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Marco Bechis, la sovversione della fedeltà
È da poco uscita per Guanda “La solitudine del sovversivo”, l’autobiografia del regista Marco Bechis che racconta della sua infanzia e della sua adolescenza vissute tra l’Italia e l’Argentina della dittatura militare. Quando lui a vent’anni si avvicina al movimento di opposizione dei Montoneros, finirà nel carcere clandestino Club Atlético, e solo dopo vari tentativi disperati dei genitori riuiscirà a ottenere quella libertà che invece a molti altri verrà negata
Marco Bechis è il regista di Garage Olimpo (1999), il film icona nel quale ha raccontato l’orrore che, durante gli anni della dittatura militare (1976-1983), si è consumato in una Buenos Aires sotterranea e governata da una legge senza-legge. Decine di scantinati, appositamente attrezzati allo scopo, inghiottivano migliaia di donne e di uomini, per lo più molto giovani, e difficilmente li risputavano. Semplicemente sparivano. Diventavano desaparecidos. Per un certo periodo Bechis è stato un desaparecido. In luoghi come il Club Atlético (diventato nel film Garage Olimpo), gli oppositori del regime (e non ci voleva molto per essere considerati tali) venivano rinchiusi, privati di ogni identità e diritto civile, torturati, preparati per i vuelos[1]. Durante i voli della morte i prigionieri, sedati e con la benedizione del prete di turno, venivano gettati in mare. Videla e i suoi complici hanno assassinato in questo ed altri modi circa 30.000 persone. Una procedura di epurazione sui generis, il cui criterio non si basava né sull’etnia né sulla religione ma era l’intento di eliminare un’intera generazione di oppositori, di “sovversivi”.
Marco Bechis, fino alla pubblicazione di questa autobiografia (La solitudine del sovversivo, Guanda, 2021) aveva scelto di raccontare la dittatura militare in alcuni film memorabili[2], senza alcun riferimento esplicito alle proprie vicende. Adesso parla, anzi, scrive. E ci consegna una memoria che attraversa più di trent’anni, per l’esattezza dal 1977 al 2010. Il 19 aprile del 1977, all’uscita dalla scuola che frequenta per diventare maestro elementare nelle villas miserias, con una 38 puntata tra le costole, viene prelevato da una pattuglia di militari in borghese, incappucciato e sbattuto sul fondo di una Ford Falcon. La destinazione è il Club Atlético, ma lui questo lo avrebbe saputo molto tempo dopo. In quel momento si spalanca solo un abisso fatto di cecità, di non sapere nulla se non che soffrirà, che forse morirà. Diventa il prigioniero A01, i lucchetti che gli serrano le caviglie sono il numero 190 e 191, se li deve ricordare sempre, gli dicono gli aguzzini. Il ventenne Bechis viene risucchiato nella routine dei dannati, non-morti e non-vivi. E qui, nella descrizione puntigliosa, minuziosa, dei dettagli scavati nella memoria, si riconosce lo stile del Bechis regista.
I frammenti di percezioni rubati da sotto la benda che costantemente copre gli occhi del prigioniero, i suoni metallici, il ritmo esasperante della pallina da ping pong, le partite di calcio trasmesse alla radio sempre accesa che copre le grida dei torturati, consegnati allo scritto, hanno perlomeno la stessa potenza evocativa che hanno avuto, in quanto immagini, in Garage Olimpo o in Hijos. Si tratta di quell’ “eco dell’immagine” di cui Bechis parla nel libro, che risuona nel singolo spettatore e che lui, in quanto autore, si augura duri il più a lungo possibile. E le immagini dei suoi film, effettivamente, sono difficili da dimenticare anche se lui ha sempre scelto di raccontare la barbarie in modo mai esplicito, tantomeno esibito, e proprio per questo così potente. Qui immagini non ce ne sono, ma è come se anche nella scrittura l’autore avesse individuato una serie di punctum per i quali le parole riescono a dire ciò che non è dicibile.
Si, perché Bechis non solo scrive in prima persona ma sceglie di raccontare la propria vicenda senza risparmiarci nulla del gorgo a cui è sfuggito, dopo qualche mese e attraverso un lungo passaggio di detenzione ordinaria, grazie al fatto di avere un passaporto italiano e all’impegno tenace dei suoi genitori per arrivare al fatidico “si può fare qualcosa”. Non ci risparmia l’attesa agonica che precede il dolore fisico, l’dea di anticiparlo facendola finita, la paura di cedere, di “spezzarsi”, e tradire i compagni che è quella di molti altri, è La Paura. Il 2010 è l’anno in cui Bechis si trova per la prima volta di fronte ai suoi torturatori, durante il processo contro i crimini commessi al Club Atlético. Diciassette imputati di cui potrà vedere i connotati e abbinarli alla memoria di decine di frammenti: la fibbia di un mocassino, la voce del “poliziotto buono” e quella del “poliziotto cattivo”, l’unica faccia che è riuscito a vedere, quella baffuta del “Turco Julian” (Julio Hector Sìmon, ufficiale di polizia) che gli puntava la pistola tra le costole durante il rapimento. Nel 2005 la giustizia argentina, con la presidenza di Kirchner, aveva ricominciato a muoversi, revocando l’indulto concesso da Menem ai responsabili dei crimini commessi durante la dittatura e dichiarando nulle le leggi del punto final e dell’obediencia debida, responsabili di avere fermato i processi iniziati nel 1983. Un tentativo di mettere la sporcizia sotto il tappeto. L’obbedienza dovuta dovrebbe essere quella, non punibile, di un militare che riceve ordini da un superiore, lo stesso argomento utilizzato dai criminali nazisti.
