MOVIMENTO

Mobilitazioni universitarie: «Tagli, precarietà, guerra – una convergenza necessaria e possibile»

Intervista a Stefano Simoncini, assegnista di ricerca alla Sapienza e attivista di Re-strike, sulle mobilitazioni contro la manovra del Governo. Oggi assemblea nazionale alla Sapienza

Da qualche mese nelle Università si registrano agitazioni, prese di posizioni di Rettori, di Presidenti di Società Scientifiche, di ricercatori e ricercatrici precarie. Cosa sta succedendo?

Sì, negli ultimi tempi nell’Università c’è un fermento che non si registrava da tempo. Il fermento sostanzialmente è dovuto alla percezione diffusa che la riforma Bernini potrebbe avere degli impatti dirompenti sulle università che già si trovano a fare i conti con una situazione di crescente criticità, sia sul versante della precarizzazione della forza lavoro, che sul versante della carenza e dell’invecchiamento del corpo docente, che, infine, sulla questione dei fondi. Questo accade dopo la riforma Messa (Governo Draghi) che provava ad andare leggermente in direzione contraria, introducendo un contratto, sempre a tempo determinato, ma con più tutele, senza però mettere a bilancio gli stanziamenti necessari per finanziare tale forma contrattuale. Questa riforma Bernini è invece una riforma che va esattamente in direzione contraria. La prevista moltiplicazione irresponsabile delle figure precarie viene definita una “cassetta degli attrezzi” per tutte le esigenze degli atenei. E già appunto l’idea che le figure precarie e i lavoratori vengano, diciamo, equiparati ad attrezzi la dice lunga sullo spirito di questa riforma dei legislatori. La prospettiva è che, rispetto a una situazione di già diffusa precarizzazione, aggravata dall’attivazione di un gran numero di contratti precari di ricerca con il PNRR, ci sarà un’ulteriore estensione della platea dei precari e delle precarie. Tutto questo avviene in una situazione di crisi complessiva dell’università pubblica presa nella morsa tra il taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario (circa 500 milioni) e una crescita contestuale dell’università privata, in particolare telematiche, che erode il bacino di utenza all’università pubblica. Il fenomeno è evidente sotto gli occhi di tutti e consiste di fatto in una sorta di privatizzazione della formazione universitaria. Il sospetto, quindi, è che la riforma della Ministra Bernini, più che costituire un’efficace cassetta degli attrezzi volta a migliorare l’organizzazione del lavoro all’interno delle università, sia in realtà un dispositivo legislativo che riduce le possibilità di accesso e di stabilizzazione negli atenei. Un’accettazione quindi fatalistica della crisi dell’università pubblica e quindi dell’impossibilità di svolgere il proprio ruolo sociale all’interno della società.

Che tipo di mobilitazione si sta sviluppando negli atenei?

Quella che si annuncia è una mobilitazione che coinvolge un po’ tutte le categorie universitarie. C’è infatti la sensazione che non si tratti di una riforma circoscritta che ha un’esigenza di mettere ordine al pre-ruolo, ma che sia un tentativo irresponsabile, e anche maldestro, di aggravare la crisi generale dell’università pubblica che investe tutte le categorie, dalla docenza, agli studenti, ai/alle precarie. La mobilitazione è cominciata col diffondersi di assemblee spontanee in vari atenei e oggi alla Sapienza ha un suo primo momento nazionale. A Roma, cercheremo di organizzare assemblee territoriali nell’ambito del tentativo di coordinamento (Re-strike) che si è costituito durante il varo della riforma della Ministra Messa. Un coordinamento composto sostanzialmente da assegnisti/e di ricerca che in quella circostanza hanno preso l’iniziativa per segnalare quelli che sarebbero potuti essere gli impatti negativi anche di quella riforma. Successivamente all’approvazione della Riforma Messa, questo coordinamento si è indebolito, ma ora stiamo cercando di riattivarlo, perché, in sostanza, non esiste un coordinamento al livello nazionale degli e delle assegniste, nonostante siano figure centrali nella struttura del sistema universitario. Questa mancanza di coordinamento, di organizzazione e soggettivazione politica è dovuto alle condizioni materiali di vita imposte da una precarietà che può durare anche più di un decennio e che può avere esiti che non portano a nessuna stabilizzazione, anzi, spesso, all’espulsione. Eppure una struttura di coordinamento fra queste figure così atomizzate sarebbe fondamentale.

