MONDO
I movimenti migratori e le nuove strategie coloniali
Dietro le ondate migratorie che stanno dividendo l’opinione pubblica europea, bisogna vedere la responsabilità dei paesi europei nella distruzione dei sistemi sociali ed economici dei paesi di provenienza.
L’attuale crisi migratoria e le politiche messe in campo per governarla non risalgono a oggi.
Il 26 luglio 2007, l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy, presso l’università Cheikh Anta Diop di Dakar, sostenne che il dramma del continente africano è determinato dal fatto che «l’uomo africano non è entrato nella storia abbastanza». Che cosa voleva dire se non che l’africano è eminentemente immaturo, forse ancora «fardello dell’uomo bianco» (The White Man’s Burden, Rudyard Kipling, 1899)? Questa prospettiva è la base su cui si fondano le scelte politiche con cui si vuole, o meglio si tenta di amministrare i fenomeni migratori, a partire dalla consapevolezza che gli stati che accolgono, diciamo pure l’Europa intera ha seriamente bisogno della ricchezza dei paesi di origine di questi uomini, donne, bambini. Naturalmente l’accoglienza non viene rivelata come contropartita dello sfruttamento, anzi. I respingimenti, i centri di detenzione, le espulsioni, i rimpatri, la rendono sempre più un desiderio per pochi fortunati. Mentre le cause storiche che determinano i massicci spostamenti di persone vengono completamente oscurate. Come vengono nascoste le responsabilità dei paesi europei nella distruzione degli ecosistemi, del tessuto economico e sociale nei paesi sfruttati. Si parla così di migranti economici, come se il commercio non assumesse la forma, oggi, di una guerra dichiarata a popoli che non hanno chiesto nulla.
Un esempio nitido è rappresentato dalla storia delle relazioni UE-ACP (Africa, Caraibi, Pacifico) che equivale a una marcia forzata verso il libero scambio. Le tappe di questa strada possono essere individuate nei seguenti accordi e convenzioni: la Convenzione di Yaoundé (1963 – 1975), le quattro convenzioni di Lomé (1975 – 1995) e l’accordo di Cotonou (2000).
Si tratta di patti attraverso cui alcuni paesi europei hanno voluto amministrare il processo post-coloniale. Fino alla fine degli anni ’60, la politica europea di aiuto ai paesi in via di sviluppo si concentrava sui paesi precedentemente colonizzati. Fin dalla nascita del mercato comune europeo, le ex colonie di Francia, Belgio, Italia e Paesi Bassi sono state al centro della politica di aiuto allo sviluppo della comunità europea. Ma per evitare che, a seguito dell’indipendenza, questi territori cominciassero a negoziare separatamente i loro rapporti, il trattato di Roma (25 marzo 1957) stabilì un sistema di associazione di paesi e territori d’oltremare, per preservare relazioni speciali con le ex colonie. Da quel momento la politica di cooperazione comunitaria tra l’UE e i paesi ACP è stata a lungo considerata un modello di partenariato Nord e Sud. È stato così creato un quadro istituzionale permanente che accompagnava e determinava le relazioni, tutte fondate sul libero scambio e sugli aiuti allo sviluppo. In questo modo il principio economico liberista è diventato la regola imposta anche a paesi strutturalmente arretrati o culturalmente lontani dallo stesso. E sono proprio le regole e le politiche avide del liberismo e del neo liberismo a determinare il destino della maggior parte dei migranti.
L’assenza di un’adeguata analisi socio–economica, relativa alle cause delle migrazioni, oggi porta a nascondere le imponenti responsabilità dei paesi europei, generando gravi fenomeni di razzismo che raggiunge gli eccessi che avevamo conosciuto proprio solo durante i processi di indipendenza. Mi pare che al centro di tutti i nostri discorsi dovremmo situare ancora l’impossibilità di determinare e gestire le proprie esistenze, al di fuori dei vincoli imposti del libero mercato.
Per far fronte all’emergenza che essi stessi hanno determinato – provando a gestire da un lato il riemergere del razzismo, dall’altro il fenomeno migratorio – i paesi europei stanno pianificando l’apertura di centri di smistamento europei nei paesi di partenza. È un modo, nemmeno troppo velato, di spostare e allargare il confine europeo. E a guidare questo progetto politico ed economico sono logiche di subappalto dei servizi di polizia, e dunque della violenza istituzionale.
I primi morti e feriti a Ceuta e Melilla (settembre 2005) sperimentavano questa logica.
Intanto i nostri paesi di origine sono invitati a firmare accordi di riammissione dei migranti, procedendo nel frattempo nelle politiche di liberalizzazione del mercato. A garantire il controllo su questi processi concorre la presenza massicci di militari degli eserciti europei, come quello francese. Ufficialmente si tratta della lotta al terrorismo, come nell’operazione Barkhane nel nord del Mali, cominciata il 13 gennaio 2013. In realtà i soldati operano per il controllo dei flussi migratori.
Io non ho mai nutrito illusioni sul vero motivo di queste missioni, conoscendo il legame tra i fenomeni migratori e i piani di aggiustamento strutturale imposti ai paesi di origine, che hanno distrutto o impedito lo sviluppo di servizi, proprietà pubblica e beni comuni. È forse più interessante notare come questi problemi comincino a manifestarsi anche alla periferia delle grandi città europee. A Parigi, a Seine-Saint-Denis ritroviamo gli stessi “mali”, l’assenza dello stato, l’innalzamento delle condizioni di accesso alle cure o all’educazione descrivono un deterioramento costante dello stato sociale. È al lavoro la stessa logica che ha logorato molti paesi africani.
L’esempio del Mali, mio paese di provenienza, dimostra che avremmo bisogno di politiche economiche e sociali dedicate, non di direttive imposte dall’alto. La gerarchia militare francese dopo i recenti attacchi – 27 gennaio 2018, contro una caserma nella quinta regione di Mopti (14 soldati morti); 18 giugno 2018, contro un resort a Bamako frequentato da occidentali (20 morti); 24 giugno 2018 a un villaggio (36 morti), 2 luglio 2018 a una pattuglia militare nel nord del Mali – sostiene che non può esserci soluzione militare in Mali. La Francia avrebbe ammesso che la sua strategia ha raggiunto i suoi limiti, proprio mentre la sicurezza per la popolazione va lentamente peggiorando. Quello che accade alla Francia e alle sue strategie rappresenta in realtà la condizione delle politiche europee nel loro insieme. Nello sviluppo e nella diffusione forzosa del neoliberismo, nelle guerre per procura e nell’estensione del confine europeo, ben oltre l’Europa, stiamo assistendo alle possibilità di un affossamento morale della stessa, del commercio e dell’economia internazionale.