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Manifesti politici e femminismo: gli incontri tra la Cina e il marxismo
La prima traduzione in cinese di un’opera di Marx e Engels, il “Manifesto del Partito Comunista”, fu pubblicata nel gennaio del 1908 su un giornale femminista, il “Tianyibao”, ovvero “La Giustizia Naturale”, nella rubrica “xueli” (teoria): è un dato significativo o ha solo un interesse episodico? Una riflessione su cosa significa questo rispetto al marxismo nella Cina contemporanea
Varrebbe la pena notare, sia dal punto di vista sia teorico che storico, che la prima traduzione in cinese di un’opera di Marx e Engels, il Manifesto del Partito Comunista, fu pubblicata nel gennaio del 1908 su un giornale femminista, il “Tianyibao” [“La Giustizia Naturale”], XV, nella rubrica “xueli” (teoria): è un dato significativo o ha solo un interesse episodico? Se è vero che il marxismo, come metodo di analisi della realtà, non fu introdotto sistematicamente né prese piede in Cina se non almeno una decade più tardi e se è vero che la pubblicazione del Manifesto non fu debitamente apprezzata se non molto dopo la sua prima traduzione parziale, che il Manifesto sia giunto in Cina sulle ali del femminismo non deve probabilmente essere considerato un dettaglio trascurabile. Ciò nondimeno, non è chiaro che significato possa avere questo dettaglio. Qui di seguito, si cercherà di vedere come possa essere possibile costruire una tesi storica intorno all’episodio. Ma, invece di fornire un resoconto lineare di come Marx venne tradotto in cinese, si sosterrà esplicitamente una tesi politica fondata sulla rilettura delle fonti alla luce del femminismo. In conclusione, si accennerà a che cosa questo ci può dire intorno al marxismo nella Cina contemporanea.
Il Manifesto: una forma femminista
Le prime traduzioni parziali del Manifesto del Partito Comunista in cinese si devono a Zhu Zhixin e a Min Ming. Zhu, sodale della prima ora di Sun Yat-sen, fu fra i fondatori della Tongmeng hui “Lega delle Alleanze” a Tokio nel 1905; Min Ming è lo pseudonimo di uno storico che non è stato mai identificato. In entrambe le traduzioni, le parole usate per voltare in cinese la terminologia marxista denunciano un’origine giapponese, ma è un dettaglio che qui non sarà approfondito. Piuttosto, ci si concentrerà sulla forma.
Il lavoro di Zhu fu pubblicato nel 1905 sulla rivista della Lega, il “Minbao” [“Il popolo”]. Si tratta della traduzione del programma in dieci punti che figura nella sezione II del Manifesto, quella che invoca l’abolizione della proprietà privata, l’accentramento dell’economia nelle mani dello Stato, la nazionalizzazione dell’industria e dell’agricoltura, l’educazione pubblica e gratuita e altro ancora (cfr. la tr. it. di P. Togliatti, Roma, II ed. 1980, pp. 88-89).
S’ignora perché Zhu decise di tradurre proprio questa parte, ma si può ipotizzare che egli fosse interessato soprattutto a suggerire una direzione politica a un movimento politico in fieri intenzionato a conquistare il potere dello Stato tramite l’abbattimento dell’impero. Fu per questo che la Lega era stata fondata. I dieci punti sembrarono offrire un possibile percorso per progettare uno Stato nuovo. Notava Zhu: «In questi dieci punti si riflette puramente e semplicemente l’intento di Marx di salvare i poveri e gli ignoranti col metodo della lotta di classe». E concludeva che «Marx considerava i capitalisti una genia di predatori, dediti al saccheggio e alla rapina. I loro guadagni provengono dallo sfruttamento dei lavoratori, condotto al solo scopo d’ingrassare». In un secondo tempo, nel n. 5 del “Minbao” (1906), un membro della Lega, Qiang Zhai [Song Jiaoren] citava l’ultima riga del Manifesto nel senso che «il nostro scopo è il rovesciamento dell’odierna struttura sociale nel suo complesso. La classe al potere tremerà di paura al cospetto della rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare».
Si può notare, senza ulteriormente discutere come appare il documento nella rivista, che nel “Minbao” il senso del Manifesto è unicamente quello di un metodo efficace con il quale la classe dei deboli e dei poveri può conquistare il potere dello Stato tramite lo scatenamento di un qualcosa chiamato conflitto di classe, i poveri contro i ben impinguati ricchi.
