approfondimenti

ROMA

«Una porta per volare». Trent’anni di poesia della strada

Una intervista con Militant A in vista della presentazione di “1990-2020”, una doppia raccolta che ripercorre i trent’anni del rap militante della posse romana. Domenica 13 dicembre al Lago della Ex Snia, e il 20 dicembre al Forte Prenestino

1990 – 2020 è l’ultimo lavoro di Assalti Frontali (Daje Forte Daje Records), in uscita dai primi di dicembre. Un doppio disco, ventiquattro tracce, che ripercorre la storia del rap militante della band capitanata da Luca Mascini, Militant A, dagli esordi di Onda Rossa Posse fino ai giorni nostri. Ma non è (soltanto) una raccolta dei pezzi più ascoltati e cantati da tre generazioni, è anche l’occasione per presentare due inediti, Porta per volare (Ice-One) e Compagno Orso (Er Tempesta e Nummirium), e altri pezzi singoli scritti negli ultimi anni nel fuoco della cronaca.

Fra tutti, Simonetta, dedicata all’indimenticabile direttrice scolastica Simonetta Salacone, e Fuoco a Centocelle, scritta a seguito degli attentati incendiari che hanno colpito il quartiere negli ultimi due anni. Ne abbiamo parlato con Luca, a pochi giorni dalle prime due presentazioni romane: domenica 13 dicembre al Lago dell’ Ex Snia Viscosa, e il 20 dicembre, al Forte Prenestino.

 

 

 

Trent’anni di storia musicale e politica racchiusi in una sorta di antologia rap, che disegna una mappa pirata, sempre in evoluzione. Chi era Luca Mascini all’inizio di questa avventura, nel 1990, e chi è oggi?

Nel 1990 ero un sognatore, un esaltato, come lo sono tutti i giovani ribelli. E giustamente, direi; prendevo fuoco come niente, ero sicuro che avremmo fatto la rivoluzione in qualche modo. Ero così fiero di far parte del “movimento”… Non perdevo un’assemblea, un’occupazione, una manifestazione. Mi sono interrogato sul perché di questa dedizione totale che sentivo dentro di me per la causa degli oppressi. Ho cercato nell’infanzia, nelle cose mi hanno insegnato i miei genitori, nei ricordi della scuola elementare Montessori, nei frammenti degli anni ’70, le notizie di sparatorie e le discussioni dentro casa senza capire bene cosa stesse succedendo..

Ricordo quanto mi colpì il golpe in Cile e l’uccisione di Salvador Allende, avevo sette anni, e quanto mi commuoveva ascoltare gli Inti Illimani.. oppure quando andavo a mangiare la pizza con mio padre, a San Lorenzo, che vedevo quella scritta a via dei Marrucini: “Nessuno può fermare la rivoluzione comunista”, firmato “Via dei Volsci”, e mi immaginavo che lì tutti si volevano bene e si aiutavano.

 

 

Sono entrato al liceo nel settembre 1980, dopo dieci giorni ero già sull’autobus per andare al ricordo di Walter Rossi, il solo tra tutti i vecchi amici delle scuole medie. In quell’autunno finiva una storia e ne cominciava un’altra. Io sono stato proprio dentro questo passaggio, la fine di certi linguaggi della politica e il bisogno di crearne di nuovi, e quando ho trovato il rap ho sentito subito che era fatto per me: quella dimensione comunitaria, l’interazione, il botta e risposta.

Ho viaggiato negli Stati Uniti, a Londra, in Jamaica, e tutto quello che imparavo lo riportavo da noi nel nostro movimento, perché per me così aveva un senso… Poi con la mia posse, l’Onda Rossa Posse, abbiamo cominciato a dire “facciamo una canzone”, poi un concerto, un disco… E sono passati trent’anni. Ma sono ancora un rapper, un sognatore, mi commuove la lotta di chi sta sotto, le comunità delle periferie, stare per strada, aiutare i bambini a esprimersi, lavoro nelle scuole facendo rap, una cosa bellissima.

 

Le raccolte musicali, spesso, rischiano di sconfinare in una nostalgia un po’ “agiografica”. Nel vostro caso, invece, la sensazione è di una ricerca che vive sempre nel presente, nelle trame urbane, nelle contaminazioni sociali e musicali. Penso a Simonetta, Fuoco a Centocelle, Compagno Orso

Un terzo del disco, otto canzoni su ventiquattro, sono state scritte negli ultimi tre anni. Se chiudi gli occhi e lo ascolti, vedi un pezzo di storia di questo paese, un viaggio nel tempo dagli anni ’90 a oggi, la Pantera, i centri sociali, le “categorie a rischio” dell’Aids rigirate contro chi ci opprime, la lotta contro l’eroina, contro i fascisti in doppiopetto, la banda, la solitudine, Genova 2001, Carlo Giuliani, le lotte per il reddito, le lotte ambientali, il lago che combatte, la scuola, Simonetta, la città meticcia.

