EUROPA

Monsieur le Président

Lo scontro fra Trump e Zelensky ha svelato la fragilità dell’Europa, suscitando reazioni bellicose quanto impotenti. C’è tuttavia la certezza di un aumento delle spese militari e il rischio di chiedere truppe di interposizione anche all’Italia. La nostra risposta è NO?

Lo sganciamento di Trump dalla guerra in Ucraina e dall’Unione europea e lo sdoganamento di Putin hanno fatto saltare tutti i parametri del discorso “occidentale”, costituendo (insieme ai dazi) la più clamorosa iniziativa internazionale della nuova presidenza Usa. Alle parole rissose sono prontamente seguiti i fatti, cioè la sospensione degli aiuti militari stanziati e in via di consegna nonché l’entrata in vigore effettiva della prima ondata di dazi.

L’apertura di un processo di pace in Ucraina (colpevolmente trascurato dalla Ue e dal nostro Governo, succubi di Biden per tre anni) è avvenuto con metodi ricattatori e mafiosi, come tutte le altre gesta del tycoon, fino al trappolone della pubblica umiliazione in diretta Tv dalla Studio ovale, ma ha scatenato contraddizioni decisive in seno allo schieramento europeo, alle forze di maggioranza e a quelle di opposizione.

L’Europa è stata messa di fronte alla propria debolezza politica e militare nel momento in cui Trump, trattando la pace direttamente con Putin, le ha scaricato addosso la responsabilità di sostenere l’Ucraina sul piano economico e militare in alternativa all’abbandono puro e semplice di quel Paese nelle mani dei Russi dopo averne follemente sollecitato la resistenza “fino alla vittoria”.

Macron e Starmer, forti del possesso esclusivo di un “ombrello atomico”, invocano (immemori del fosco precedente blairiano del 2003) una “coalizione dei volenterosi” e propongono di continuare il sostegno all’Ucraina e comunque di garantire l’eventuale pace o tregua con l’invio di un contingente europeo di interposizione. Naturalmente senza ritrattare la Brexit e senza tener conto del fatto che Trump inasprirà ancor più la sua linea di abbandono dell’Ucraina e di sabotaggio all’Europa. Quindi con un fronte tutto chiacchiere e distintivo, abbracci e pacche sulle spalle, con un fragilissimo tentativo di egemonia regionale franco-britannico che, in ogni caso, poggerebbe sul possesso di un ombrello atomico (senza rete satellitare autonoma) e su un futuribile esercito comune che registra già il no all’invio di truppe sul suolo ucraino da parte di Polonia, Germania e Italia.  Sull’aumento delle spese militari tutti sembrano d’accordo, ma ognuno andrà avanti di fatto secondo i propri bilanci e i propri interessi, senza nessuna concreta centralizzazione strategica. Ungheria e Slovacchia propendono per una resa alla Federazione russa e in pratica per l’abbandono delle sanzioni.

Il governo italiano continua a vaneggiare di un improbabile “ponte” fra Usa ed Europa e su vertici comuni poco plausibili dopo la rissa dello Studio ovale, il che rispecchia l’estrema debolezza economica di un’Italia in via di deindustrializzazione e con una maggioranza spaccata tra filo-putiniani della Lega, euro-illusi di FI e “trumpiani dentro” di FdI. Alla fine Meloni prenderà atto e si accuccerà alla corte di Trump, dopo aver constatato che non ci sono alternative Onu, Nato o Ue a una forza di interposizione su cui pesa il veto di russi e statunitensi.

