusato, più funzionale al branding che a un reale cambiamento. Questo ha portato a una strumentalizzazione diffusa di battaglie e identità».

L’industria discografica, come qualsiasi altra industria culturale, risponde a logiche di mercato. La crescente attenzione sulle tematiche di genere e identità ha spinto le major a promuovere volti rappresentativi, spesso senza un reale impegno nel dare spazio a nuove narrazioni.

«Il rischio è essere sfruttati più che realmente supportati. Ci si ritrova intrappolati in una narrazione costruita dall’esterno, che risponde a esigenze di mercato più che a un vero riconoscimento artistico. Per questo sono sempre stata cauta: quando l’industria ti cerca più per ciò che rappresenti che per la tua musica, il confine tra visibilità e strumentalizzazione diventa pericolosamente sottile».

Nel panorama musicale, il percorso indipendente resta spesso l’unico modo per preservare la propria narrazione ed evitare di essere ridotti a una quota da riempire. Per Hellsy, l’identità non doveva diventare un prodotto da vendere.

«Ho cercato un’etichetta che non facesse della mia identità un elemento di marketing. Sarebbe stato facile proporsi come “artista trans che fa musica” cavalcando un trend. Nell’industria discografica, in molti casi, l’inclusività diventa solo un’operazione di facciata, senza scalfire le reali dinamiche di potere. Il gender gap resta enorme: le donne continuano a essere una minoranza e la retorica del politicamente corretto non ha cambiato lo status quo, limitandosi a creare qualche presenza simbolica».

Tali dinamiche si rispecchiano anche nel rap, dove il male gaze continua a influenzare la rappresentazione delle artiste. «Il problema è che la musica femminile viene spesso costruita per soddisfare un pubblico maschile, più che per esprimere liberamente la creatività di chi la fa. Esistono artiste incredibili, ma il sistema segue ancora logiche maschiliste e tende a incasellarle in ruoli prestabiliti. Il punto non è solo entrare nel mercato, ma riuscirci senza doversi adattare a queste regole».

Se alcune artiste riescono a imporsi con autenticità, il problema resta strutturale. La vera sfida è scardinare un’industria che accoglie la presenza femminile solo quando è funzionale alle sue logiche di mercato.

Nel mondo della musica, il problema non è solo la rappresentazione, ma l’accesso ai ruoli chiave. Le donne e le persone non conformi agli stereotipi di genere faticano a ottenere posizioni di direttive, sia nella produzione, sia nelle case discografiche. «Il gender gap esiste ed è profondo. È meno evidente rispetto alla produzione musicale, ma la percentuale di donne con ruoli decisionali resta bassissima». Anche quando una donna riesce a entrare nell’industria, il sistema resta dominato da uomini, limitando autonomia e possibilità di innovazione. Finché le decisioni artistiche, produttive ed economiche saranno prese quasi esclusivamente da uomini, il divario resterà tale.

«La musica riflette la società: se le donne continueranno a essere oppresse in un sistema patriarcale, questo si rispecchierà inevitabilmente anche nell’industria musicale».

Il marketing della tradizione e la narrazione sanremese

La riflessione di Hellsy si allarga dal contesto musicale a un discorso più ampio sulla società italiana e sulla sua regressione culturale in termini di rappresentazione femminile. Il gender gap nell’industria musicale, infatti, non è altro che una manifestazione di un problema più profondo, radicato in una visione ancora patriarcale del ruolo della donna. «Le donne faticano a emergere non solo nella musica, ma in ogni ambito. Persiste l’idea che debbano restare al loro posto, e in Italia stiamo tornando sempre più indietro. A molti piace ancora vederle relegate al ruolo di madri e custodi della famiglia. Basta guardare Sanremo: Carlo Conti ha presentato una delle co-conduttrici, Bianca Balti, definendola “Mamma e guerriera” un’esaltazione della maternità come unica identità possibile. Questa mentalità si riflette in tanti settori, musica compresa».

Sanremo è da sempre lo specchio della scena musicale italiana, con le sue trasformazioni e i suoi limiti. Se negli ultimi anni ha cercato di modernizzarsi, resta comunque legato a schemi tradizionali.

«Lo definisco un “Sanremo di governo” perché l’idea di un Festival apolitico è una costruzione artificiale. Ogni scelta ha un peso politico. Chi si dichiara neutrale, spesso finisce per favorire chi è già al potere».

Questa edizione di Sanremo ha segnato un evidente appiattimento dei testi, con l’esclusione di qualsiasi elemento di rottura o denuncia sociale. «Lo hanno detto chiaramente: un Festival che parla di famiglia, non di guerra. Il risultato? Un’ondata di canzoni d’amore, molte delle quali superflue, e pochi artisti capaci di distinguersi davvero».

Oltre alle scelte artistiche mainstream, a colpire è soprattutto l’assenza quasi totale di artiste queer e di tematiche politiche. «La selezione è stata chirurgica: nessuna vera voce queer sul palco. L’unico a sfiorare un discorso politico è stato Willy Peyote. Per il resto, tutto estremamente piatto. Ho apprezzato la rappresentanza dell’hip hop con Shablo, Guè, Joshua e Tormento, ma nel complesso il Festival è stato costruito per evitare qualsiasi voce scomoda».

