ITALIA
Memoria di amianto
Giovanni e le altre centinaia di operai morti a causa dei veleni respirati negli arsenali militari
Taranto. «Ce ne sono tante persone all’interno della mia officina che si sono ammalate e poi sono morte. Di tanti colleghi non abbiamo mai saputo di cosa esattamente sono morti. Ricordo in particolare un anno, mentre ero ancora in servizio, in cui morirono sei o sette persone. Eravamo sessantacinque nel mio reparto». A parlare così è Giovanni (il nome è di fantasia ma la sua storia è vera) operaio dell’Arsenale militare di Taranto, nella lunga memoria affidata all’associazione Contramianto onlus. L’uomo è deceduto pochi mesi fa a causa di un mesotelioma pleurico. Questo ha raccontato: «Ho lavorato in Arsenale fin dal 1956, e sono andato in pensione nel 1995. Per quarant’anni, sempre nel reparto congegnatori, ma eravamo impiegati prevalentemente a bordo delle unità navali. Poteva capitare che una settimana andavamo su una nave, poi su un’altra. Siamo stati sull’Etna, sull’Empedocle, per esempio, anche sulla vecchia Garibaldi». Si lavorava in questo modo: «Salivamo a bordo delle navi a smontare le valvole delle pompe, le pulivamo con dei raschietti liberandole dai residui di polvere di amianto che vi erano rimasti all’interno, poi dovevamo lavarle con il petrolio; infine, le soffiavamo all’interno con dell’aria compressa. Le rimontavamo, anche, riportandole poi a bordo per l’assemblaggio». «Dovevano essere puliti i pezzi, ben ripuliti», ha rivelato l’uomo a Luciano Carleo, operaio dell’Arsenale di Taranto anche lui, e presidente dell’associazione Contramianto onlus, che ne ha raccolto la storia. Ha raccontato Giovanni: «Insieme ai miei colleghi abbiamo fatto questo tipo di lavorazioni fino al 1995, quando le navi avevano tutte ancora l’amianto a bordo. Non abbiamo mai avuto alcun tipo di mascherina, eppure lavoravamo in locali piccoli e angusti come quelli dei rimorchiatori; navi piccole, dove gli ambienti si saturavano facilmente. E ancora: «Eravamo tutti insieme, tubisti, carpentieri, a respirare le polveri e i fumi delle nostre rispettive lavorazioni, nessun militare».
Erano gli operai degli Arsenali militari, gli arsenalotti, come sono stati definiti dagli storici, particolari maestranze di Stato che a Taranto sono stati poi via via sostituiti da un altro tipo di operaio, e da un’altra fabbrica di stato, quella siderurgica. Ma questa è un’altra storia.
Oggi l’Arsenale – in verità lo è da quasi 30 anni-si trova in fase di dismissione, e di possibile, ipotetica, riconversione. I progetti in tal senso si sprecano. Passeggiando all’interno, lungo i viali che circondano il Mar Piccolo, si scorgono gli scheletri di decine di officine, fonderie; interi reparti sono vuoti, altri ancora, soprattutto i magazzini, sono invece ancora in funzione. Lì dentro, nell’Arsenale vecchio che “abbraccia” con il suo possente muraglione il centro della città separandone la vista dal mare, ci lavorano ancora poco meno di duemila persone. L’età media degli operai, e anche degli impiegati, è abbastanza alta. L’ultimo concorso pubblico per assumere personale è stato bandito a metà degli anni’80, così molti lavoratori, dunque, si avviano verso il pensionamento. E quelle maestranze, in ogni caso, non potranno essere sostituite.
Mentre mi avvio all’uscita, leggo alcuni cartelli che avvertono di aree sottoposte a sequestro. La mente va subito ad alcune inchieste giudiziarie che hanno coinvolto in passato imprenditori dell’indotto militare, accusati di aver smaltito illecitamente i fanghi, i residui di alcune lavorazioni, gli scarti e i rifiuti, direttamente in mare e nei terreni, e penso alle parole di Giovanni contenute nell’ultima parte della “memoria d’amianto”. «Fino agli inizi degli anni ’80 le mense non c’erano e il pasto si consumava in officina, ma anche dopo che sono state create le linee di distribuzione alimentare, le mense con i tavoli come lo sono adesso, pranzavamo con gli stessi indumenti, con le stesse tute da lavoro, quelle che portavamo a casa a lavare, perché le lavanderie esistevano in Arsenale, sì, ma poi sono state chiuse».