Non è una novità che la macchina dell’orrore, per funzionare, necessiti sempre di disciplinati e volenterosi addetti che attingono ai recessi più oscuri e inopinabili dell’essere umano per obbedire agli ordini ricevuti. E gli aguzzini, infatti, sono umani, a tal punto da restare sconcertati quando, prima di testimoniare al Tribunal Oral, l’ex prigioniero Bechis chiede un confronto, una sorta di presentazione per vederli in faccia e, soprattutto, perché loro si sentano visti da lui che, munito di foglio e di penna Bic, scrive, o meglio, scarabocchia, per leggere nelle loro facce “lo sgomento di quel gioco capovolto”. Un gesto apparentemente ingenuo che va diretto al cuore di quell’impossibile che pure è accaduto, che vuole ristabilire un qualche equilibrio rispetto a un’esposizione inaudita di sé che incrina l’essere e che può avere luogo quando ogni mediazione di senso viene meno. Come uno scorticamento della pelle attraverso il quale muscoli, arterie, tegumenti compaiono in superficie. Il tentativo di tradurre ciò che non è traducibile[3]si incarna, prende corpo in quel gesto pensato, meditato, che dice quanto e più delle parole. La sentenza (undici ergastoli agli aguzzini dell’Atlético, una sola assoluzione per insufficienza di prove, 25 anni agli altri) concede all’ex prigioniero A01 una ulteriore uscita dall’oscurità che, nelle ultime pagine del libro, prende forma nella ricerca affannata del battito del proprio polso, presente, forte, indubitabile segno di vita.
Il libro di Bechis è un vero e proprio Bildungroman contemporaneo che non può non avere come spartiacque di una vita la sua vicenda di sopravvissuto, anche perché la condizione di esule e l’irrequietezza radicale di chi considera da sempre gli aeroporti come “luoghi intimi” favoriscono un vagabondare curioso e insaziabile (l’Italia ma anche Parigi, Madrid, New York, di nuovo il Sud America) che produrrà, anche, il regista Bechis. Non sorprende che una delle sue prime mete dopo l’estradizione dall’Argentina sia il grande raduno del Movimento del ’77 a Bologna perché questo libro è anche uno sguardo sulla generazione di militanti che durante gli anni ’70 (già dalla fine degli anni ’60, per la verità), in gran parte del pianeta, ha osato sognare di cambiare il mondo, e che si è ritrovata rapidamente orfana di una rivoluzione incompiuta pagando spesso prezzi molto alti. Il prezzo di Bechis è stato quello legato alla propria vicenda di desaparecido sopravvissuto, quello della colpa, di cui molto è stato detto, e della vergogna, sentimento persino più radicale, di cui si parla meno. La vergogna che è come un marchio dell’esposizione che scortica. Quello relativo alla fedeltà è un altro prezzo, del tutto singolare, di cui Bechis si assume l’onere.
Ancora prima della militanza come simpatizzante dei Montoneros, e dunque eccentrica rispetto a chi aveva sposato senza riserve la causa comune, la vocazione di questo ragazzo di buona famiglia, figlio di un borghese italiano e di una svizzera di origine ispanica, nato a Santiago del Cile e cresciuto a Buenos Aires e in Italia, è quella di essere disposto a tutto, compresa l’infedeltà, pur di essere fedele a se stesso. Una condizione che lo tiene sospeso, aderente alle proprie passioni ma anche pronto a disorientarsi di nuovo, e che lo porterà dagli studi di economia politica a diventare un artista e a vivere in molte parti del mondo. Sempre dominato da quell’inquietudine chatwiniana che induce anche lui a chiedersi “che ci faccio qui?”. Questa è anche la storia di un’erranza come condizione mentale, che si traduce nella necessità di ricerca continua e nella disposizione a riconsiderare ogni equilibrio guadagnato e inventarsi di nuovo. Simile ad Antigone che sfida il nomos pur di preservare la propria fedeltà a Polinice, valicando così un limite radicale, su quel limite Bechis si muove come un equilibrista. Come per Antigone, anche per lui la fedeltà a se stesso è una questione capitale, non importa il prezzo e, dopotutto, è questa la vera sovversione.
In copertina e nel testo alcune immagini di Garage Olimpo (1999) e di Hijos-Figli (2001) di Marco Bechis
[1] Si veda: H. Verbitsky, Il volo, Fandango, 2008.
[2] Oltre a Garage Olimpo (1999) ricordo Hijos- Figli (2001).
[3] J. Altounian, L’intraduisible, Dunod, Paris, 2005.