ITALIA
Il medico di Bergamo Mirco Nacoti: «Siamo in piena crisi umanitaria»
La narrazione della crisi pandemica è stata portata avanti con una semantica fuorviante mentre istituzioni e dirigenti hanno pensato più ad auto-incensarsi e autoassolversi che a comunicare il reale rischio che si correva. Intanto, quelle poche ma decisive misure che si potevano intraprendere sono rimaste solo sulla carta
L’atteggiamento sembra quello di chi si aspetta il peggio, sapendo però di poterci fare poco o nulla: «Sono terrorizzato», dice il medico anestesista e rianimatore dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo Mirco Nacoti. «È in corso una crisi umanitaria da marzo ma c’è una scarsa consapevolezza a riguardo». In prima linea nel momento in cui l’area bergamasca era l’epicentro mondiale della pandemia di Covid-19, Nacoti ha successivamente esposto il proprio punto di vista attraverso vari interventi. Il 21 marzo assieme ad altri dodici persone fra colleghi e ricercatori firmava un approfondito articolo apparso sulla rivista scientifica “New England Journal of Medicine”, in cui si denunciava la scarsa preparazione delle strutture ospedaliere nell’affrontare la diffusione della nuova sindrome e la necessità di decentralizzare le cure andando a potenziare la medicina territoriale, mentre a partire dal mese scorso si è fatto promotore assieme a centinaia di operatori sanitari di un appello per chiedere alle istituzioni delle regione Lombardia che ci si preparasse adeguatamente alla recrudescenza autunnale della Covid-19. Inoltre, un suo articolato ragionamento sulla questione della responsabilità durante l’emergenza epidemica è apparso sulla rivista “Recenti progressi in medicina”.
Qual è la situazione dal suo punto di vista?
Siamo totalmente impreparati. Io all’orizzonte non vedo davvero quasi niente che potrebbe scongiurare un nuovo lockdown, il quale servirebbe comunque ad attuare solo un contenimento dei contagi e avrebbe degli effetti sociali devastanti.
La dimensione pandemica in cui ci troviamo rende impossibile salvarsi senza un coordinamento globale, vale a dire un coordinamento degli stati fra loro, degli stati con le regioni e via discorrendo. Invece, anche all’interno del personale sanitario di uno stesso ospedale, di uno stesso territorio c’è poca collaborazione e un continuo rimpallo delle responsabilità.
Il punto è che, a mio modo di vedere, siamo in una condizione di “crisi umanitaria” per cui le esigenze sanitarie, sociali, economiche della popolazione superano di gran lunga le risorse a nostra disposizione. Se non partiamo da questa consapevolezza, è difficile immaginare alcun cambiamento. La Definizione di priorità d’intervento condivise (non ci risorse per fare tutto) e multidisciplinarietà sono i pilastri d’azione durante una crisi umanitaria.
Non è stato tentato nulla in questi mesi?
Nel settore sanitario esistono difficoltà strutturali che ci portiamo dietro ormai da anni. Gli stessi principi della salute primaria enunciati nella dichiarazione di Alma Ata (storica conferenza che nel 1978 ha affermato l’equità in salute come diritto e la strategia delle cure primarie accessibili, integrate, ad alta partecipazione comunitaria come strada per arrivarci) risultano spesso disattesi: basti pensare che nel sistema attuale, è molto più remunerativo per gli ospedali curare delle patologie piuttosto che prevenirle (parliamo della cosiddetta salute riparativa).
Al netto di tali problematiche, però, c’erano due o tre semplici azioni che potevano essere messe in campo nel corso di quest’estate. Innanzitutto, andava approntato un protocollo condiviso da ogni struttura ospedaliera che permettesse di separare in maniera rigida i pazienti infetti da quelli non infetti; inoltre, gli ospedali dedicati esclusivamente alla Covid-19, come quello in fiera di Milano, avrebbero dovuto aprire prima ed essere meglio organizzati; infine, si sarebbe dovuto ragionare su come impostare meglio il lavoro degli operatori sanitari per prevenzione, ricerca dei casi anche asintomatici, magari con test rapidi antigenici e tracciamento.