La storia di Giovanni è emblematica delle condizioni di vita e lavoro, in quel tempo non molto remoto, degli operai degli arsenali militari italiani. Dice Luciano Carleo, il presidente di Contramianto: «Abbiamo voluto diffondere la sua storia perché l’uomo, morto pochi mesi fa, mi aveva sollecitato a raccontare la verità su come si era ammalato di mesotelioma ai polmoni, su come l’amianto veniva usato nelle officine e a bordo delle navali militari». E ancora: «Come associazione abbiamo come obiettivo quello di essere partigiani della verità. Negli anni, nella più grande base navale militare italiana, abbiamo documentato i casi di centinaia di persone che si sono ammalate con certezza di mesotelioma pleurico a causa dell’esposizione certa all’amianto». Continua Carleo: «All’Arsenale di Taranto, finora, sono state rimosse mille di tonnellate di amianto, dalle officine, dalle navi, dai sommergibili». Poi conclude: «Secondo fonti parlamentari, 30000 persone, in Italia, sono state esposte, solo in ambito naval militare, all’amianto. Ci sono state pure tante indagini giudiziarie che lo hanno evidenziato. Un processo è tuttora ancora in corso, Marina bis, a Padova, in cui rappresentiamo le parti civili, nel giudizio che dovrà accertare le eventuali responsabilità dei vertici militari dell’epoca in ordine a centinaia di morti, e soltanto per citare i casi da noi raccolti».
Lo stato maggiore della Marina sotto processo a Padova per l’amianto. Attesa oggi la sentenza
In realtà i casi di vittime di amianto esaminati dalla Procura di Padova e segnalati dalle diverse parti civili sono molto di più, un migliaio. E quattordici sono gli imputati, tra di loro ci sono ex capi di stato maggiore come Filippo Ruggieri, Umberto Guarnieri e Guido Venturoni. Ex comandanti in capo della squadra navale come Mario Porta. Un ufficiale medico, Rodolfo Stornelli, medaglia d’oro al merito della Repubblica Italiana per la Salute Pubblica. Sono tutti accusati, a diverso titolo, «di aver omesso al personale appartenente alla Marina dei rischi per la salute insiti negli ambienti di vita e di lavoro, a causa della presenza di amianto, tanto all’interno degli Arsenali, quanto all’interno delle navi militari». Di reati gravissimi: omicidio colposo, lesioni personali colpose e cooperazione nel delitto colposo. La sentenza di primo grado arriverà domani, il 14 gennaio, quando il Tribunale deciderà se accogliere le richieste del Pubblico Ministero Sergio Dini che ha chiesto il proscioglimento degli imputati, o se condannare gli alti ufficiali, come chiedono le famiglie e le parti civili.
Le verità nascoste in quel documento riservato. I vertici della Marina sapevano
Quel che è certo è che lo scorso anno tra le migliaia di pagine di carte del processo Marina Bis che si sta tenendo a Padova, saltò fuori un carteggio classificato come riservato, una corrispondenza tra gli alti vertici della Marina Militare dell’epoca (il carteggio è datato al 30 dicembre 1969) che fornisce l’evidenza, perlomeno storica e politica, che i vertici della marina militare italiano sapevano già 49 anni fa della pericolosità dell’amianto. E dunque i pericoli che correvano gli operai che ci lavoravano a contatto. Già, perché in allegato alla corrispondenza c’è un documento che contiene il primo screening su 269 lavoratori realizzato dai professori di Medicina del Lavoro dell’Università di Bari; e dallo studio emerse che 27 tra carpentieri, saldatori, foratori risultarono affetti da mesotelioma o asbestosi, mentre 42 erano invece i casi dubbi. Così i militari corsero ai ripari, chiedendo ai medici di occultare quei risultati, i quali-come scriveva in quello stesso anno la Direzione Sanità della Marina in una lettera indirizzata alla direzione generale dell’Arsenale di Taranto: «hanno delineato una situazione di effettivo pericolo nei confronti di diverse categorie di lavoratori direttamente addetti alla manipolazione dell’amianto o indirettamente esposti alle inalazioni della relativa polvere». Gli scienziati di Bari, da parte loro rassicurarono circa «il carattere squisitamente scientifico di tali indagini», i cui risultati non sarebbero stati forniti «a organizzazioni sindacali o politiche», ma sarebbero rimasti «a disposizione esclusivamente della Direzione di Sanità Militare Marittima».
A far saltare fuori il carteggio riservato durante il processo Marina bis di Padova fu lo scorso anno l’avvocato Ezio Bonanni, presidente dell’Osservatorio Nazionale Amianto, il quale oggi appare stupito dalle richieste di assoluzioni avanzate dal pubblico ministero, perché, dice Bonanni: «si pongono in netto contrasto, fra l’altro, con gli ultimi orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione»
Intanto, a Taranto, le attività industriali inquinanti continuano a scandire i tempi di vita delle persone, condizionando i ritmi dell’intera città. La sirena che annuncia la fine del turno degli operai del vecchio Arsenale militare risuona puntuale nel primo pomeriggio. Sono rimaste poco più di duemila persone a lavorare lì dentro, l’età media è 50 anni, e tra di loro c’è mio padre, entrato a lavorare nella fabbrica naval militare 40 anni fa. È in salute, anche se ha respirato per anni gli identici veleni di Giovanni e di tanti altri della sua generazione, in nome dell’interesse nazionale.