ITALIA

Che memoria per il Giorno del Ricordo?

Dal 2005, il 10 febbraio è dedicato alla «memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati». Che tipo di memoria è però quella del Giorno del Ricordo? Ne parla un nuovo libro, E allora le foibe? di Eric Gobetti, per la serie Fact Checking di Laterza

Intorno alle foibe e all’esodo dall’Istria ex italiana si è combattuta negli ultimi anni una guerra della memoria. Una guerra che, va detto chiaramente, è stata nettamente vinta da una parte politica. Un punto di vista parziale, minoritario, sostanzialmente proprio della destra post o neofascista è diventato egemonico. Così egemonico, da essere adesso parte del discorso comune, accettato e sposato in toto dalla massima autorità dello Stato italiano (il Presidente della Repubblica), presentato in prima serata televisiva, memorializzato con una data del calendario civile italiano e con monumenti.

 

E se questo percorso non è stato per niente lineare, sembra ormai pacificato, e nuove generazioni crescono imparando che le foibe sono sostanzialmente un po’ come la Shoah.

 

La vicinanza con il Giorno della Memoria, che ricorda appunto la Shoah, non aiuta in questo senso – e vale la pena notare come anche quest’altro giorno memoriale che esiste da appena vent’anni sconti già una certa stanchezza, una ritualità che rischia di essere vuota o poco incisiva. È lecito chiedersi quindi se non sarebbe meglio abolire il Giorno del Ricordo, che rappresenta una «memoria politica patrimonio della destra e una storia raccontata solo parzialmente» (come ha scritto David Bidussa sul Domenicale del Sole 24 Ore). Finché esisterà, sarà un giorno inevitabilmente usato il più possibile, dall’alto e dal basso, per portare avanti questa memoria politica di parte.

 

E allora le foibe?

Com’è noto infatti intorno alle foibe si è creato un gigantesco falso storico: l’imposizione di una verità ufficiale che gonfia il numero delle vittime dei fatti del confine orientale del 1943-1945, brandendo un generico e razzista “pericolo slavo”, descrivendo i comunisti jugoslavi come mostri e gli italiani (o meglio, i fascisti) come vittime inermi. Nessuno nega che ci furono delle stragi, e che la memoria di quegli eventi sia rimasta silente o quasi nel dopoguerra italiano.

Non è l’unica, del resto: l’Italia nuova nata dopo la Resistenza ha messo sotto il tappetino il colonialismo, le stragi compiute all’estero dagli italiani, in larghissima parte persino l’emigrazione (percepita come una vergogna). È sbagliato equiparare foibe a sterminio, perché quest’ultimo «fa riferimento a numeri molto più alti e a un rapporto sopravvissuti/morti molto diverso», scrive ancora Bidussa, e non fu uno sterminio anche perché «ciò che avviene non è segnato da una divisione netta che contrappone italiani e slavi, la spaccatura è molto più frastagliata».

 

La narrativa mainstream infatti insiste su una componente nazionale qualora non addirittura etnica, mentre le motivazioni delle uccisioni commesse dai partigiani e dall’esercito jugoslavo nell’Alto Adriatico (la definizione è più accettabile di confine orientale, che implica un punto di vista italiano) furono essenzialmente politiche. È uno dei punti chiave del libro E allora le foibe? di Eric Gobetti, parte di una nuova serie di Laterza chiamata Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti.

Copertina semplice e di impatto, titolo chiaro ed efficace, i libri di questa serie hanno il compito esplicito di spiegare in maniera precisa perché ciò che ormai sembra entrato nel discorso pubblico va rivisto, e lo fanno con attenzione e metodo storico. In questo caso, «solitamente, nel discorso pubblico, si parla di 10.000 morti nelle foibe […] e 350.000 esuli italiani. Queste cifre, però, sono molto al di sopra del vero e non possono essere accettate onestamente dagli studiosi» (74, i numeri tra parentesi indicano le pagine del libro di Gobetti).

 

Numeri esasperati anche da un ministro della Repubblica che sosteneva nel 2004 che ci fu un milione di morti, o da Paolo Mieli a La Grande Storia che parlava di «decine di migliaia, o addirittura centinaia di migliaia» (73).

 

Non è in ballo solo una macabra conta dei morti, va capito infatti che importanza hanno avuto i fatti del confine orientale nella formazione della prima e soprattutto della seconda Repubblica – sono infatti gli ultimi due Presidenti, Napolitano e Mattarella, a parlare di pulizia etnica di italiani. Gobetti inserisce molto bene le foibe all’interno di un contesto di guerra dove le rese dei conti sono ahimè normali: «la repressione che colpisce quest’area nella primavera del 1945 fa parte di un fenomeno comune a tutta l’Europa e non è condotta qui con metodi specificatamente barbari.

