MONDO
Malauguration. Inizia la presidenza Trump
Incoronato il 47-esimo presidente degli Stati Uniti, che nel discorso iniziale conferma tutti i peggiori timori: espansionismo, opposizione a qualunque forma di ambientalismo, ossessioni securitarie, guerra ai migranti. Il tutto sotto gli occhi attenti degli uomini più ricchi del mondo
Il nuovo “destino manifesto” degli Stati uniti, quello di nazione eletta, riesumato da quando nell’Ottocento fu dottrina per la conquista continentale, è stato remixato da Trump con la visione fosca già messa in campo otto anni fa. Ma nel discorso di investitura è stata più palpabile la sensazione di pericolo imminente, di una soglia inesorabilmente varcata che potrebbe fatalmente alterare la traiettoria pur imperfetta dell’esperimento americano. Nel giorno di Martin Luther King (che cade il terzo lunedì di gennaio), a 249 anni dalla fondazione, l’arco morale della storia, spesso invocato a dal leader dei diritti civili, è parso non curvarsi davvero verso la giustizia quanto muoversi in una dimensione compiutamente post democratica.
La cornice della rotonda del Campidoglio in cui 4 anni fa il branco trumpista imbrattava i muri di feci, sommata alla grazia per i 1500 condannati per quei fatti, e la sua stessa “immunità totale” hanno dato la misura del fallimento epocale di una società impotente di fronte da un corpo estraneo eversivo – ma allo stesso tempo rappresentativo della sua versione peggiore.
Per gli statunitensi democratici la cerimonia che hanno seguito con paura e disgusto, ha restituito l’ineluttabilità di una parabola che si è compiuta ricalcando modelli storici fin troppo noti. Nel primo mandato hanno ceduto gli argini istituzionali col fallimento dei due impeachment e l’azzeramento dei processi istruiti contro Trump. Nel secondo si profila una capitolazione più insidiosa del sistema, con la sudditanza conclamata del complesso tecno-industriale (cfr. Joe Biden) rappresentata alla corte del sovrano dai maggiorenti dei monopoli di Silicon Valley, trasformati in volenti megafoni del potere.
È solo uno dei fattori che rendono questa versione 2.0 del regime palpabilmente più pericolosa. Fra le altre c’è Project 2025, manuale per l’occupazione dell’apparato dello stato col proposito di “decostruirlo.” Dietro al progetto si allinea una coalizione tenuta saldamente in pugno da Trump di integralisti apocalittici e destra suprematista, una cordata neoreazionaria di anarcocapitalisti, fanatici religiosi e ideologhi transumanisti. Sopra a tutto la cupola cleptocratica rappresentata dalla dinastia familiare intenta a monetizzare la presidenza (vedansi le ultime criptovalute commercializzate solo la scorsa settimana da presidente e first lady.)
Istruttivo a questo riguardo il tutorial offerto da Trump alla vigilia del giuramento. «Non abbiamo scelta», ha detto alla folla della Capital One arena a proposito di TikTok, la piattaforma almeno temporaneamente salvata, «ne va di un gran giro di affari, un sacco di posti di lavoro che non vogliamo lasciare ai cinesi». Probabilmente faremo una joint venture, ha continuato schiettamente. «Dicono che TikTok valga miliardi, forse migliaia di miliardi. Ma senza la mia autorizzazione vale zero dollari. Il valore lo aggiungo io. Allora però chiederò una partecipazione del 50% per gli Stati Uniti. Che ne pensate? Che vi piaccia o meno TikTok, faremo un mucchio di soldi».
Forse nessuno avrebbe pensato a Trump come il primo nazionalizzatore, fautore di un corporativismo digitale di stampo putinista.
Il modello transazionale promette d’altronde di essere applicato anche alla geopolitica da un’amministrazione che non ha mai fatto segreto di considerare il mondo una eccellente opportunità immobiliare, da Gaza a Palisades, il quartiere bruciato di Los Angeles dove il presidente palazzinaro ha promesso di mandare «i migliori costruttori» – ma anche di subordinare l’assistenza federale a “concessioni” ideologiche da parte dello stato progressista.
