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ITALIA
Misure repressive a Bologna dopo una giornata di resistenza e solidarietà
Le attiviste e gli attivisti della campagna “Da che parte stai?” spiegano il significato delle pesanti misure cautelari del 4 giugno, emesse in risposta alla giornata di resistenza contro gli sgomberi avvenuti nel dicembre 2023. Un’intervista che rivela il duro impatto di questi dispositivi repressivi sulla lotta per il diritto all’abitare e sulle esperienze di solidarietà
Il 4 giugno c’è stata una operazione di repressione da parte della magistratura bolognese che ha portato a pesanti misure cautelari per 23 persone. I fatti riguardano una lunga giornata di resistenza contro gli sgomberi di dicembre 2023. Volete ricordarci come andò quella giornata?
Quella del 6 dicembre è sicuramente una giornata che è rimasta importante per le lotte a Bologna, sia per l’efferatezza dei due sgomberi di cui è stata testimone, sia per la forza sociale che si è dimostrata durante le lunghe ore di resistenza.
Andando velocemente e con ordine, all’alba di uno degli ultimi giorni di autunno – e primo della, così dichiarata dallo stesso Comune, “emergenza freddo” – diversi blindati pieni di agenti in tenuta antisommossa praticano un vero e proprio blitz in via di Corticella 115, immobile in cui avevano trovato casa cinque famiglie. Qualche ora più tardi, con l’infoltirsi di un presidio solidale sul posto, altri dieci blindati circondano l’intero perimetro di viale Filopanti 5/A, un ex-convento in cui vivevano più di cinquanta studenti e studentesse. Una vera e propria strategia studiata a tavolino dalla Questura per attaccare le due riappropriazioni abitative – e va fatto notare che a seguito di interlocuzioni andate a buon fine con la proprietà di viale Filopanti 5/A l’edificio sarebbe stato lasciato pochi giorni dopo per venire destinato all’emergenza abitativa.
Un dato chiaramente politico, dunque, e sovrapposizione certamente non casuale quella delle due operazioni di sgombero, anzi un’esplicita risposta muscolare e intimidatoria da parte del Governo contro qualsiasi percorso finalizzato all’ottenimento di un diritto imprescindibile come quello all’abitare. Una risposta interpretata alla lettera dalla questura locale: 13 ore di cariche – molte delle quali totalmente a freddo – sul presidio in Corticella e sulla passeggiata serale in zona universitaria, per un totale di 73 giorni di prognosi accertati tra le manifestanti che sono state costrette a ricorrere alle cure ospedaliere. Ricordiamo che quella in questione è la stessa giornata in cui una manifestante ricevette un calcio in mezzo alle gambe da parte di un agente in antisommossa, evento che produsse una denuncia per violenza sessuale contro quest’ultimo e cinque interrogazioni parlamentari rispetto all’operato della polizia in generale. Una giornata che irrimediabilmente si sostanzia come una ferita ancora aperta per la nostra città, ma che al tempo stesso ha visto attivarsi una barricata solidale capace di resistere compatta davanti a tali soprusi. Basti pensare che le centinaia di persone accorse la mattina sotto via di Corticella 115 sono infatti rimaste in presidio fino alle 20 di sera, orario in cui finalmente gli assistenti sociali hanno preso in carico le famiglie e i minori – tra cui una neonata – che stavano venendo buttate in mezzo alla strada. Mentre in contemporanea si manifestava in centro.
Il 6 dicembre si è resa esplicita l’esistenza di parti in conflitto, davanti a due sgomberi ingiustificabili, davanti a due trattative politiche chiuse nella violenza da parte della questura, davanti a quasi un centinaio di persone buttate in mezzo alla strada
Il provvedimento era nell’aria o vi ha sorpreso? Tra le misure scelte dal giudice c’è il divieto di dimora, una ulteriore forma di accanimento politico e umano?
La narrazione mediatica dei fatti è stata fin da subito schiacciata sulla legalità o l’illegalità delle forme con cui gli immobili in questione sono stati restituiti alla collettività dopo anni di abbandono, sulla legalità o l’illegalità dei presidi che in maniera spontanea si sono formati in sostegno di chi da un momento all’altro stava per perdere la propria casa. Nei giorni immediatamente successivi si sono sprecati i commenti di esponenti della politica locale che, addirittura, sono stati capaci di mettere in dubbio la veridicità della sequenza di foto che testimonia il calcio del celerino ai danni di una studentessa di 26 anni. Questo per dire che il clima di attacco indiscriminato rispetto a qualsiasi possibilità di dissenso o protesta, lasciava presagire già da dicembre delle possibili precipitazioni repressive per i mesi a venire. Di certo, però, oggi ci troviamo davanti a un dispositivo quantitamente importante e, a suo modo, inedito per la nostra città: 13 persone a cui è stato vietato da un giorno all’altro di continuare e vivere a Bologna, 9 persone costrette ogni giorno ad andare a depositare una firma in commissariato, una persona – all’epoca dei fatti minorenne – con un daspo da qualsiasi evento politico. E 34 denunce che colpiscono in modo mirato i quadri migranti del movimento per il diritto all’abitare e varie figure solidali.
Misure definite – con una dose non indifferente di ironia – anche “blande” dal tribunale che le ha emesse, ma che di fatto svolgono la doppia funzione di ostacolare il normale svolgimento della quotidianità di chi è coinvolto in maniera diretta e di provare a spaventare le centinaia di persone che in questi mesi si sono mobilitate per il diritto alla casa e in sostegno del popolo palestinese.