Inoltre essa va compresa (anche se ovviamente non giustificata) nel suo contesto: quello di una regione devastata dalla guerra, dalla morte, dalla sopraffazione» (49). I fatti del confine orientale sono complessi e confusi, più che in altre zone d’Italia in un periodo di transizione tra guerra e pace che semplice non è da nessuna parte. Nell’Alto Adriatico infatti, si mischiano nazionalità, identità, e politica. Per anni fu il regime fascista a equiparare italiani a fascisti, a imporre l’italianizzazione forzata in un territorio fortemente multietnico, a reprimere altre identità.

 

E giusto o sbagliato che sia, fascisti vengono uccisi in gran numero alla fine della guerra (solo nel Torinese saranno 2000, nessuno però parla di pulizia etnica contro i torinesi, 79), anche se com’è noto tantissimi, anche importanti, riusciranno tranquillamente a riciclarsi nella nuova Italia.

 

Il discorso sulla pulizia etnica quindi fa acqua da tutte le parti ed è facilmente confutabile. Alcuni fatti da tenere presenti, riportati da Gobetti: un numero enorme, tra 20 e 30mila partigiani italiani, combattono nell’esercito jugoslavo (37) – nessuno li perseguita in quanto italiani; tantissimi italiani, nati e cresciuti nell’Alto Adriatico, lasciano la Jugoslavia alla fine della guerra, ma non lo fanno messi in fuga da cattivissimi comunisti – possono scegliere se restare o andare, anche se non mancarono le pressioni e restare vuol dire vivere in un luogo che non ha più le sembianze di quello dove sono cresciuti; alcuni italiani (circa 3000) invece vanno a vivere in Jugoslavia negli stessi anni – neppure questi sono perseguitati in quanto italiani.

Infine, malgrado le difficoltà che ogni emigrazione e ricollocamento comporta (a cui dovrebbe sempre andare la massima comprensione e rispetto), i profughi giuliano-dalmata che arrivano in Italia «hanno avuto istituzioni specificatamente dedicate all’accoglienza, che si adoperavano per trovar loro casa e lavoro, in un contesto economico in crescita e in una congiuntura politica favorevole» (71).

Gobetti con un approccio comparatista guarda a fenomeni contemporanei alle foibe e agli esodi che hanno ricevuto scarsissima attenzione. Dall’Est e dal Sud-Est Europa, per esempio, fuggono tra i 10 e i 12 milioni di tedeschi. Comprensibilmente si chiede Gobetti come reagiremmo se la Germania di oggi «celebrasse solo le proprie vittime della fine della guerra e non i crimini commessi negli anni precedenti?» (99). Dalle ex colonie italiane e dalla Tunisia invece tornano migliaia di persone, inclusi circa 200mila dal Nord Africa, e questi hanno ricevuto un’attenzione politica e mediatica infinitamente minori degli esuli dall’Istria.

 

 

Il paradigma antifascista e quello vittimario

Qual è quindi il discorso sulla memoria che si è affermato negli ultimi anni? Se si fa un salto indietro, si può notare come già a metà anni novanta, dopo la caduta del Muro Di Berlino e la nascita della seconda Repubblica, «riemergono vecchie questioni che erano state, se non completamente chiuse, almeno largamente rimosse dalla sfera pubblica durante la lunga fase di consenso ufficiale sulla narrativa della ‘Repubblica nata dalla Resistenza’… [comincia] a prendere piede una contro-narrativa ancor più riduttiva in cui i comunisti – italiani, sloveni, croati – erano assassini avidi di sangue del tutto comparabili ai fascisti» scrive David Forgacs nel suo ultimo libro Messaggi di sangue. La violenza nella storia d’Italia (Laterza, 2021, p. 221).

È un processo ancora in evoluzione. Gobetti prende come indicatori di un progressivo cambiamento della narrazione ufficiale sulle foibe due prodotti trasmessi in Rai per il Giorno del Ricordo, la serie Il cuore nel pozzo del 2005 e il film Rosso Istria del 2018 (in TV nel 2019). C’è un cambiamento, secondo l’autore, si passa dalla «violenza ‘slavo-comunista’ che colpiva, improvvisamente e immotivatamente, un popolo intero, in quanto italiano» nel 2005 a un prodotto dove le vittime sono dichiaratamente e esplicitamente fasciste: «le vittime, gli eroi, i personaggi coi quali lo spettatore è portato a identificarsi non sono più semplici italiani, come nel 2005: sono fascisti» (xii).