 

 

E’ un sfida artistica: io sono in lotta anche contro le ripetizioni, contro la retorica, non fare mai cose scontate, e il rapporto con i bambini e i laboratori rap mi hanno una grandissima carica. La canzone Compagno Orso me l’ha chiesta Lucio Leoni per la raccolta Her Dem Amade Me, un disco dedicato a Lorenzo Orsetti, detto “Orso”, ragazzo fiorentino morto in Siria mentre combatteva l’Isis insieme ai curdi. C’ho girato intorno per diverso tempo, volevo fare un testo super, per niente retorico, poi ho capito cosa ci voleva quando ne ho parlato con i ragazzi del laboratorio che faccio a MaTeMù, un centro giovanile e scuola d’arte con cui collaboro da alcuni anni.

Tanti di loro non sapevano niente di “Orso”, chi era, cosa aveva fatto; così ho chiesto aiuto a Tempesta, giovane rapper di 17 anni, e a Sante de Rosa di San Vito Chietino, nome d’arte Nummiriun. Dette da loro, certe parole ritrovano un sapore nuovo, mescolate alle mie producono un’alchimia potente. Compagno Orso è uno dei bei pezzi più belli di tutta la mia carriera… anche se devo dire che a ogni pezzo nuovo penso sempre la stessa cosa…

 

 

 

La pandemia ha stravolto i modi di vivere, accentuato le disuguaglianze, messo a nudo fragilità e paure collettive. Quale spazio possono avere la musica e la produzione culturale in questo passaggio d’epoca?

La musica e la cultura stanno soffrendo, abbiamo bisogno di assembramenti, di socialità, ne abbiamo bisogno come l’aria, ci mancano. Delle volte penso: «Il nostro obiettivo ora è arrivare a maggio in piedi». Ma non si può vivere così… La pandemia appiattisce tutto, toglie orizzonte. Abbiamo bisogno di ballare, cantare, sfogarci. Soprattutto le nuove generazioni che non vanno neanche a scuola, ma che danni ci ritroveremo tra un po’? Dobbiamo fare quello che possiamo per essere in presenza, come dico in Porta per volare, assalti in presenza, aria di libertà.

 

 

 

La storia di Assalti è una storia anche di tentativi di organizzazione indipendente, alcune volte nella piena autogestione, altre come pirati nel mainstream musicale. Come è cambiato questo mondo alla luce delle trasformazioni tecnologiche e della comunicazione?

La pandemia sta facendo chiedere ai gruppi: «Ha senso fare uscire un disco ora?». Tutti sono in attesa, aspettano, prima ci affidavamo completamente ai concerti, ora come si può reggere a livello produttivo? Le canzoni stanno su Youtube, su Spotify, chi compra più i cd? I gruppi in classifica hanno vendite minime. Noi dovevamo uscire per forza, i trent’anni sono adesso, e poi avevamo tante canzoni ancora inedite, voglia di esserci, di portare energia, emozioni, carica. E cosi abbiamo detto buttiamoci, abbiamo organizzato la vendita online per compensare la perdita dei concerti e siamo stati sommersi di richieste, soprattutto vinili, c’è un ritorno grandissimo degli LP e del giradischi.

Tutta la prima stampa è andata esaurita subito. Abbiamo percepito questo amore come una forma di cooperazione sociale, come se tutto il movimento che è cresciuto con Assalti ha detto «Sì, vi supportiamo, vi sosteniamo». Le mie figlie che mi aiutano a fare i pacchi non ci credono che in tutta Italia, in ogni provincia, ci sono decine di persone che ci scrivono, ci vogliono bene e hanno un entusiasmo verso questa idea che è Assalti frontali. Al di là della tecnologia è l’idea, il legame umano che è indistruttibile.

 

 

 

Il linguaggio del rap “ha vinto”, è entrato nella comunicazione sociale, nelle forme di vita metropolitane, nel mercato e nell’immaginario collettivo, alto e basso. La musica trap sembra averne preso il testimone, contaminando e trasformando il “genere”, diventando infine la colonna sonora delle nuove generazioni. C’è chi grida al “tradimento” dell’ortodossia rap, e chi sbandiera acriticamente il “nuovo” (genere)…

Il rap ha vinto perché è un linguaggio fresco, veloce, adeguato ai tempi, la trap ha fatto diventare di massa il genere e bisogna dargliene atto, ma ha anche abbassato tanto il livello del contenuto e questo fa soffrire chi considera il rap una cultura. Però c’è tanto spazio adesso, si può entrare in contatto con tutti immediatamente; io che lavoro nelle scuole lo vedo ogni giorno nella gioia dei ragazzi nel fare rap e ascoltarlo. Per loro è tutto nuovo, è una sfida da capire e cogliere. La vacuità che sembra dominare in questo momento alla lunga risulta effimera: chi ha cose da dire nei momenti importanti può fare sempre la differenza e deve farsi sotto in maniera intelligente.

 

 

Davanti a un mondo sottosopra, ai profitti miliardari di Bezos e soci, alle città assediate dalla rendita – vedi lo sgombero militare del Cinema Palazzo a Roma – ha ancora senso chiedersi «chi è legale e chi illegale»?

Noi siamo cresciuti in una cultura dove si camminava in equilibrio tra legale e illegale perché avevamo ben presente che la legge difende i più forti, i ricchi, e quindi bisogna stare fuori dalla legge, a volte, per fondare una giustizia più grande. Mi sembra che dopo trent’anni le cose stanno ancora così… la lotta non finisce mai.