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ROMA

Metropoliz: un museo abitato

Su via Prenestina, al numero 913, sorge Metropoliz, il Museo dell’altro e dell’altrove: uno stabile occupato che ospita un museo in continua evoluzione e rappresenta una casa per quasi 200 persone. Occupato nel 2009, l’edificio è di proprietà dell’azienda Caporlingua e Salini ed è a rischio sgombero

Via Prenestina, un rettilineo lungo 37 chilometri, nasce a Porta Maggiore e conduce nella periferia est di Roma. Una strada trafficata a tutte le ore, ai cui lati si alternano negozietti, parchi e condominii, e più ci si allontana dai quartieri centrali più diviene anonima e grigia. Il cemento pian piano ti avvolge, e riesci a scorgere solo le insegne di fabbriche, benzinai, filiali di catene di negozi.

Qui al numero 913, nel quartiere di Tor Sapienza, si trova una struttura di mattoni rossi che balza agli occhi. Sembra un fortino, con tanto di torre, sul quale si intravede una meridiana i cui numeri sono rimpiazzati da 10 lettere: revolution. Le pareti del fossato sono ricoperte di murales.

 

Siamo alle porte di Metropoliz, sede del Museo dell’altro e dell’altrove Metropoliz (Maam) e casa di circa 200 persone. Un ex salumificio abbandonato nel 1978 e occupato il 27 marzo 2009.

 

Il cancello è azzurro acqua, sopra ci sono una ventina di cassette delle poste con nomi e cognomi da tutto il mondo. La mattina una piccola porta sul cancello si schiude, apre e chiude ininterrottamente, escono ed entrano bambine, bambini, donne e uomini. Florin, un ragazzino dai grandi occhi castani, pelle olivastra, ciabatte di spugna e sorriso accogliente, chiede se aspettiamo qualcuno, se vogliamo entrare o cosa ci facciamo qui.

Entriamo e siamo già nel museo. Un’esposizione all’aperto di murales colora tutto il perimetro. Il Maam non è un museo tradizionale: viene definito museo abitato. La struttura principale si trova al centro dell’ex complesso industriale e ha più entrate. Tre danno accesso al piano terra: all’esposizione delle opere, a un punto ristoro con cucina e a una ludoteca. Salendo tre gradini e inoltrandosi sotto due archi rettangolari si inciampa nelle scale che portano ai piani superiori, dove veniamo accolti da un’opera di Veronica Montanino realizzata con i bambini residenti a Metropoliz.

Gli artisti hanno animato tutte le pareti del condominio: ovunque ci giriamo il museo è intorno a noi. Sul pianerottolo del primo piano un guerriero alato fa da guardia. Seguiamo il profumo di bucato che ci conduce nella zona condivisa della lavanderia, dove i panni asciugano sugli stendini tra i disegni di Sabrina Dan.

 

Tra i corridoi altre opere fanno da cornice alle porte degli appartamenti in cui vivono le famiglie di Metropoliz.

 

Ogni sabato al Maam Gianluca Fiorentini guida chi vaga tra le opere. È un uomo alto, magro, con gli occhi azzurri e i capelli sale e pepe che sbucano da sotto la coppola. Racconta le opere ai visitatori e nelle assemblee aperte il sabato si confronta con gli artisti sui progetti proposti al Maam e ai residenti. Descrive il museo come «punto d’incontro, per annullare il pregiudizio e il preconcetto». Ci sono più di 500 opere frutto del lavoro di circa 400 autori internazionali. Agli artisti viene chiesto di vivere il posto prima di realizzare l’opera: «così sarà influenzata da ciò che respiri qui dentro» spiega Gianluca.

 

Emaamcipazione è un murale di Pablo Mesa Capella e Gonzalo Orquin. Si trova nel corridoio che conduceva i suini verso la macellazione quando questo edificio era ancora un salumificio.

 

I due artisti hanno cambiato il senso di marcia, ribaltando la sorte degli animali, come se stessero riavvolgendo sul muro il nastro di una vecchia videocassetta. Una sequenza di maiali che appaiono prima squartati, appesi per le zampe al soffitto, poi integri ma sempre a ciondoloni e infine carponi sulle quattro zampe con la coda arricciata e in buona salute.

Gianluca spiega le opere. I suini sono una metafora degli abitanti di Metropoliz, che arrivano come sarebbero per la società: morti, perché senza lavoro, sfrattati, sfruttati e a partire dalla casa ricostruiscono le loro vite sostenendosi a vicenda. Ricostruiscono un Mondo n’uovo, come l’opera di Leo che raffigura dei bambini con un pannolino, intenti a rompere le uova. «Rompono le uova nel paniere» rivendicando i propri diritti, e lo fanno già alla loro tenera età, perché hanno capito che se non lo fai tu, nessuno lo farà per te.

