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MONDO

Mosopysiek di Benet. Comunità indigene sotto sgombero in nome della conservazione

Dagli altopiani del Monte Elgon, Uganda, la resistenza dei Mosopisyek di Benet ai piani della conservazione coloniale ci mostra un nuovo modo di affrontare la crisi climatica alle sue radici

Un video dalle immagini sgranate e poche parole in un messaggio di testo: «Good morning my friend, how is Italy?» «Buongiorno amico mio, come va in Italia?». Alex, membro del popolo indigeno dei Mosopysiek di Benet in Uganda, inizia così a raccontare cosa sta succedendo nell’area di Mount Elgon dove vive.

Stanno sgomberando la sua gente, cacciatori-raccoglitori indigeni, dalla loro terra ancestrale, come aggiunge poi nel messaggio, in nome della conservazione: «A lot is happening to our people, we are being evicted, arrests, shootings, like we don’t belong to this country». «Stanno accadendo molte cose alla nostra gente, ci stanno sgomberando, arresti, spari, come se non appartenessimo a questo paese».

È la Uwa, Uganda Wildlife Authority, per volontà del governo ugandese, finanziato dai progetti delle grandi Ong della conservazione occidentale come la Iucn, Unione internazionale per la conservazione della natura, con sede in Svizzera, che gli sta sparando addosso

Come si vede dal video che il contatto ugandese ci ha mandato, i ranger sparano addosso ai pastori, che scappano con le loro mucche, loro unico mezzo di sostentamento, per evitare che gli vengano sequestrate. In base allo Uwa Act del 2019, che regola la gestione delle aree di conservazione, infatti, ai pastori è severamente proibito andare a pascolare nelle aree protette come il Mount Elgon National Park, pena il sequestro del bestiame, che riescono a ottenere indietro pagando una multa di 50.000 Ugandan shilling per capo di bestiame (circa 14 dollari americani), una misura repressiva che sta impoverendo le comunità dell’area.

Ho conosciuto i Mosopysiek di Benet in un recente viaggio in East Africa. Erano al centro di un progetto documentaristico sulle aree di conservazione in Uganda e le conseguenze sulla vita delle comunità indigene. Ci hanno mostrato le caverne dove erano soliti vivere e gli altopiani sterminati, la profonda malinconia per una terra che chiamavano casa; ci hanno raccontato una storia, che abbiamo poi scoperto essere una storia comune a molte comunità indigene dell’East Africa, una storia di sgomberi e di appropriazione indebita e violenta di terre ancestrali in nome della conservazione della natura.

Il loro stile di vita tradizionale in pacifica convivenza con fauna e flora selvatiche, sostanzialmente immutato da millenni, dedito alla pastorizia, raccolta di erbe medicinali e miele dalle api selvatiche di cui si prendono cura e che ha contribuito a dar forma a un ecosistema ricchissimo di biodiversità, non rientra nei piani del modello di conservazione occidentale di stampo coloniale, anzi viene considerato dannoso ai fini della protezione della biodiversità e della salute delle foreste. Il sistema di micro agricoltura di sussistenza che praticano, le forme di pastorizia nella foresta, vengono attaccate frontalmente come le principali forme di degrado della foresta primaria, dimenticando forse l’operazione di estrazione e sfruttamento di risorse ecocida che l’Occidente coloniale porta avanti da secoli in questa regione dell’Africa.

Dall’esproprio della terra da parte del governo coloniale britannico nel 1920 fino all’attuale gestione del parco nazionale creato nel 1993, l’approccio alla conservazione mantiene lo stesso tenore coloniale, che genera violenza strutturale contro gli indigeni marginalizzati per gli interessi dell’impero britannico prima e ora per le politiche di conservazione delle Ong occidentali che non li considerano in grado di gestire la protezione della loro terra ancestrale

La creazione e la demarcazione di un’area di conservazione risulta essere storicamente uno dei primi passi che i coloni compiono per appropriarsi delle terre comuni, sconfiggere la resistenza indigena e imporre i propri interessi di sfruttamento su di esse. Proteggere la natura selvaggia dalla presenza dell’uomo è il primo passo per lo sfruttamento delle risorse.  Ancora oggi l’infantilizzazione di queste comunità risulta essere strumentale per riattivare nuovi processi di enclosure e land grabbing, demarcazione di aree in comune che diventano poi a uso esclusivo del turismo bianco, il solo che si potrà permettere il prezzo del biglietto d’ingresso. Oltre poi a costituire una gigantesca operazione di greenwashing in cui si mistificano i reali vettori del cambiamento climatico e della degradazione dell’ambiente, essendo il continente africano responsabile solo del 3,8% delle emissioni inquinanti a livello globale, con Cina, Stati Uniti ed Europa al contempo responsabili del suo 55%.

Da un report sulla violazione dei diritti umani stilato dalla Benet Mosop indigenous community association del novembre 2023, sottoposto poi alla Iucn senza ottenere alcun risultato, le comunità chiedono a gran voce al governo ugandese di riavere indietro la propria terra, di cui sono stati i guardiani per millenni; chiedono che i fondi occidentali e le Ong della conservazione interrompano i finanziamenti alla Uganda Wildlife Authority e alla loro gestione militarizzata del parco e soprattutto chiedono di entrare a far parte in maniera attiva in una gestione partecipata dell’area,  che possa mettere al centro le conoscenze indigene tradizionali e superare la logica della conservazione calata dall’alto del paternalismo dell’Occidente.

Due concezioni opposte attorno alla conservazione, l’una che affonda le proprie radici nella storia coloniale in cui i governi occidentali decidono cosa fare delle terre comuni e dei popoli del Sud del mondo, l’altra ancora inedita, in cui le comunità indigene prendono il controllo attivo della gestione e della protezione delle terre su cui hanno da sempre vissuto e che, da quando l’uomo bianco ha messo piede nel continente iniziando a tracciare confini e proprietà, è stata una forma di resistenza attiva al modello di sviluppo capitalistico che portavano con sé.

 Mettere fine a una storia durata ormai troppo a lungo e restituire la centralità politica che spetta a queste comunità significa anche iniziare ad affrontare la crisi climatica alle sue radici, imporre nuovi modi di vivere nella natura e mettere in discussione finalmente il modello di sviluppo capitalistico e le sue forme coloniali.

Immagine di copertina a cura dell’autore dell’articolo, Matteo Carosi


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