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CULT
Il movimento beat e i suoi giornali
Come nascono i beat italiani? Il movimento si impone nel panorama milanese degli anni Sessanta. Tra importazione musicale e letteraria statunitense, immigrazione verso le metropoli, lotte nelle fabbriche e forme di aggregazione comunitaria negli spazi urbani
La grande immigrazione interna degli anni Sessanta ha determinato la modificazione profonda del volto delle metropoli industriali e degli stessi comportamenti collettivi. Lo scontro nelle fabbriche diventa via via più aspro. La polizia effettua pestaggi quotidiani. Le denunce sono migliaia.
Tutti i settori della società civile registrano fermenti di novità: dal mondo cattolico, col diffondersi del dissenso cristiano, al mondo della scuola, dove il diffondersi della scolarizzazione di massa è il terreno di coltura delle prime forme di «contestazione».
Il terreno delle «suggestioni internazionali» è dominato dalle vicende della Rivoluzione cubana, dalla Rivoluzione culturale cinese, dalle lotte dei neri d’America e dall’opposizione alla guerra nel Vietnam.
Gli stessi modelli di aggregazione giovanili sono in rapida trasformazione. Si diffondono i complessi rock come risultato di una nuova generazione di cantautori che hanno subito il profondo influsso della rivoluzionemusicale dei Beatles, di Bob Dylan, di Joan Baez e altri.
Da tempo sono apparsi nelle piazze gruppi di «capelloni» con il loro variegato bagaglio di jeans, camicie, collanine e lo slogan unificante «Fate l’amore non fate la guerra». Sono l’equivalente italiano dei «figli dei fiori» che avevano rivoluzionato la cultura americana negli anni Sessanta. Un modello d’importazione quindi, ma che rispondeva a profonde esigenze e bisogni generazionali che stavano per esplodere in maniera incontenibile.
Nascevano in questo clima i beat italiani. Minoritari, spesso sottoproletari, figli dell’immensa sconosciuta provincia, sospinti nella metropoli alla ricerca di un quasi impossibile sogno di liberazione totale e comunitario. Vennero subito duramente osteggiati, derisi, diffamati, repressi. I giornali della borghesia, con in testa il «Corriere della Sera», esibirono tutto il collaudato armamentario reazionario in una battaglia pressoché quotidiana contro il pericolo sociale rappresentato dagli «zazzeruti», «capelloni», «neobarboni», teppisti» ecc. Le uniche forze politiche che dimostrarono di capire le profonde motivazioni politiche e culturali dei beat furono gli anarchici e i radicali.
In questa situazione la dinamica di aggregazione della comunità beat era sempre più difficile. I beat, infatti, tendevano a creare forme di vita in «comune» affittando negozi, abbaini, seminterrati. In particolare a Milano, negli anni ’65-67, furono attivati tentativi di questo tipo in Via Montenero, Via San Maurilio, Sesto San Giovanni, fino al tentativo estremo di creare un grande accampamento beat in fondo a via Ripamonti.
La tendopoli beat nasce nella primavera del ‘67 su un terreno regolarmente affittalo sulle rive del canale Vettabbia. Immediatamente il «Corriere della Sera» ribattezzò la tendopoli con il nomignolo di «Nuova Barbonia», dando il via a una violenta campagna stampa volta a ottenerne la distruzione. Lo sgombero e la distruzione della tendopoli avvennero in modo violento c i suoi occupanti vennero dispersi con l’uso dei «fogli di via», i ricoveri al Paolo Pini, le denunce e le intimidazioni.
Se la distruzione della tendopoli è uno degli episodi salienti della vicenda beat a Milano, non bisogna però dimenticare che la complessa comunità dei capelloni nei due anni precedenti si era data molto da fare per legittimarsi dentro la società civile, attuando una grande quantità di manifestazioni su temi politici e culturali: sfilate per il Vietnam, in difesa di Malcom X, di Che Guevara, poi marce per la pace e in difesa dell’antimilitarismo e dell’obiezione di coscienza. I mezzi per propagandare le loro iniziative erano costituiti essenzialmente da volantini e manifesti eliografaticaratterizzati da una grafica molto originale e suggestiva realizzata attraverso una specie di patch-work ocollage ricavali da immagini di giornali, riviste e materiali dei media tradizionali. Tutto questo materiale “inerte” veniva assemblato insieme a disegni originali su «lucido» per la realizzazione eliografica. Il risultato finale rendeva inconfondibile il messaggio, contribuendo a creare una sorta di “stile” che verrà ripreso da molti e per molti anni.
Ma gli elementi più attivi del movimento beat sentivano il bisogno di avere strumenti propri di informazione, soprattutto per consolidare e approfondire il proprio progetto culturale e per contrastare le menzogne del «Corriere della Sera». Fu così che nacque, nel 1966, il primo numero di «Mondo Beat». Ne uscirono quattro numeri[1]. In concomitanza con la «soluzione liliale poliziesca» di «Nuova Barbonia», doveva passare alle edizioni Feltrinelli, ma la base del «movimento» si ribellò e produsse in ciclostile «(Grido Beat», cambiando poi ogni volta nome per evitare la legge sulla stampa.