Da questa interpretazione angustamente funzionale e dalla trasformazione del programma in dieci punti in una serie di potenziali politiche statali, Marx era qui ridotto alla sua “applicabilità” alla Cina.
In ultima analisi, Zhu Zhixin e gli altri della Lega considerarono tale applicabilità scarsa nel caso cinese del tempo, visto l’esiguo proletariato al quale rivolgersi e un capitalismo che appariva limitato ai Porti dei Trattati (sono i porti che la Cina fu obbligata ad aprire al traffico internazionale dai trattati di pace che conclusero la Prima e Secondo Guerra dell’Oppio [1839-1842 e1856-1860]: l’isola di Hong Kong e i porti di Canton, Amoy, Foochow, Ningpo e Shanghai) e sotto il controllo degli imperialismi europeo, statunitense e giapponese. Per il solo fatto che in Cina le condizioni di cui aveva parlato Marx non si potevano riscontrare, Marx poteva essere e fu accantonato e considerato dalla Lega e i suoi teorici irrilevante nel contesto cinese.
Per contrasto, di lì a poco, la Prefazione di Engels del 1888 all’edizione inglese del Manifesto, tradotta da Min Ming, fu pubblicata sul “Tianyibao” [XV, 1908], organo portavoce del femminismo anarchico fuoriuscito in Giappone, a cura di He-Yin Zhen (pseud. di He Zhen/何震 [1884-1920]) e del marito Liu Shipei (Anarchico e rivoluzionario cinese [1884-1919]. L’editoriale raccomandava la lettura della “Prefazione” con queste parole: Il Manifesto Comunista [Gongchan zhuyi Xuanyan] ha scoperto la lotta di classe, una filosofia della storia proficua. Dalla Prefazione possiamo imparare le novità del pensiero contemporaneo. Chi è interessato a studiare gli sviluppi del socialismo dovrebbe cominciare da qui.
Il commento collocava il Manifesto ben oltre un programma efficace di governo, come invece voleva la traduzione di Zhu dei dieci punti, e richiamava l’attenzione piuttosto sul processo di lotte sociali tramite cui lo Stato si chiarisce storicamente: la lotta di classe. Ovvero, qui il Manifesto è letto come una filosofia della storia, che non parla solo di una storia particolare (quella europea), bensì della grande questione della condizione storica moderna. In effetti, nel seguente numero doppio del “Tianyibao” (16-19), vennero pubblicati nella loro interezza il paragrafo introduttivo del Manifesto – da «Uno spettro si aggira per l’Europa — lo spettro del comunismo» – alle sezioni I e II, nella versione di Min Ming.
Di particolare interesse è che la versione pubblicata nel “Tianyibao” esalta la forma del “manifesto”, cosa che invece il “Minbao” non fece.
Il termine cinese xuanyan, oggigiorno tradotto “manifesto o dichiarazione”, ad esempio in “Dichiarazione d’Indipendenza” o in “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo” – era ambiguo alla fine dei Qing. Ad esempio, la “Dichiarazione d’Indipendenza”, nota oggi come Duli xuanyan, era conosciuta alla fine dei Qing come Duli xiwen, “Chiamata alle Armi per l’Indipendenza”. Per la prima volta parzialmente tradotta in cinese nel 1901 e pubblicata dai fuoriusciti di Tokio sul “Guominbao”, solo molto tempo dopo essa poté essere interpretata non solo come una chiamata alle armi contro un particolare nemico ma come il manifesto per un nuovo tipo di storia: la storia del governo da e per il popolo. Ovvero, come nel caso della traduzione di Zhu del 1905 del programma in dieci punti di Marx ed Engels, la “Dichiarazione d’Indipendenza” sembrò in un primo momento una presa di posizione politica per il rovesciamento di un governo ingiusto, non una riconsiderazione epistemologica della storia.
Nello stesso tempo, la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo” fu inizialmente tradotta xuanbu “proclamazione” e pubblicata nel 1902, sempre su una rivista del fuoriuscitismo cinese a Tokio. Ma l’importante non è il termine xuanbu, l’importante è rilevare che anche questo documento fu abbassato al rango di dichiarazione di orientamento politico piuttosto che interpretato come una riconsiderazione delle premesse della stessa soggettività politica moderna. Fu tradotto come una petizione piuttosto che come un manifesto.