Questa mobilitazione sembra non riguardare soltanto i e le precarie della ricerca, ma anche i docenti strutturati. Questa è una novità rispetto agli anni passati in cui ben pochi strutturati erano coinvolti. Ora sembra essere diverso. Perché?

Nel corso della mobilitazione riguardo alla precedente riforma Messa, il corpo docente era diviso tra coloro che seguivano i sindacati, che appoggiavano la riforma, e coloro che si rendevano conto invece della parzialità e della incoerenza di quella riforma in quanto non stanziava i fondi necessari per finanziare la nuova forma di inquadramento, il contratto di ricerca, che prevedeva, sì, maggiori tutele, ma era più oneroso per i bilanci degli atenei. Ora invece, il blocco di docenti (comunque sempre estremamente minoritario) che in qualche modo è sensibile alle istanze della forza lavoro precaria all’università sembra essere unito contro questa riforma, in quanto si rende conto dell’ulteriore frammentazione di questi lavoratori usa e getta. La cosiddetta “cassetta degli attrezzi” della Bernini è uno strumento per giocare al ribasso con le risorse, in una logica di neo-austerità, per “ottenere il massimo con il minimo”. I docenti si stanno rendendo conto che questo “massimo” non e’ minimamente all’altezza di un sistema universitario degno di questo nome e, inoltre, si chiedono se ci saranno ancora giovani che, a queste nuove condizioni di lavoro, intraprenderanno un percorso lavorativo all’interno degli atenei. Si sta quindi sviluppando un doppio livello di sensibilità all’interno della classe docente. Uno più politico, ma anche etico in un certo senso, in cui si rendono conto che le condizioni di lavoro disegnano una forbice mostruosa tra garantiti e non garantiti. L’altro, invece, che parte dalla constatazione che un sistema universitario, così organizzato, cola a picco, perché non dà la possibilità di crescere. C’è quindi anche nella loro ottica, un utilizzo delle risorse al proprio interno che non è efficiente, se vogliamo adottare questa categoria discutibile. Secondo me, questo sistema è infatti autolesionista anche dal punto di vista delle logiche competitive che vorrebbe satimolare. Queste potrebbero essere delle condizioni proficue per stabilire delle alleanze, anche insieme agli studenti.

Il movimento studentesco, che hai appena citato, in questi mesi è stato capace di organizzare mobilitazioni molto partecipate contro il genocidio in Palestina e contro le guerre. C’è la possibilità che mobilitazioni contro la precarietà e contro i tagli incontrino le mobilitazioni contro la guerra e contro il genocidio?

Assolutamente. Penso che gli studenti abbiano una proiezione interessante ad allargare il perimetro delle loro mobilitazioni recenti sui temi della guerra. Sulla carta questa convergenza può materializzarsi. Bisogna verificare se c’è l’agibilità politica, in termine proprio di processi, spazi e tempo, affinché si saldino queste istanze. È necessaria una capacità collettiva di elaborare questi temi, moltiplicando spazi di confronto utili a dotarsi di strumenti interpretativi che inquadrino in una cornice comune i processi in corso: dall’economia di guerra, alla polarizzazione sociale e alla precarizzazione selvaggia del lavoro, all’interno di sistemi di governo sempre più autoritari. Il disegno di legge sulla sicurezza e la riforma della dell’università non sono slegati anzi: prefigurano un’anestetizzazione dell’università, che è sempre stata un motore di soggettivazione ancor prima che di mobilitazione.

Immagine di copertina da WikiCommons

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