I contenuti di questo giornale andavano dalla puntuale contestazione delle bugie della stampa borghese alla diffusione della cultura underground americana, soprattutto Ferlinghetti, Corso, Ginsberg, Kerouac che erano sempre stati, insieme a Miller e Burroughs, i grandi modelli dei beat e alla cui diffusione in Italia hanno dato, insieme alla «mamma dei beat» Fernanda Pivano, un contributo fondamentale.
Altre tematiche portanti erano le filosofie orientali e le terapie reichiane legate alla liberazione sessuale, la tematica delle droghe leggere e degli «acidi» che «dilatano la coscienza», contrapposte alle droghe pesanti o «fasciste».
Ma la breve stagione di «utopia» dei pacifici «figli dei fiori» italiani, dopo la distruzione di «Nuova Barbonia» volgeva al termine. Si era alla vigilia dell’irrompere del grande fiume del ‘68 che tutto avrebbe unificato e tutto di nuovo diviso.
Gli intellettuali e gli «intellettualizzati» del «movimento» diedero vita, nel dicembre del 1967, al primo numero di «Pianeta Fresco», e, nel 1968, al secondo numero. Due numeri di centinaia di pagine di una rivista per alcuni versi straordinaria. Una grafica stupefacente mediata dal «San Francisco Oracle» dei Leary, Ginsberg, Walts ecc. Grandi artefici di «Pianeta Fresco»: Fernanda Pivano, Ettore Sottsass e decine di hippie ormai adulti che trasfusero nella rivista la parte migliore del grande sogno beat. Una specie di testamento struggente ma carico di forza. Scriverà la Pivano dieci anni dopo: «La stagione di “Pianeta Fresco” finì senza morire… con la speranza o il sogno o l’utopia di repressioni ed eccidi evitati se solo la barbarie del capitale fosse stata evitala».
La componente della cultura underground rimarrà una costante nelle culture giovanili degli anni Settanta. Una cultura parallela a quelle più diffuse dei movimenti politici rivoluzionari, con le quali si incontrò, si fuse e si separò più volte, mantenendo però una sua sorprendente specificità. L’esempio più riuscito di giornale di “confine” tra l’underground e il politico è senza dubbio rappresentato da «Re Nudo» che durerà dieci anni raggiungendo anche grandi tirature. Ma a fianco di «Re Nudo» continuerà a svilupparsi una vasta area di pubblicazioni che si doteranno anche di proprie strutture distributive come l’I.A.P. (Internationale Alternative Presse), che coordinerà la diffusione di decine di testate («Tazza da tè», «Paria», «Omicron», «Gel Ready» ecc.) o come Stampa Alternativa che prosegue la sua attività ancora oggi.
[1]In realtà uscirono sette numeri. Va inoltre precisato che «Mondo Beat» non passò mai «alle edizioni Feltrinelli». Il giornale apparteneva di fatto al «Movimento Beat» costituito dai fondatori Vittorio Di Russo e Gennaro De Miranda, con l’apporto organizzativo di Melchiorre «Paolo» Gerbino e il finanziamento da parte di Umberto Tiboni, conosciuto come «il ragioniere di Mondo Beat». Non era una «proprietà privata», sebbene formalmente, all’atto della registrazione in data 31/1/1967 presso il Tribunale di Milano al n. 32 del Registro Ufficio Stampa, al fine di conformarne la stampa e la diffusione alle leggi ed evitare pretesti legali peri continui sequestri a cui venivi» sottoposto fin dai primi numeri, Melchiorre Gerbino figurasse come «editore e direttore responsabile». Durante la confusione seguita alla distruzione del campeggio e alla chiusura della Cava di via Vicenza, gli fu dunque possibile – pochi giorni prima di partire per il Marocco – vendere disinvoltamente la testata a un suo amico di Calatafimi, Beppe Bica detto «Lu Zu Pè» (Lo Zio Peppe), che l’acquisto al prezzo di Lire 100.000. con Atto del Notaio in Milano Edoardo Fasola, in data 21 ottobre 1967.
Il movimento beat e i suoi giornali, in Gianni De Martino, Marco
Grispigni, I Capelloni. Mondo Beat, 1966 1967. Storia, immagini, documenti, Castelvecchi, Roma, [novembre] 1997, coll. “I libri di DeriveApprodi”, a cura di Sergio Bianchi
[da Gli anni affollati. La rivista politica antagonista negli anni ’70, a cura del
Centro Giovanile Tradatese e del Centro di Documentazione di
Varese
Si ringrazia Marco Philopat per le immagini da I viaggi di Mel, Shake edizioni