Invece, da marzo è in vigore un decreto regionale (deliberazione n.XI/2986 del 23/03/2020) che di fatto impedisce ai medici del territorio di visitare pazienti sospetti di Covid-19. Ci troviamo ancora di fronte a una completa assenza e impotenza della medicina territoriale: non sono state potenziate le Usca (Unità Speciali di Continuità Assistenziale per le cure domiciliari, ndr), non sono state aumentate le cliniche mobili. Siamo rimasti a un funzionamento centralizzato: ma quando si centralizza il sistema va in tilt.
Di chi è la responsabilità?
Il problema è che la catena decisionale vigente nei nostri sistemi disperde la responsabilità e il potere di agire in tanti piccoli centri, per cui risulta spesso difficile capire chi è stato manchevole. Se si vanno a leggere le delibere elaborate in materia sanitaria durante questa pandemia, tutto sommato ci sono anche delle buone indicazioni. Ma chi è che poi che si occupa di metterle in pratica?
Teoricamente, in regione Lombardia, le Ats (Agenzie di Tutela della Salute, ndr) dovrebbero dettare le politiche sanitarie da attuare in ciascun territorio di competenza. Ma la realtà è che gli ospedali difficilmente sono disposti a sottostare alle loro direttive, così come poi gli stessi ospedali talvolta non ascoltano i suggerimenti che arrivano dai propri dipendenti. Si ascrivono spesso le responsabilità ai quadri di vertice, ma si sottovaluta il ruolo importante giocato dai cosiddetti “quadri intermedi”, che però sono spesso abituati ad agire in maniera conservatrice.
Ma, forse, la realtà è che finché non ci si trova dentro un’emergenza epidemica non si riesce a intuire quale sia la sua portata, i suoi effetti. Così come noi abbiamo osservato da lontano la prima ondata svilupparsi in Cina, allo stesso modo il “sacrificio” a cui è stata sottoposta Bergamo non è stato pienamente compreso dagli altri territori. Neanche a Milano hanno capito cosa stava capitando qua: un conto è “semplicemente” avere tutti i posti in terapia intensiva pieni, un altro dover lasciare tante persone a morire nelle proprie case senza alcuna assistenza.
Cosa possiamo fare?
Come anticipavo prima, credo occorra entrare nell’ottica per cui ci troviamo in una situazione di crisi umanitaria. Non in una fase di emergenza, ma in un vero e proprio stato di crisi che non riguarda solo il settore sanitario bensì tutti i campi del nostro vivere in società.
Al di là dei tanti cambiamenti strutturali, che evidentemente si fatica a portare avanti in un momento come questo, ciò che manca è proprio la messa in campo di competenza epidemica, da un lato, e umanitaria, dall’altro. Le unità di crisi non possono essere costituite solo per gli ospedali, ma dovrebbero andare a operare a un livello multidisciplinare e multisettoriale, individuando in maniera chiara le priorità e le strategie da mettere in campo. Chiamando a operare e a prendere decisioni anche le Organizzazioni umanitarie, per esempio, le uniche strutture che hanno sviluppato le competenze e l’esperienza per affrontare epidemie e crisi socio-sanitarie-economiche prolungate.
Come ci ricorda Alma Ata, le cure di salute primaria dovrebbero coinvolgere, oltre al settore sanitario, tutti gli altri settori e aspetti dello sviluppo nazionale e della comunità che sono collegati, in particolare l’agricoltura, la zootecnica, la produzione alimentare, l’industria, l’istruzione, l’edilizia, i lavori pubblici, le comunicazioni e altri settori; inoltre è necessario il coordinamento delle attività tra tutti questi settori.
Invece, la narrazione della crisi pandemica è stata portata avanti con una semantica fuorviante (parlando di emergenza sanitaria e non crisi umanitaria, insistendo sul vaccino e non sulla prevenzione, ponendo attenzione sulla terapia intensiva e non sul territorio/ esaltando l’eroismo medico e non la partecipazione comunitaria) mentre istituzioni e dirigenti hanno pensato più ad auto-incensarsi ed autoassolversi che a comunicare il reale rischio che si correva. Abbiamo deciso di considerare il numero di pazienti in terapia intensiva come un indicatore della diffusione di contagio, ma quel numero indica più che altro il grado di fallimento delle nostre politiche di contenimento e prevenzione.
Immagine di copertina da commons.wikimedia.org