 

 

 

L’ex salumificio è diventato museo abitato e città meticcia. A Metropoliz vivono persone originarie di Perù, Eritrea, Santo Domingo, Marocco, Tunisia, Ucraina, Sudan, Polonia, Italia e Romania. Irene Di Noto spiega che il termine meticcio indica «diversità di esperienze di vita, di trascorsi» e non solo di provenienza.

Conosciamo Irene Di Noto in videochiamata, seduta su un divano viola. Parlantina veloce, voce un po’ roca, occhi grandi e chiari, ha a 42 anni, è originaria di Palermo, ma vive a Roma da lungo tempo. Fa parte dei Blocchi precari metropolitani (Bpm), un collettivo impegnato nella lotta per il diritto all’abitare. Irene racconta le origini di Metropoliz.

Non vive più nell’ex salumificio, ma il giorno in cui è stato occupato c’era anche lei e lo ricorda nel libro Senza Metropoliz non è la mia città (edizioni Bordeaux): «in una giorno assolata di primavera, un gruppo eterogeneo di precari/e (studentesse, lavoratori sfruttati senza alcuna tutela, disoccupate, sfrattati, italiani, migranti) entrava nell’ex salumificio Fiorucci». Racconta di come si siano rimboccati le maniche per costruire la città meticcia, partendo dalle infrastrutture (fognature, strade) e dalla ludoteca.

 

Una visita al MAAM (video di Patrizia Montesanti)

 

Mamma Latai, come è conosciuta a Metropoliz, viene dall’Eritrea, fa parte della vecchia guardia, il suo appartamento è il primo entrando sulla destra. È indaffarata con le pulizie. Prima di pranzo si siede al sole e racconta di essere in Italia da ormai 60 anni. Latai tradotto in italiano vuol dire Letizia. È una donna mingherlina ma non ha l’aspetto fragile. Occhi scuri e tatuaggi tra le rughe della fronte, parla di «amicizia meticcia».

Tutti la salutano con affetto, che lei contraccambia, come la giovane vicina e il suo bambino di un anno e mezzo o la famiglia Rom di Lucica. A Mamma Latai manca la socialità: non vede l’ora che finisca questa «malattia», la pandemia, e allo sgombero non ci vuole pensare.

 

L’ex salumificio è stato acquistato nel 2003 da un privato, e i tentativi di sgombero sono stati tutti respinti; oggi invece neanche la barricata di opere d’arte donate dagli artisti basterà.

 

La prefettura ha già avviato il procedimento di censimento degli abitanti. Il 4 luglio 2018 una sentenza del tribunale civile di Roma ha condannato lo Stato a risarcire Salini, il proprietario dell’immobile, per non aver provveduto allo sgombero. Un documento redatto nel 2018, in seguito al decreto sicurezza del governo Salvini, raccoglie la lista delle occupazioni abitative da sgomberare a Roma. La sentenza ha portato Metropoliz in testa alla lista degli sgomberi.

Luca Bergamo, ex vicesindaco della capitale e assessore alla crescita culturale, ci racconta di aver visitato il Maam in veste istituzionale, come valore simbolico. Bergamo lo descrive come un luogo «di grandissimo fascino, andrebbe assolutamente preservato perché non ce ne sono eguali, è un’esperienza unica». Ma il lavoro portato avanti durante il suo mandato a tutela di Metropoliz è stato vano.

 

 

L’assemblea di Metropoliz si riunisce nell’area ristoro del museo alle sette di sera. Sullo schienale di una cinquantina di sedie nere disposte a cerchio si leggono a caratteri bianchi parole come pubblico, bene, rivoluzione, assemblea ed eguaglianza. Qualcuno è già seduto. Paolo Di Vetta, attivista dei Blocchi Precari Metropolitani è impaziente di iniziare.

I “metropoliziani” iniziano ad arrivare, chi appena rientrato dal lavoro e chi appena uscito di casa in ciabatte e coperta per coprirsi dal freddo o giaccone e cappellino. Ai più giovani basta anche solo una felpa. Di Vetta riferisce l’esito delle ultime riunioni con l’amministrazione. Lo sgombero avverrà questa estate, subito dopo le elezioni e appena la situazione sanitaria sarà più stabile. C’è silenzio tra i residenti. A Metropoliz abitano 64 famiglie, la soluzione proposta dal comune non garantisce un alloggio a ogni nucleo, quindi stabilisce che saranno condivisi.

 

Alcuni abitanti chiedono da tempo una casa popolare, altri vogliono rimanere a Metropoliz.

