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Moltitudini Tropicali: la Colombia in sciopero contro il neoliberismo

Dopo che negli ultimi mesi manifestanti di vari paesi latinoamericani sono scesi nelle strade, come ad Haiti, in Cile o in Ecuador solo per citarne alcuni, giovedì 21 novembre anche in Colombia le piazze si sono riempite per protestare contro il neoliberalismo estrattivista e la sua violenza. Dalla regione della Guajira nell’estremo Nord del paese fino al Cauca, i popoli indigeni e afrodiscendenti, gli studenti, i professori, i collettivi femministi e le organizzazioni sindacali sono scesi in piazza per protestare contro le riforme e gli abusi del governo Duque.

Nella retorica dei politici conservatori colombiani torna spesso una narrazione equivoca riguardo alla storia democratica del paese: «in Colombia non c’è mai stata nessuna dittatura militare». Senza soffermarsi troppo sul colpo di stato perpetrato da parte del generale Gustavo Rojas Pinillas nel 1953, che diede vita a un regime militare durato quattro anni, è importante approfondire il senso implicito di questa narrazione.

 

L’oligarchia creola, di fatto, non ha mai avuto bisogno di sovvertire le istituzioni rappresentative in senso autoritario per mantenere lo status quo, perché il polso di ferro con cui controllava il paese ha sempre tenuto al sicuro i suoi privilegi.

 

Infatti la Colombia è anche uno dei soli paesi dell’America Latina che non ha mai avuto un governo populista di sinistra: nel 1948 il candidato alla presidenza Jorge Eliécer Gaitán, che rappresentava le istanze delle classi più povere del paese, era a un passo dall’elezione ma è stato assassinato. Il nesso tra politica e violenza in Colombia trova le sue radici nella chiusura generale dell’élite verso le rivendicazioni popolari. Per difendere l’ordine e la gerarchia sociale, il dissenso politico è stato dipinto come il peggior male possibile attraverso una continua demonizzazione che è servita a legittimare un regime di repressione statale e paramilitare che ancora oggi devasta il paese.

Il Centro Democratico, il partito al governo capeggiato dall’ex-presidente Álvaro Uribe accusato di paramilitarismo, ha montato un clima di tensione fin dai giorni prima della manifestazioni, agitando lo spauracchio del vandalismo per giustificare perquisizioni a casa di student*, docent* e attivist*. Ma nonostante la campagna di terrore portata avanti dall’esecutivo per indebolire la partecipazione, il 21 novembre tutti i settori sociali del paese si sono riversati nelle strade per protestare contro il governo del presidente Ivan Duque: lo sciopero ha scoperchiato una indignazione che ribolliva da troppo tempo. Secondo il sindacato CUT (Central Unitaria de los Trabajadores), sono stati 1100 i municipi del paese che sono scesi in strada, mentre solo nelle principali città i manifestanti sono stati più di due milioni.

Duque è accusato di aver fatto passare in sordina il paquetazo, una serie di leggi che hanno stravolto il precario sistema di assistenza sociale che dava un minimo di respiro alle classi meno abbienti. La riforma delle pensioni e la riforma tributaria hanno abbassato di molto le possibilità per i ceti impoveriti di accedere a un tenore di vita degno mentre il governo ha provato a nascondere le proprie responsabilità alimentato per mesi una retorica guerrafondaia contro il Venezuela.

 

Ma l’arroganza e le bugie della presidenza non hanno frenato il popolo colombiano che ha scioperato anche per difendere i risultati ottenuti nelle ultime mobilitazioni.

 

Gli studenti universitari e i docenti erano riusciti lo scorso inverno a far stanziare dei fondi appena sufficienti a garantire l’apertura degli atenei pubblici, dopo tre mesi di manifestazioni e blocco della didattica. Una volta calmatasi la protesta Duque non solo non ha rispettato i patti presi con il movimento studentesco ma ha pure varato una legge che permette di prelevare risorse dal bilancio per l’istruzione per pagare il debito pubblico.

La mobilitazione si è mossa anche nelle zone rurali dove il conflitto armato è più pervasivo, come per esempio nel Cauca dove quotidianamente vengono massacrati i leader delle comunità locali che si oppongono a progetti estrattivisti che devastano i territori. Oppure nel Caquetá, regione a sud del paese dove ad agosto un bombardamento dell’areonautica militare che aveva come obiettivo un accampamento guerrigliero ha ucciso 18 bambini.

 

 

Giovedì 21 novembre le strade strabordavano di gioia collettiva, sprigionando una forza che era rimasta silente per troppo tempo davanti alla sistematica distruzione dei diritti sociali e di ogni speranza di pace, visto che Duque ha provato in tutti i modi a bloccare lo sviluppo del processo di reintegrazione degli ex-guerriglieri delle FARC, alimentando il conflitto armato in tutto il paese. La risposta della polizia a questa esplosione d’indignazione è stata subdola e violenta.

