PRECARIETÀ
Michele: abbiate il coraggio di tacere
Probabilmente sarebbe stato meglio non scrivere di Michele, la sua lettera e il suo gesto, per una serie interminabile di motivi . In tanti, forse troppi, hanno sprecato inchiostro e si sono lanciati in lunghissime analisi, alcune molto giuste altre di cui proprio non si sentiva il bisogno.
C’è chi ha sottolineato come non sia la precarietà ad uccidere ma la depressione e le fragilità mentali, chi ci ha ricordato che non tutti i precari si uccidono e chi ha tentato di non semplificare, allargando il ragionamento alla società in cui si vive. Alessandro Giglioli per esempio ha scritto un lungo articolo in cui si articolava una riflessione sul “vincismo” e tentava di allargare lo spettro del discorso e non utilizzare slogan per il gusto di urlare più forte di altri sul fatto di cronaca del momento.
I commenti sui social sono stati centinaia di migliaia, di natura differente e spinti da sensazioni contrastanti, quell’altalena di sensazioni contrastanti che ha colpito lo stomaco di tutti quelli che hanno letto le righe lucide e violente di Michele, quelle parole che sembrano scelte con cura per farci smettere di respirare per un attimo e farci fare i conti con tutto quello che dice, perché “siete voi a dover fare i conti con me”. Dopo moltissimo tempo ho visto una notizia rompere le “cerchie” di facebook e bucare gli algoritmi che confinano sempre di più articoli e riflessioni dentro ristretti ambiti di “simili” ed è apparso subito evidente come quella lettera parlasse alla mia generazione e della mia generazione, tutta.
E allora basterebbe questo e poco più per dire che è vero, è la depressione a uccidere, il disagio mentale, ma in particolare è tutto quello che non diciamo della depressione a farlo, quell’ombra che si allunga sempre di più e che diventa uno dei mali della nostra epoca. La paura che abbiamo di vedere la depressione nella sua dimensione sociale, la solitudine come risultante delle relazioni consumate e consumanti, del capitalismo, dei ritmi frenetici, della performance quotidianamente richiesta. Poi, tra i tanti, è apparso questo articolo, di Federica Bianchi sull’Espresso. Si chiama “Michele, gioventù senza coraggio”. E il sangue bolle.
Ognuno di noi avrebbe potuto scrivere quanto arrendersi sia sbagliato. Quanto il nichilismo non sia mai una soluzione e quanto quelli che, come noi, da anni portano avanti mille battaglie debbano trovare la forza per non mollare, tutti i giorni. Semplice, pulito, da manuale. Il problema è, cara Federica Bianchi, che per rendere la depressione una delle malattie della nostra epoca, per farla crescere nel silenzio e nell’ombra e per trasformarla in una disgrazia o, peggiore delle infamie, in una malattia da “deboli”, ci vuole un preciso ordine del discorso, quel discorso che hai fatto apparire vomitando inchiostro e giudizi su Michele e la sua (mia, nostra) generazione.
Nell’articolo si sciorina un lungo elenco di soggetti veramente sfortunati (chi resta sotto le macerie del terremoto, i disabili, chi alla sua epoca non era fortunato come noi e non aveva internet o le compagnie aeree low cost) che non si sono arresi, giungendo infine alla conclusione che dare la colpa alla società è auto-assolutorio e che la colpa è solo della mancanza di coraggio e della pigrizia della generazione di Michele. Di cosa ci lamentiamo? Abbiamo internet e “possiamo anche emigrare”, possiamo vivere di poco, con una connessione in qualche angolo del mondo, possiamo inventarci nuovi lavori e non pensare di avere la pappa pronta. La mia generazione, a quanto pare, è solo molto svogliata.
Una cosa è sicura, come scrive la nostra validissima giornalista che nella sua biografia si descrive “con la valigia in mano, una passione per l’economia e il mondo, un’anima gemella e 3 bimbi (sic)”: il meglio e il peggio non sono scatole di cereali sullo scaffale di un supermercato. Il minimo e il massimo non sono concetti universali e leggere tra le righe della lettera di Michele la ricerca di un lusso non raggiungibile o di un capriccio è abominevole.
Mi piacerebbe domandare alla diretta interessata se può solo immaginare quante volte Michele si sia trovato davanti qualcuna come lei: una docente magari, una giornalista affermata, un datore di lavoro, un opinionista televisivo che esaltava il sacrificio, raccontava le virtù che tutti i migliori dovevano possedere per realizzarsi, quante volte quella voragine è stata etichettata come debolezza e quante volte gli è stato ripetuto che la realizzazione passava per la competizione, per il brillare e spiccare a scapito di chi hai vicino. Quante persone gli hanno detto che c’era molta gente più sfortunata di lui. Quante volte ha pensato che la sua solitudine fosse normalità, una normalità di piombo che proprio non si può sopportare.
Bisognerebbe riflettere su queste reazioni scomposte nel momento in cui qualcuno squarcia il velo dell’ipocrisia e punta il dito verso i colpevoli e verso la macchina infernale che mastica e sputa le vite di tutti, a ciclo continuo. Sono le reazioni dei guardiani della morale, di quelli che non possono permettere che si chieda il meglio, si gridi a gran voce che così non si può più. Ci vuole veramente troppo coraggio cara Federica, per lasciare che penne come le sue imbrattino la storia di Michele e quelle di tutti noi.
Certo, è la depressione che uccide, è il “disagio mentale”, non la precarietà. E’ il cobalto che uccide adulti e bambini nelle miniere in Congo, non il capitalismo, così come sono i tumori ad uccidere nella terra dei fuochi o in tutti i luoghi martoriati del nostro paese, non gli infami che hanno reso i nostri territori delle bombe ambientali per interessi econimici. E’ la depressione che uccide, non le penne come le tue che sono pronte immediatamente a giudicare e a marchiare come vigliacco chi decide di arrendersi.
Noi qualcosa possiamo e dobbiamo fare, senza slogan roboanti e senza utilizzare fatti come questi per gridare ai quattro venti che Michele è “uno dei nostri”, perché la responsabilità è collettiva e noi non siamo ancora capaci di costruire relazioni che strappino le vite di tutti alla solitudine. Anche chi si sente al riparo non lo è mai.
Mark Fisher, teorico culturale, è stato depresso per quasi tutta la vita e ha analizzato la depressione osservandola da vicino, tra le sue pieghe più spaventose e trattandola come “un problema di classe”. Purtroppo si è tolto la vita poche settimane fa, ma prima ha scritto un testo in cui ha provato a spiegare una cosa molto semplice:
“A dispetto di ciò che la nostra depressione collettiva ci indica, si può fare. Inventare nuove forme di coinvolgimento politico, facendo rivivere istituzioni che sono diventate decadenti, convertendo la disaffezione individuale in rabbia politicizzata: tutto questo può accadere. E quando accade, chi lo sa che cosa può succedere?”
Non lo sa nessuno, ma sta a noi scoprirlo. Non vedete al solo comparire di questa domanda gli occhi terrorizzati di Federica Bianchi e di tutti i guardiani della morale?