I divieti di dimora rappresentano in maniera lampante l’assurdità di un provvedimento molto duro e debilitante, che però viene emesso con grande facilità e per un numero di persone elevato. I 13 divieti riguardano studenti e studentesse, lavoratori e lavoratrici, residenti a Bologna, che oggi si trovano senza un reddito e senza una casa per un lasso di tempo indeterminato
Non sono le uniche misure, può essere un tentativo di attaccare in generale le esperienze di solidarietá e attivazione sociale cittadine di questi mesi?
Dal post-pandemia a oggi registriamo sicuramente un aumento di dispositivi di questo tipo dentro e oltre la città di Bologna: in tutta Italia fioccano associazioni a delinquere ai danni di attivisti e sindacalisti, vengono messi sotto sequestro spazi sociali, insomma si cerca di intimorire e soffocare le lotte.
Solo a Bologna, nell’ultimo anno, si sono alternate decine di richieste per provvedimenti di questo tipo – alcune volte caduti poi nel nulla, più spesso approvati da parte della magistratura – anche solo per cortei, parate musicali, presidi. Il messaggio è chiaro: spoliticizzare qualsiasi istanza sociale e renderla un problema d’ordine pubblico, narrare attivisti e attiviste come criminaletti stereotipati da serie netflix, zittire ogni voce dissidente. Non per niente queste misure arrivano dopo l’occupazione dei binari della Stazione Centrale di Bologna il 29 maggio in solidarietà al popolo palestinese e vengono giustificate anche in sede di tribunale non solo come una risposta ai fatti del 6 dicembre, ma più in generale come un tentativo di repressione di quella effervescenza che per tutto l’inverno e la primavera si è riversata nelle strade contro il genocidio portato avanti da Israele. Il dispositivo cautelare infatti è retto dall’aver identificato tante delle persone che si sono opposte ai due sgomberi del 2023 anche nelle successive piazze cittadine pro-Palestina, in cui in migliaia si è resistito alle cariche davanti alla sede della Rai o a quelle per l’inaugurazione dell’anno accademico, si è data vita a un encampment in zona universitaria per tutto il mese di maggio, infine si è bloccata per varie ore la circolazione del traffico ferroviario. Tutti momenti per cui, insieme alle 23 misure cautelari, sono già stati notificate le aperture delle indagini, restituendo quindi la mole di un attacco decisamente complessivo rispetto all’attivazione sociale degli ultimi mesi in città.
Nel vostro comunicato mettete in relazione il provvedimento con il regime di guerra che viviamo che restringe gli spazi di lotta. Vuoi spiegare meglio perché secondo voi questi fattori sono in relazione? Ora che avete lanciato una campagna di solidarietá, “Da che parte stai?”, quale obiettivo vi prefiggete?
Come già raccontavamo, le 23 persone colpite da questo provvedimento vengono accusate non solo di essersi opposte a due sgomberi nella giornata del 6 dicembre, ma anche di essersi continuate ad attivare nei mesi successivi tra le piazze in sostegno alla resistenza palestinese. Questo specifico dispositivo repressivo deve essere inquadrato all’interno di una fase molto più ampia e complessa rispetto al solo contesto di Bologna, che potremmo definire come una congiuntura di guerra.
Il clima bellico riduce gli spazi di libertà, mira a eliminare il dissenso e l’opposizione sociale, diffonde una serie di “regimi di guerra” in ogni ambito sociale e trasferisce le risorse dal welfare al warfare. Quella che si legittima oggi sull’altare dello scontro fra differenti attori mondiali è infatti la caccia al dissenso, la creazione del nemico interno, l’istituzione della legge marziale e del giustizialismo sommario
L’obiettivo della campagna “Da che parte stai?” è, partendo dalla nostra parzialità e dalle nostre prospettive, quello di muoverci su un clima complessivo. In altre parole, di fronte ai provvedimenti repressivi non ci sembra che la risposta più efficace da dare sia quella di una campagna “contro la repressione”, ma di riuscire a rilanciare politicamente sulla necessità di sabotare la macchina bellica nelle sue varie dimensioni. Una campagna che si oppone al genocidio, alle politiche di morte e a chi trae profitto a discapito della nostra vita. Da una parte ci sono coloro che promuovono guerra, tagli sociali, sfruttamento, rapporti patriarcali e razzismo. Dall’altra c’è l’eterogenea galassia delle lotte sociali, delle insubordinazioni, dei movimenti e delle resistenze.
Quello che sta succedendo a Gaza, dove decine di migliaia di persone vengono uccise da mesi coi bombardamenti indiscriminati; quello che succede ogni giorno a migliaia di migranti che vengono espulsi e confinati; quello che succede nei nostri territori, con e l’inasprimento complessivo delle condizioni di vita di cui la repressione verso le 23 persone di cui stiamo parlando a Bologna è un piccolo ma chiaro segnale. Schierarsi quindi al fianco delle 23 persone oggi sotto cautelari significa prendere una posizione chiara contro tutte queste ingiustizie, significa riconoscersi parte in movimento di una Palestina Globale. Ovviamente l’oppressione e gli attacchi a cui dentro Rafah ogni giorno, ogni ora, si cerca di resistere, non sono minimamente paragonabili a quelli che qui in Italia colpiscono chi si attiva nelle lotte sociali. “Da che parte stai?” non è un tentativo retorico con cui equiparare territori, lotte e soggetti differenti, non è un tentativo di sintesi. Ma un’ambizione di saper cogliere le differenze, le specificità dei vari contesti che però si sviluppano tutti all’interno della stessa congiuntura bellica.
Rafah e Bologna, resistenza anticoloniale e lotta per la casa, non sono la stessa cosa. Ma – come scrivevamo nel comunicato della scorsa settimana – sono dalla stessa parte, nello stesso mondo, dallo stesso lato della storia.
La foto in copertina è di Michele Lapini
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