A Bogotà le organizzazioni che monitorano le violazioni dei diritti umani hanno denunciato un uso sproporzionato della forza pubblica: in una sola giornata sono state arrestate 114 persone mentre la manifestazione è stata interrotta varie volta da lanci di lacrimogeni. La polizia anti-sommossa, la famigerata ESMAD, ha anche attaccato il corteo studentesco quando ancora si trovava nell’università, impedendogli di sfilare. Decine di dimostranti sono rimasti feriti in tutto il paese mentre nella città di Buenaventura due persone sono state uccise.

 

A Cali invece sono scoppiati violenti scontri tra gli universitari e l’ESMAD: vari manifestanti hanno riportato ferite da arma da fuoco.

 

Il corteo invece si è svolto tranquillamente ma nel pomeriggio il Segretario alla Sicurezza della città, Andrés Villamizar, ha decretato il coprifuoco dopo che è cominciata a circolare la voce che gruppi di vandali provenienti dai quartieri poveri della città stavano prendendo d’assalto i complessi residenziali della classe media. Le notizie di saccheggi diffusi nella città erano completamente infondate ma il panico che ha preso possesso degli abitanti, alimentato dagli echi di colpi di arma da fuoco sparati dalla polizia, è servito a legittimare l’intervento dell’esercito a protezione dei cittadini.

L’intento di questa operazione è stato quello di collegare la protesta sociale a un clima di tensione risolvibile solamente con la chiusura dello spazio di dissenso e l’uso della forza militare. Ma i caleñi non si sono lasciati ingannare e nelle notti successive si sono riversati nella piazza di fronte alla sede del Consiglio Regionale  per un cacerolazo che ha mostrato la determinazione della popolazione a continuare con la protesta.

In una atmosfera festosa, tra balli e canti, migliaia di persone si sono radunate per dire che la militarizzazione e il coprifuoco non sono la risposta ai disagi sociali del paese. Dopo 55 anni di conflitto armato in cui la Colombia ha vissuto in uno stato di terrore, soprattutto durante i mandati di Álvaro Uribe (2002-2010), i manifestanti non si sono lasciati ingannare dalle fake-news fatte circolare dalla polizia di saccheggi perpetrati dagli abitanti dei quartieri poveri di Cali. La strategia delle forze dell’ordine è stata quella di dividere la popolazione con la paura, criminalizzando, come sempre, le fasce più deboli della società, ma il questo tentativo è fallito perché anche nelle zone dove il degrado sociale è più acuto la gente è scesa in strada.

 

Le notizie che arrivano dalla Colombia sono in continua evoluzione. Il movimento, che ormai ha riconosciuto la sua forza, vuole ora le dimissioni di Duque e non ha nessuna intenzione di fermarsi.

 

Già da oggi [lunedì 25/11] le piazze si sono riconvocate di nuovo per manifestare contro la violenza sulle donne e per denunciare la durissima repressione dello stato. Sabato durante una azione degli universitari contro l’ICETEX, la banca nazionale che gestisce i prestiti d’onore, la polizia ha ferito gravemente uno studente, Dylan Cruz, che si trova ora in coma, lottando tra la vita e la morte.

Il presidente, dal canto suo, non sembra avere nessuna intenzione di riconoscere la legittimità delle proteste e, a parte un timido comunicato stampa, ha preferito ignorare le rivendicazioni delle piazze. Domani [martedì 26/11] si riunirà il Comitato Nazionale per lo Sciopero che avrà l’obiettivo di delineare le prossime tappe della mobilitazione mentre nelle città si auto-organizzano vari eventi per mostrare l’unità del popolazione nella lotta, come il corteo di biciclette che è partito ieri sera dal centro di Cali verso il distrito di Aguablanca, una delle zone più pauperizzate della città.

 

Nuestro Cali Pachanguero sonando a esta hora en el #Cacerolazo #23N gracias al grupo del IPC The SelvBand por la interpretación.

Pubblicato da Asociación Nomadesc su Sabato 23 novembre 2019

I movimenti popolari latinoamericani stanno invadendo le strade e le piazze di tutto il continente, con le loro mille differenti sfaccettature, con le loro storie di sofferenza e di resistenza, per opporsi al sistema neoliberale che depreda le vite e i territori. Sui social network, i vari movimenti della regione stanno lanciando per il 1° dicembre un cacerolazo contemporaneo e dislocato nei diversi paesi, per mostrare al mondo intero come i popoli dell’America Latina siano uniti nelle rivendicazioni di pace e giustizia sociale.