Come si sa, la forma della petizione fu a lungo in Cina il sentiero più battuto per l’espressione politica, per invocare sollievo o ristoro dalla dinastia. Tuttavia, petizioni e chiamate alle armi connotano il genere della dichiarazione in maniera diversa dal manifesto, o almeno lo facevano agli inizi del XX secolo. Si tratta di forme funzionali a scopi particolari e non necessariamente esigono un ripensamente della storia.
Per contrasto, il Manifesto tradotto da Min Ming per il “Tianyibao” nel 1908 pertiene al genere del manifesto, allora appena istituito in Cina. Fu un genere che offrì qualcosa di nuovo. Nel caso specifico del Manifesto, riportando l’introduzione con lo spettro che s’aggira e le sez. I e II, la traduzione di Min Ming non fornì soltanto un programma politico gli uomini dello Stato o per quelli che speravano d’impadronirsene.
Fornì piuttosto la possibilità di un completo ripensamento del passato in una luce nuova. Ovvero, come genere, il manifesto proclamò la rottura con un passato che era rinnegato, la cui presa sul presente non poteva essere ignorata ma al contrario doveva essere riconosciuta. Si trattò di una resa dei conti proveniente dal pieno confronto con la novità e l’attualità del presente, con un presente che conservava tracce del passato (gli spettri) ma non ne era né la semplice continuazione né era un tentativo di replica. La resa dei conti col passato giunse corredato di un insieme di speranze, lasciate implicite o esplicitate, per un futuro ancora imprevedibile.
È in questo senso che la comparsa sul giornale anarchico e femminista “Tianyibao” della più ampia traduzione di Min Ming è storicamente significativa. Infatti, la forma manifesto, il genere – così utile a Marx ed Engels per dichiarare che l’era della rivoluzione dello spettro comunista era ormai in vista – offre la possibilità di leggere il passato come un archivio ancora aperto e non come un canone definitivo.
Come disse la teorica femminista Kathi Weeks in un intervento alla Duke University nel novembre 2017, nella forma dell’archivio, né il passato è sancito dal presente, né il presente è l’esito teleologico di un passato dato per noto e narrato in forma storica. Invece la percezione del passato come di un archivio in fieri permette l’avvio del processo per cui la storia è un’occasione di trasformazione: induce a riconcettualizzare, non a ricontestualizzare.
Che He-Yin Zhen, direttrice del “Tianyibao”, intendesse, mossa dal suo femminismo, riconcettualizzare il passato cinese e non semplicemente ricostestualizzarlo, emerge con chiarezza dal suo saggio La vendetta delle donne, e da altri testi tutti pubblicati sulla rivista. I suoi commenti e le sue analisi non scorrono il passato come storia, ma lo rileggono integralmente.
In effetti, appena l’anno prima la traduzione del Manifesto sul “Tianyibao”, He-Yin Zhen aveva proclamato sulla sua rivista un Manifesto Femminista [nüzi xuanbushu], nel quale s’impegnava in una radicale riconcettualizzazione del passato cinese in un’ottica femminista.
In questo testo inaugurale, He-Yin Zhen rigettò totalmente il regime matrimoniale (ovvero, una volta mariti e mogli, come gli uomini e le donne si debbano relazionare socialmente) e il regime di lavoro in seno alle famiglie, dove, come fa notare, fu [donna] è costantemente chiosato fu [servizio] (nella tradizione lessicografica cinese, è normale spiegare un termine con un omofono). He-Yin non puntò solo a stigmatizzare l’ingiustizia di genere, bensì a rileggere il passato cinese e globale in chiave antipatriarcale, riformulando le basi per il presente e per un futuro non solo per le donne ma per tutto il genere umano.
Mentre ripresenta il passato in una prospettiva femminista, He-Yin si confrontò anche con una visione del futuro fondata su trasformazioni sociali e culturali miranti al rovesciamento rivoluzionario totale delle premesse storiche e vigenti di un ordine patriarcale ingiusto e ineguale, basato sul genere, le classi, etnicizzato in patria (gli Han versus i Manciù) e razzializzato tramite le pratiche imperialiste del dominio del capitale e del controllo legale.