La sinistra continua a essere a pezzi. Schlein si è indignata per il bullismo di Trump e ha ribadito il suo impegno europeista (peccato che non trovi sponde, se non l’atlantismo rabbioso di von der Leyen e il vaniloquio di Francia e Inghilterra). L’adesione sdraiata alla manifestazione promossa da Michele Serra (!) è esemplare per velleitarismo. Sanno che la guerra si esaurirà per asfissia degli aiuti Usa e però abbaiano per farla continuare e aiutare l’Ucraina a perdere altri pezzi di territorio e altre migliaia di combattenti. Non è un caso se la direzione Pd si sia azzuffata sui referendum sorvolando sull’imbarazzante situazione internazionale. Ribadire la pur corretta distinzione fra aggredito e aggressore non porta da nessuna parte davanti al problema di come finire una guerra sciagurata e lasciata marcire fino al crollo degli aggrediti. L’unico risultato pratico sarà un’ulteriore spaccatura non solo fra il Pd da una parte e M5S e Avs dall’altra, ma lo scollamento fra Pd ed elettori e infine all’interno del Pd stesso. Praterie spalancate nel medio periodo per il pacifismo a oltranza di Conte e le sue ambizioni di leadership sul campo largo, nel breve una boccata d’ossigeno per un governo in affanno e una buona scusa per tagliare il welfare.

Al momento il pericolo – e speriamo si tratti solo di ipocrita retorica per salvarsi l’anima – è che ci si proponga tanto un sicuro e rovinoso aumento delle spese militari a scapito della produzione industriale civile, dei salari e del welfare quanto il meno probabile invio di una forza militare in sostituzione della copertura Usa sul fronte ucraino. Si parla di 20-25.000 peacekeeper nelle retrovie, laddove è evidente che per difendere un confine lungo migliaia di km servono due-trecentomila soldati con una copertura aerea ed elettronica che non possediamo e in una situazione che rischia di essere di guerriglia intermittente se non di guerra convenzionale.  83 anni dopo la sciagurata spedizione fascista del Csir (poi Armir) i soldati italiani dovrebbero partire di nuovo per uccidere e morire in Ucraina.

Ai tempi della sporca guerra in Indocina Boris Vian scrisse una canzone, ufficialmente pubblicata nel 1954, l’anno di Dien Bien Phu, in cui si rivolgeva al Presidente – Le déserteur o dal primo verso Monsieur le Président, divenuta ben presto in tutto il mondo la colonna sonora del pacifismo e della disobbedienza civile. Nessuno si ricorda il nome di quel presidente, ma oggi potrebbe essere il bellicoso Macron o il più mite ma incauto nelle affermazioni geostoriche Mattarella. Il protagonista ha ricevuto la cartolina precetto, ma non vuole partire per fare la guerra a povera gente come lui. Ne ha già viste tante e quindi non obbedirà, anzi andrà in giro a predicare il rifiuto della guerra. Se è tanto bello, che sia il presidente a spargere il suo sangue e a coprirsi di gloria. È il discorso tradizionale del movimento operaio, dei proletari che disertavano l’impresa di Libia e la Grande guerra, dei refusnik israeliani, degli studenti precettati per il Vietnam, dei giovani ucraini e russi che a decine di migliaia si sono sottratti alla leva.

E questa canzone canteremo e così diserteremo se qualcuno volesse costringerci a scendere sul terreno in Ucraina con il fine di proseguire la guerra di logoramento e regime changing contro la Federazione russa o per garantire una tregua precaria che in realtà si vuole sabotare con una provocazione. Sappiamo che si tratta di una pace ingiusta, della legittimazione di una conquista predatoria, ma non vogliamo contribuire a produrre altri morti, altre rovine. Lasciamo ad altri la grottesca retorica della “pace attraverso la forza” e del “porcospino d’acciaio” indigeribile. Batteranno cassa, le medie potenze europee, e poi si piegheranno ai comandi del gangster-in-chief, in attesa che le elezioni facciano piazza pulita di Starmer e Macron. E purtroppo dell’Europa. E purtroppo di una sinistra scesa in piazza con squilli di tromba e bandiera bianca.

Non siamo responsabili delle decisioni sciagurate degli imperialisti occidentali e orientali, ma questa sia la nostra decisione:

Nessuna piazza per il riarmo!

Basta con la folle corsa alle spese militari!

Non un uomo per questa sporca guerra e per questa sporca pace!

Immagine di copertina: still frame dal video del meeting Trump-Zelensky allo studio ovale

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