Uno dei momenti più controversi del Festival è stata l’esibizione in cui due artiste israeliane hanno cantato Imagine, di John Lennon. Un gesto che è stato presentato come un messaggio di pace, ma che in realtà veicola una retorica superficiale e pericolosa.

«La questione più problematica è quella legata alla performance di Imagine, interpretata da due artiste israeliane. Per quanto una delle due abbia origini palestinesi, entrambe hanno rappresentato Israele all’Eurovision. Questo momento del festival ha portato in scena la solita retorica della pace, come se non stessimo assistendo a un genocidio, come se le due parti fossero sullo stesso piano, come se fossero due Paesi che si stanno distruggendo a vicenda».

Ma la realtà, sottolinea Hellsy, è ben diversa.

«Qui stiamo parlando di una superpotenza militare che sta massacrando un fazzoletto di terra, provocando un numero di morti spaventoso. E oggi le opzioni che vengono paventate sono quelle della deportazione della popolazione palestinese. Questa non è una guerra. E francamente, a me non interessa sentire Imagine. Perché in questo contesto siamo dalla parte sbagliata della storia».

Questa dinamica non è nuova: l’anno scorso, l’artista Ghali aveva parlato pubblicamente della questione palestinese e aveva subito un’ondata di critiche e pressioni. «Abbiamo assistito a un vero e proprio processo contro Ghali per aver detto una cosa giusta, una cosa vera. Quest’anno, prevedibilmente, Ghali è stato completamente escluso dal Festival. E probabilmente, finché questo governo sarà al potere, non vedremo più situazioni come quella».

Sanremo 2025 lascia una sensazione di vuoto e appiattimento, con poche voci capaci di portare autenticità sul palco. «Mi sono ritrovata a provare un vuoto così forte che l’unico artista con cui ho finito per empatizzare davvero è stato Fedez. Non lo avrei mai pensato», osserva Hellsy, riconoscendo che il suo brano sulla depressione sia stato tra i pochi momenti sinceri del Festival. Tuttavia, riconosce il talento di alcuni artisti in gara: «Ci sono anche due persone che conosco da anni, Bresh e Olly, due genovesi che spaccano davvero». Ma l’impronta politica dell’evento è chiara: «Un Festival volutamente piatto, dove ogni scelta è stata fatta per evitare qualsiasi discussione scomoda». In un momento storico in cui la musica potrebbe essere uno strumento di denuncia e cambiamento, il Festival di Sanremo ha preferito rimanere un luogo sicuro, evitando qualsiasi scossa e confermandosi, ancora una volta, uno specchio fedele dello status quo.

Dietro la facciata dell’apoliticità, l’evento trasmette messaggi ben precisi. L’ennesima conferma arriva dalla reazione di Simone Pillon, ex-senatore noto per le sue posizioni ultraconservatrici, che ha colto l’occasione per elogiare il brano di Simone Cristicchi dedicato alla madre, trasformandolo in un manifesto della sua visione della famiglia tradizionale.

Per Hellsy, si tratta dell’ennesimo tentativo di trasformare un messaggio universale in una bandiera ideologica. «Pillon ha colto l’occasione per esaltare un Sanremo costruito su una narrazione conservatrice, che lascia fuori tutto ciò che riguarda l’inclusione LGBTQIA+», osserva. «La cura non è prerogativa della destra. È uno dei nostri grandi temi e non abbiamo nulla da imparare da chi cerca di escluderci da questo racconto».

Sanremo resta una delle vetrine musicali più influenti, ma quest’anno, sottolinea Hellsy, ha escluso quasi del tutto narrazioni alternative, imponendo un’impronta etero-cisnormativa e un messaggio preconfezionato.

Come si può scardinare un’industria che continua a riproporre gli stessi messaggi, lasciando ai margini le narrazioni più scomode? La risposta non è semplice. «Se Sanremo resta la principale vetrina italiana e il mercato musicale segue questa direzione, la situazione sembra bloccata. Il problema non è solo musicale, ma profondamente radicato nelle dinamiche sociali e politiche. Esistono artiste straordinarie che stanno costruendo i loro spazi e creando momenti incredibili, ma sfondare nel mainstream è tutt’altra storia. Finché la società non cambia, sarà sempre difficile vedere una reale apertura».

«Il rap stesso ha dimostrato che Sanremo non è l’unica via per arrivare al successo e imporsi nel mainstream. Anzi, la storia dell’hip hop italiano racconta di artisti che hanno scalato le classifiche senza mai passare dal Festival, costringendo piuttosto Sanremo a rincorrere un genere già consolidato. Il percorso indipendente e l’autenticità della scena rap hanno spesso permesso di aggirare le logiche più chiuse del sistema musicale tradizionale. Certo, il fatto che oggi molte e molti rapper scelgano di partecipare a Sanremo e, in quel contesto, smettano di fare rap per trasformarsi in cantanti di altro tipo è un dato concreto, ma il punto resta: il Festival non è l’unica porta d’accesso. Il rap insegna che si può arrivare al grande pubblico anche senza piegarsi alle dinamiche imposte da Sanremo e dall’industria che gli ruota attorno».


[1] Dal testo della canzone Mantra di Hellsy

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