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Mario Tronti, Lenin in Inghilterra
Lenin, più di Marx, può essere considerato il riferimento principale di Mario Tronti nella prima parte della sua riflessione teorico-politica. Non a caso Lenin in Inghilterra è il celebre titolo dell’editoriale del primo numero di “classe operaia”, quello nel quale si esplicita il rovesciamento tra operai e capitale e si rivendica la primazia (storica, logica, ma soprattutto politica) della lotta di classe sullo sviluppo capitalistico. Lenin traduce così nella pratica una scoperta teorica di Marx: «l’unilateralità cosciente, realistica, non ideologica, del punto di vista operaio sulla società capitalistica» (OC, p. 130). Ma questa traduzione nel campo politico, argomenta Tronti, non è lineare, essa fonda invece nuovamente la scienza operaia con le sue specifiche leggi politiche di movimento: «Non basta dunque dire: con Lenin il punto di vista operaio si completa. No, con Lenin il punto di vista operaio si rovescia. Nel senso in cui la tattica rovescia sempre la strategia per applicarla» (OC, p. 255). Si apre qui il vaso di pandora del rapporto tra tattica e teoria (riformulazione trontiana della divisione tra tattica e strategia, identificate rispettivamente con il partito e la classe), che vede costantemente la prima debordare e determinare la seconda. La politica come tattica, come manovra, che attraverso l’inversione del rapporto può determinare e guidare il meccanismo economico, rimarrà al centro della riflessione trontiana negli anni a venire. Da Lenin verrà mutuato proprio questo: la preminenza del comando politico sulla forza del meccanismo economico, la Nep, «l’idea di una gestione capitalistica della macchina economica sotto la guida politica cosciente dello Stato operaio» (OC, p. 257). L’esatto opposto di quello che avveniva nel socialismo realizzato («la costrizione operaia alla gestione del capitale», OC, p. 257) o che si era tentato di fare in sedicesimo con la stagione del centrosinistra italiano nei primi anni ’60 («organizzazione capitalistica del movimento operaio», OC, p. 75).
Questa rilettura di Lenin aveva preso forma soprattutto nel lungo saggio Marx, forza-lavoro, classe operaia (1966), nel momento di passaggio a una nuova stagione teorica. Non è quindi una sorpresa vedere chi porti a battesimo la prima emersione dell’“autonomia del politico”: «Lenin centra in pieno le leggi della sua azione politica. Per questa via subisce un processo di rifondazione, da un punto di vista operaio, il concetto borghese-classico di autonomia della politica» (OC, p. 279). Su questo piano della riflessione bisogna muoversi con cautela, evitando le semplificazioni dettate dalle degenerazioni successive. Si può dire infatti che Lenin rappresenti in quegli anni non tanto l’autonomia del politico – che era invece la diagnosi di una tendenza rappresentata nel campo capitalistico da Roosevelt e in quello operaio da Stalin – quanto la nascita di una nuova razionalità politica di parte operaia, che nasce insieme e in opposizione a quella weberiana nel campo avverso, e che segnala un passaggio da compiere – quello della relativizzazione data dalla crisi delle scienze e del meccanicismo – anche all’interno del marxismo.
Questo programma di rifondazione leninista del marxismo, abbozzato e riproposto negli anni ’70 da Tronti, non avrà fortuna né all’interno del Pci né tantomeno nella galassia critica alla sua sinistra. Lenin tornerà quindi successivamente, e in ultimo nello Spirito libero, come emblema della possibilità dell’azione politica, all’interno di quella domanda che Tronti già si faceva nel 1980: «Si può agire la pratica a tutti i livelli, senza che a nessun livello se ne rimanga vittime o schiavi?» (Il tempo della politica, p. 50). Perché se è vero che Lenin riuscì nell’impresa, è anche vero che «però, poi, Lenin non c’è più stato» (Intervista).