Come scrisse nel suo manifesto, l’obiettivo della trasformazione sociale non è tanto la conquista dei diritti delle donne, in modo che possano a loro volta opprimere gli uomini, quanto il conseguimento e l’affermazione della piena umanità di tutti, per trovare scampo all’ineguaglianza e avvicinarsi alla giustizia, senza alcun riguardo per le gerarchie stabilite dai vecchi usi e costumi.
Concludeva così: «Quando diciamo nanxing ‘uomo’ e nüxing ‘donna’ non parliamo di xing ‘natura’ (I due termini cinesi sono bisillabi costituiti da nan– e nü– che significano ‘maschile’ e ‘femminile’ e da –xing che significa ‘natura’), ma degli esiti di usi e costumi e di un’educazione fondati sulla differenziazione». Rendendo uguali donne e uomini tramite la produzione di esiti storici diversi degli usi e costume e dell’educazione, scrisse He-Yin, i nomi ‘uomini’ e ‘donne’ non saranno più necessari. È questa in ultima analisi l’ «eguaglianza di uomini e donne’ che vogliamo».
In questa riconcettualizzazione femminista, ‘donna’ e ‘uomo’ definiscono la differenza il portato di un processo di ineguaglianza sociale prodotta dal genere, non come il risultato dei sessi biologici. Il futuro dell’eguaglianza, quando i nomi ‘uomo’ e ‘donna’ non connoteranno più la differenza come una premessa per l’ingiustizia sociale, dipenderà dalla capacità del femminismo di leggere la storia in maniera diversa e di derivarne premesse più giuste per l’eguaglianza futura.
Visto in questa luce, il fatto che fu la traduzione più ampia del Manifesto del Partito Comunista, in quanto filosofia della storia, a diventare in Cina un documento femminista è, sul piano storico, altamente significativo.
In effetti, questo abbinamento di manifesti e femminismo è stato di recente discusso in Notes for a Feminist Manifesto di Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya & Nancy Fraser, pubblicato sulla “New Left Review” (CXIV, nov.-dic. 2018) e, in versione ampliata, Feminism for the 99%, pubblicato da Verso nel 2019. Così come col Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, il loro recente manifesto femminista, nel contenuto e nella forma, esorta a un ripensamento della storia e del futuro. Non si tratta di un ripensamento puramente inclusivo; piuttosto, trasforma quello che viene considerato storico, in modo in cui si presenta la storia e il passato e dunque il presente come una fonte del futuro possibile.
Non fu per caso, dunque, che la forma del manifesto divenne un genere assai frequentato dalle donne cinesi (e, presto, dai radicali nel loro complesso) dagli inizi del XX secolo in poi, onde ripensare il presente alla luce del rifiuto delle tesi dal e intorno al passato. Nel 1922, per esempio, una federazione studentesca anticristiana dell’Università di Pechino pubblicò un manifesto che metteva in discussione la centralità del cristianesimo nella vita moderna globale, proclamando a sua volta che la religione in generale e il cristianesimo in particolare avversavano la trasformazione del sistema capitalistico e delle sue forme di governo. L’otto marzo del 1927, per la Giornata della Donna, molte organizzazioni femministe, dal Hunan al Sichuan, diffusero manifesti sul ruolo dell’8 Marzo nello smantellamento del patriarcato e dell’imperialismo. Presto il genere divenne parte di molteplici lotte sociali e politiche che rileggevano il passato e esortavano a delineare i contorni di futuri possibili.
Nel frattempo, nel 1919, il Manifesto di Karakhan, pubblicato dallo Stato sovietico appena fondato, aveva rinunciato agli interessi zaristi protetti dai trattati ineguali con la Cina, ripensando le relazioni fra le nazioni come tutte ugualmente titolate alla sovranità. Nel 1935, Mao usò la stessa forma, nel suo Manifesto di Wayaobu, per esortare i mortali nemici di sempre, i Nazionalisti cinesi, a fondare coi comunisti un’alleanza antigiapponese. Nel 1979, il Manifesto per i Diritti Umani in Cina, un documento generato dalla Primavera di Pechino e prontamente messo al bando, riecheggiava ancora il Manifesto del Partito Comunista, proclamando la centralità dell’umanità e dell’umanesimo nel progetto socialista (anche contro quella che gli estensori chiamarono la disumanità della Rivoluzione Culturale, da poco conclusasi).