 

Con lo sgombero, quella del comune non sarà un’opzione, ma una strada obbligata. Di Vetta spiega che c’è ancora una possibilità per contrattare con Salini una soluzione consensuale. La Regione, interessata alla barricata d’arte, potrebbe mediare con il proprietario. Prende la parola Giorgio de Finis, l’ideatore del Maam, che sprona a rimettere in sesto il museo chiuso a causa della pandemia così da riaprirlo in primavera.

Nel 2011 Giorgio de Finis, 55 anni, antropologo, regista e documentarista, incontra i residenti nell’ex salumificio Fiorucci durante la “Primavera Romana”, una passeggiata lungo il Grande raccordo anulare alla riscoperta di Roma. Gli propone un esodo planetare verso la luna: costruiscono un razzo e girano il docufilm Space Metropoliz.

Perché la luna? La luna è pubblica, femminile e notturna, spiega de Finis. Inoltre, l’esplorazione e l’uso della luna devono «avvenire a beneficio di tutti i popoli» riporta il trattato internazionale del 1967. Non ammette bandiere, sovranità e discriminazioni. Le riprese si concludono e nel 2012 la relazione tra i residenti e de Finis è consolidata, tanto che gli chiedono di continuare il progetto. Metropoliz diventa la luna con tanto di museo.

 

 

de Finis racconta: «l’idea del museo mi piace molto, perché il museo è il fiore all’occhiello della città», qualcosa che si vuole mettere in mostra, che porta prestigio. «Il museo di Metropoliz è un cortocircuito», è un museo e come tale si vuole mostrare, ma al contempo è casa di persone che si tenta di nascondere e di rendere invisibili.

L’obiettivo del Maam è «scuotere alcune certezze», creare spaesamento: se giri per strada e vedi una persona che etichetti come Rom controlli il portafoglio, stringi a te la borsa, velocizzi il passo e i tuoi sensi si allertano come se potesse accadere qualcosa da un momento all’altro; chi passa per il Maam e vi trascorre qualche ora non bada alla macchina fotografica lasciata sul muretto, ci spiega de Finis.

La pandemia ha rallentato le operazioni di sgombero previste, ed è stata lanciata una petizione, “Senza Metropoliz non è la mia città”, che ha portato alla pubblicazione di un libro a cui hanno collaborato una settantina di persone tra artisti, rapper, fotografi, scrittori, attivisti, giornalisti, architetti, storici, accademici, filosofi, politici, metropoliziani.

 

Città piene e case vuote. Il disagio abitativo in Italia, un podcast di Patrizia Montesanti

 

Tra gli autori ritroviamo anche Nicola Marcucci, anno 1933, ex insegnante di filosofia, veterano del quartiere di Tor Sapienza. La sua voce calda e roca narra la storia del quartiere fondato negli anni Venti del Novecento da una cooperativa di ferrovieri guidata da Michele Testa. Oggi il Maam è parte di questa storia ed «è molto rispettato e i residenti sono apprezzati dal quartiere di Tor Sapienza».

Marcucci conclude la telefonata con un pensiero: «mi piacerebbe che oggi la comunità stesse dentro altre comunità».

 

 

 

Chi è Salini?

L’ex salumificio Fiorucci è in stato di abbandono dal 1978. Il 27 novembre 2003 viene acquistato dall’azienda Caporlingua e Salini (Ca.sa srl) per 6.85 milioni di euro. La società è in accordi con il comune per avviare una bonifica e convertirlo in un grande condominio, ma il nulla osta per la modifica di destinazione d’uso dello stabile arriva solo nel 2013.

Nel 2009 l’immobile viene occupato diventando la casa di 200 persone e il Museo dell’altro e dell’altrove-Metropoliz (Maam). Il 4 luglio 2018 una sentenza del tribunale civile di Roma chiede il risarcimento da parte del Viminale e del comune di Roma di circa 28 milioni di euro alla Ca.sa srl.

 

 

Pietro Salini, nato a Roma nel 1958, a 30 anni entra a far parte dell’azienda di famiglia e oggi è amministratore delegato di Salini Impregilo Spa, azienda che opera nel settore delle costruzioni e dell’ingegneria. A differenza di altri “palazzinari” protagonisti del boom economico-cementizio degli anni Sessanta a Roma, Salini si differenzia per essere fuoriuscito dalle mura capitoline conquistando appalti in tutta Italia ed espandendosi anche all’estero.

Lavora in più di 50 Paesi nel mondo realizzando dighe, impianti idroelettrici, opere idrauliche, ferrovie, metropolitane, aeroporti, autostrade, edilizia civile e industriale. Partecipa anche alla costruzione delle autostrade Salerno-Reggio Calabria e Pedemontana Lombarda e all’ampliamento del canale di Panama.

 

 

Tutte le foto, la mappa e il grafico di Patrizia Montesanti.

Il reportage nasce all’interno della Scuola di Giornalismo della Fondazione Basso