Siamo insomma alla esplicita memorializzazione di fascisti, che ha uno dei suoi apici nel conferimento della medaglia d’oro al merito civile a Vincenzo Serrentino, condannato e fucilato per crimini di guerra nel 1947, diventato un eroe nel 2007 (103).

Il Corriere della Sera (non la Pravda o Il Manifesto) nota come c’è qualcosa di strutturalmente sbagliato in come vengono amministrate queste medaglie: «Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso “per cause riconducibili a infoibamenti”. Ovvero, nel periodo che va dall’8 settembre a metà del 1947, a seguito di “torture, annegamenti, fucilazione, massacri, attentati in qualsiasi modo perpetrati”. Con queste “maglie” assai larghe, tra i commemorati sono stati inseriti profili controversi. Stando almeno a carte provenienti dalla Jugoslavia ma anche dall’Italia». Nel 2015, i criminali di guerra che ricevono gli onori dello stato italiano nel terzo millennio erano già almeno cinque.

Tutto questo ha a che fare con due paradigmi: da una parte, la lenta ma efficace erosione del paradigma antifascista. Assistiamo, o piuttosto abbiamo assistito, al «tramonto della Religione Antifascista di Stato» per riprendere un articolo di Valerio Renzi che la definiva come «quell’insieme di discorsi, idee, simboli, liturgie che hanno ancorato la nascita o il consolidamento delle democrazie liberali dopo la Seconda Guerra Mondiale all’opposizione ideale e militare al nazifascismo. Come ogni religione che si rispetti, seppur laica, questa ha il suo martirologio, i propri miti, le proprie ricorrenze e tradizioni nazionali».

 

Foto da Wikipedia

 

Il Giorno del Ricordo, imponendo una martirologia più o meno esplicitamente fascista, una ricorrenza chiaramente opposta a quelle del pantheon antifascista, è una delle picconate decisive a questa religione, al paradigma antifascista che per decenni è stato alla base della nostra società e del vivere politico italiano. Non si vuole qui esprimere nessuna nostalgia per come questa “religione” si è costruita nel dopoguerra italiano, sicuramente con moltissimi limiti, ma va capito come ripensarla.

Più o meno contemporaneamente, emerge in Italia quello che con una formula a effetto lo storico De Luna ha chiamato il paradigma vittimario, quel processo per cui «la storia scompare e sulla scena restano solo vittime e carnefici» (la storica Ilenia Rossini ha ricostruito l’affermarsi di questo paradigma). Senza contesto, senza spiegazioni, milioni di persone davanti a Il cuore nel pozzo o Rosso Istria possono commuoversi per le vittime italiane proprio come noi e notare quanti siano cattivi i partigiani.

 

Riformare il Giorno del Ricordo?

Quella di Laterza si configura come un’operazione dunque politica, se non altro di politica culturale – «questo libro nasce da un’urgenza. Quella di fermare il meccanismo che si è messo in moto, impedire che il Giorno del Ricordo diventi una data memoriale fascista» (xiv). Ma E allora le foibe?, utile necessario prezioso, probabilmente non basta. Non basta perché raggiunge comunque una nicchia di persone, sicuramente ampia, ma sempre minoritaria. È però un mattoncino, un’arma utilissima, che si speri arrivi più in là di libri accademici e dei lunghissimi articoli in cui in maniera onorevole si smontano le fandonie sulle foibe.

Forse anche Gobetti però pecca di un certo ottimismo, o ha un’eccessiva fiducia nella storiografia: «Per scongiurare il pericolo che il 10 febbraio si trasformi in una vera e propria giornata dell’orgoglio fascista occorre dunque cambiare rotta, dare un senso diverso a questa celebrazione. È necessario inquadrare la vicenda nel suo contesto, insistere sulla ‘più complessa vicenda del confine orientale’ ricordata nel testo della legge istitutiva, evidenziare con forza la spirale di violenza che ha portato fino all’esodo, attribuire ad ognuno le proprie responsabilità, separare i caduti innocenti da chi ha fomentato l’odio e ha combattuto fino all’ultimo in nome del nazismo, distinguere le vittime dai carnefici, da una parte e dall’altra».

 

Tutto giusto e tutto utile, ma la guerra della memoria sembra appunto persa, e c’è il rischio di finire come la famosa orchestra del Titanic.

 

Difficilmente il Giorno del Ricordo si può riformare. È nato come una sorta di risarcimento, ha facilitato la martirizzazione dei fascisti caduti (a scapito spesso delle vittime stesse di quegli eventi), ha contribuito a confondere ancora di più la memoria delle vicende dell’Alto Adriatico. In una Repubblica antifascista semplicemente non dovrebbe esistere un Giorno così.

 

Foto di copertina da Wikipedia