Insomma, la forma di manifesto non va vista semplicemente come un mero contenitore statico, ma come la ripresentazione nel presente di un passato che non conduce a un futuro desiderabile, ma è piuttosto infestato da resti spettrali coi quali si devono fare i conti nel costruire un nuovo futuro.
In questa luce, la traduzione del Manifesto di Zhu Zhixin (il programma in dieci punti) fu solo un documento strumentale per proporre potenziali politiche statali; questa lettura funzionale, che potremmo definire maschilista, divenne quella dominante nel marxismo cinese, per il quale la questione era: come “applicare” in Cina un marxismo già ben definito da principi conosciuti e statici? Ma non appena questi principi vennero giudicati inadatti, inapplicabili alla Cina, il marxismo fu buttato via.
Tuttavia, nella lettura femminista, la forma del manifesto e il marxismo come analisi storica fu considerato un metodo di rilettura e ripensamento del passato, che agisce su come pesare la storicizzazione delle relazioni sociali e le dinamiche di potere in maniera onnicomprensiva e non solo in relazione all’azione dello Stato. In questo senso, il marxismo rimane un fluido dinamico, un ventaglio di possibilità, un modo per scovare ed eliminare le iniquità del passato e del presente nel nome di un futuro trasformato. Resterà pervicacemente rilevante come modalità di ripensamento e ricostituzione in un tutto coerente finché sussisteranno le condizioni storiche con le quali è connesso e delle quali è la reazione, il capitalismo e la disuguaglianza globale.
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Il marxismo in Cina non può essere considerato innanzitutto un problema cronologico né tantomeno geografico, bensì una di quelle questioni che Hayden White chiama di «temporalità estesa», quella che ambisce a «cogliere la ‘pluralità di futuro, passato e presente». Non si rivolge dunque a un ventaglio statico di princìpi ma a una modalità di analisi e concettualizzazione che fa necessariamente confrontare fra loro le varie temporalità.
Nel frattempo, la questione dello spazio, che, angustamente concepita, riguarda solo l’ “applicabilità” di Marx alla Cina, più estesamente è concepita come un metodo storico attraverso il quale un futuro cinese e globale diverso può essere immaginato, può essere pensata ammettendone una potenzialità globale, che mira altrove, e non come forma statica che punta alla continuità di un passato immobile. La spazialità, dunque, non può essere rappresentata nel presente da regioni e luoghi definiti, ma piuttosto da forze materiali storiche le cui dinamiche di produzione e riproduzione di diseguaglianza formano una base e un oggetto di ricerca piuttosto che una territorialità ideologica.
Il marxismo in Cina non ha significato una cosa sola per sempre. Nel suo arrivo in Cina in forma di tesi femminista, il Manifesto del Partito Comunista diede la possibilità di ripensare la storia in termini tendenzialmente olistici.
Che ciò avvenisse tramite una storia di lotte di classe o tramite la storia delle logiche patriarcali, i cui iniqui processi di riproduzione potevano essere reindirizzati col supporto dei radicali verso l’eguaglianza e la giustizia fra gli uomini. Attraverso il XX secolo, il ripensamento della storia in Cina divenne non solo olistico in termini di capitalismo gobale/logiche socialiste oppure di principio antipatriarcale ma anche particolare in riferimento a come pensare la Cina all’interno di e attraverso queste logiche.
La particolarizzazione riguardò come introdurre il significato di sociale in cinese e in Cina tramite concetti ricollegati e ricollegabili con le vite quotidiane globalizzate nelle esperienze cinesi di capitalismo, socialismo e patriarcato.
Oggi, nel XXI secolo, la particolarizzazione necessita di essere rivolta, fra l’altro, a come creare il significato di sociale in cinese e in Cina attraverso concetti riferiti e riferibili alle vite quotidiane globalizzate in trasformazione nelle esperienze cinesi di capitalismo e patriarcato. Questa lotta, così come le sue esemplificazioni storiche, non sarà né semplice né diretta. Resta una delle grandi questioni del nostro tempo.
Pubblicato originariamente in inglese su Position Politics. Traduzione in italiano a cura di Gio Go per Dinamopress