CULT

Marcello Fonte, l’arte e gli spazi di libertà

All’ingresso del Nuovo Cinema Palazzo a Roma ci sono due pedane di legno giallo che resistono alle intemperie. Le ha costruite Marcello per consentire a tutti, anche a persone disabili, l’accesso allo spazio culturale occupato dove l’ingresso è a sottoscrizione libera. Perché l’arte non è un lusso, l’arte è per tutti. Questo insegna la «favola» di Marcello Fonte, cresciuto ad Archi, in Calabria, in una baracca di lamiera, e vincitore della Palma d’Oro a Cannes come miglior attore per il film di Garrone, Dogman.

Quella di Marcello è la storia di una possibilità conquistata con passione e fatica ogni giorno. La sua storia si intreccia con quelle di molti che come lui, a Roma e in altre città d’Italia, animano spazi culturali autogestiti, laboratori, incubatori culturali dove sperimentare e costruire le possibilità che questa città non solo non offre ma soffoca.

Spazi come il Teatro Valle Occupato, dove Marcello era di casa, uno dei più importanti laboratori di teatro sperimentale in Italia, una fucina di produzioni artistiche riconosciute a livello internazionale, sgomberato ad agosto 2014, oggi vuoto e ben lungi da qualsiasi inizio di restauro (la cui urgenza era stata addotta come motivazione dello sgombero). Come l’Angelo Mai, dove i vigili si sono recati solo pochi giorni fa, sigillandone gli ingressi con la fiamma ossidrica, in ottemperanza a una delibera, la 140 del 2014, che con il pretesto del “riordino” (dei canoni d’affitto) del patrimonio in concessione del Comune di Roma rischia di cancellare alcune delle esperienze culturali più importanti della città, come anche la Casa Internazionale delle Donne.

Il Nuovo Cinema Palazzo, occupato nel 2011 da attivisti e abitanti del quartiere per impedire l’apertura di un casinò, oggi ospita le residenze artistiche di numerose compagnie teatrali che non trovano spazio altrove.

Qualcuno per scherzo, anni fa, iniziò a chiamare il Cinema Palazzo “il luogo del possibile”. Qui sono passati tanti artisti agli inizi, qui ha preso forma la nuova scena comica del teatro romano, qui ha provato Fort Apache, la compagnia di detenuti di Rebibbia che al Cinema Palazzo realizzò lo spettacolo Tempo Binario, di cui Marcello fece parte, sostituendo uno dei detenuti, vittima di un malore. Marcello aveva seguito tutte le prove, aveva imparato la parte, quella in cui Garrone lo avrebbe notato, il resto è storia nota.

Un’altra storia, di incontri e possibilità, l’ha raccontata lo scrittore Nicola Lagioia: «Al Valle occupato e alla Fiera dell’Editoria Sociale ho conosciuto, anni fa, in modo molto informale, Fabrizio Gifuni. Sarebbe stato molto diverso dal conoscerlo, e complimentarsi con lui, dopo uno spettacolo all’Argentina. Senza quell’esperienza non avrei mai avuto la praticità di fargli un colpo di telefono e chiedergli di punto in bianco, in modo molto temerario, se con Christian Raimo aveva voglia di preparare lo studio su Moro che ha aperto l’ultimo Salone del Libro».

Il Valle, l’Angelo Mai, il Cinema Palazzo, sono, per dirla con Lagioia, «spazi di libertà». «A Roma stanno chiudendo la Casa delle Donne» scrive Lagioa. «È solo l’ultimo degli errori. Senza spazi di libertà (qualunque essi siano, qualunque forma abbiano) non muore la cultura, muore l’arte, che per come la vedo io è molto peggio. Non bastano le case editrici. Non bastano le case cinematografiche e le compagnie teatrali. Non bastano le istituzioni culturali benedette dai ministeri. Servono spazi di libertà. La cultura la puoi mettere in una teca e contemplarla fino a vederti morire dentro nell’atto di farlo. L’arte è la cosa più importante».

Dove, e come nasce l’arte, prima di finire su un palcoscenico istituzionale o in una teca di un museo? In spazi di discussione e progettazione reali, di condivisione, di sperimentazione, spazi che sono anche progetti di cittadinanza. Spazi anche occupati, anche illegali, ma non sempre ciò che è legale (come lo sarebbe stato un casinò nei locali del Cinema Palazzo) è giusto. Spazi dove si tessono relazioni e progetti che sfuggono alle logiche di mercato, alla mania di misurare e valutare in termini puramente economici la «sostenibilità» e «l’impatto» dei progetti artistici e sociali che qui fioriscono. Per questo è il Comune di Roma a essere in debito con queste esperienze, anche economicamente.

La «favola» di Marcello Fonte è quella di un riscatto conquistato ogni giorno con impegno e fatica. Una «favola» che è un’altra versione della storia che ci ha raccontato l’Istat pochi giorni fa, con la presentazione del Rapporto annuale 2018: con un record di poveri assoluti, l’ascensore sociale nel nostro paese è bloccato, e i meriti e conoscenze della famiglia di origine sono sempre più il fattore determinante per avere successo. É un paese che va avanti esclusivamente grazie alle reti sociali. É in questo contesto che va interrogata una «favola» frutto di fatica e di talento, ma anche di costruzione collettiva delle sue possibilità, di altri reti sociali di mutualismo, di spazi culturali di libertà, dove si può fare arte, gli unici che, al di fuori della rete familiare, oggi sembrano in grado di contraddire i dati statistici, dove i sogni di chi da piccolo ascoltava la pioggia battere sulla lamiera di una baracca diventano realtà.

Bravo Marcello, ma ancor più: grazie Marcello!