Tutto, inoltre, all’insegna di una nuova dottrina espansionista. «Gli Stati uniti torneranno a considerarsi una nazione in crescita, dedita a incrementare la propria ricchezza ed espandere il nostro territorio». Trump ha inserito fra la raffica di decreti “del primo giorno” quello che cambia ufficialmente il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America e del Denali, la vetta più alta in Alaska in Mount McKinley, in onore al presidente che con l’assalto a Cuba iniziò la guerra spagnolo-americana e avviò i lavori per il canale di Panama. Una grande opera che gli Stati Uniti ora intendono riprendersi senza tanti complimenti.
Accanto ai provvedimenti di scarso effetto come quelli di toponomastica, ve ne sono di effettivamente catastrofici, quantunque ampiamente annunciati, come la nuova uscita dai trattati di Parigi, l’abrogazione del “green new deal” di Biden e un’altra dichiarazione di emergenza, quella energetica. Trump ha affermato che «la nuova economia americana sarà fondata sull’oro liquido sotto i nostri piedi» e che «il paese tornerà a sfruttare le proprie risorse energetiche». L’affermazione ignora bellamente il fatto che gli USA sono già oggi il primo produttore mondiale di petrolio e il primo esportatore di gas naturale. Sullo sfondo c’è semmai l’enorme fabbisogno energetico per sostenere l’intelligenza artificiale dei nuovi sponsor di Silicon Valley, probabile colpo di grazia alle ultime prospettive di limitare i danni del disastro climatico.
Nessuno dei provvedimenti professati è automatico, alcuni sono certamente destinati a subire ricorsi legali, ma Trump non ha lasciato dubbi riguardo alla postura aggressiva e prepotente dell’America inaugurata ieri, forza destabilizzante e modello per le destre globali.
È il caso, ovviamente, anche per i temi che più galvanizzano la base, su cui Trump ha costruito la propria resistibile ascesa: la rivalsa sui deboli e i diversi e le minoranze più vulnerabili. Ai sostenitori che gli hanno consegnato il paese pur di vendicarsi, Trump ha offerto gli scalpi identitari più bramati, il riconoscimento di «solo due sessi, maschile e femminile» e lo stato di emergenza sul confine meridionale. Quest’ultimo è chiave di volta di una campagna xenofoba che negli Stati Uniti ha ancora meno senso che nell’Europa del declino demografico e che inficia il progetto di società plurale e multietnica che definisce la nazione da più di un secolo. Per coronare una campagna senza tregua imbastita su «l’invasione fuori controllo» e «i milioni clandestini criminali», Trump promette di infliggere le crudeltà più gratuite e immediate a una popolazione precaria (su cui si basano tra l’altro settori strategici dell’economia). Nella Central Valley, paniere della California i raid sono già iniziati in sordina contro famiglie di lavoratori agricoli.
Per la «grande deportazione verrà mobilitato l’esercito», ha confermato Trump. La misura sarebbe in diretta contravvenzione della legge (posse comitatus) che vieta l’impiego delle forze armate nell’applicazione dell’ordine pubblico sul territorio nazionale, ma la pressione sulle sponde costituzionali sarà un’altra caratteristica del suo governo. Un altro dei suoi primi decreti (firmati su un palcoscenico di un palasport, con teatralità da wrestling) prevede l’abrogazione dello ius soli iscritto nella carta costituzionale.
Il primo giorno ha confermato insomma i timori peggiori su di un nuovo corso americano che è di malaugurio per il pianeta.
Foto in copertina di Miriam Aly, Richmond (Virginia, USA), novembre 2024
Foto nell’articolo dalla People’s March di Luca Peretti, Washington DC, 18 gennaio 2025
SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS
Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno