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EUROPA

Nuova Caledonia: Macron, l’ultimo colono

La crisi nell’ultima colonia francese esemplifica uno dei tratti fondamentali del macronismo, che si è contraddistinto finora per un ritorno alla più becera supponenza colonialista, elevando la violenza a regola e relegando la diplomazia all’eccezione

Tre Kanak e due gendarmi uccisi a colpi d’arma da fuoco; centri commerciali incendiati e negozi saccheggiati; barricate sulle strade e miniere bloccate; manifestazioni represse nel sangue e milizie armate di coloni che presidiano i quartieri bianchi di Nouméa, la capitale locale; contingenti di militari inviati a presidiare l’aeroporto e il porto navale; squadroni di teste di cuoio della Gendarmerie spediti in tutta fretta dalla Métropole e Macron che annuncia lo “stato d’emergenza”  come fece De Gaulle in Algeria: decisamente, la rivolta della Nuova Caledonia, l’ultima colonia francese, un arcipelago di 270.000 abitanti nel Pacifico del sud, a 17.000 chilometri dagli Champs-Élysées, ha risvegliato il sonno del mostro coloniale, agitando tutti quegli spettri, quelle pulsioni, quei meccanismi politici e sociali che, dall’Africa all’Algeria, dall’Indocina a Haiti, dalla Guyana a Mayotte, compongono l’altra faccia della République.

Il combustibile che ha incendiato la prateria – come è spesso accaduto in questi anni in Francia – è la strategia dirompente di Macron. La sua volontà di «smuovere le linee», di essere “disrupteur”, ha distrutto in pochi anni un processo di pace che era stato faticosamente costruito dopo la guerra civile degli anni ‘80 e che, nonostante tutto, aveva mantenuto la pace nell’arcipelago caledone per oltre trent’anni.

Negli ultimi tre anni, infatti, la Francia ha cambiato radicalmente la propria politica nei confronti della Nuova Caledonia, stravolgendo in maniera irreversibile i delicati equilibri interni dell’arcipelago. Il dialogo tra indipendentisti e anti-indipendentisti, iniziato trent’anni fa sulla base della costruzione di un “destino comune” per l’eterogenea popolazione che compone l’arcipelago, si è rotto nel 2021, quando Parigi ha abdicato dal proprio ruolo di arbitro imparziale, preferendo il dialogo unilaterale con l’estrema destra locale. Così facendo, ha favorito gli interessi di una minoranza, dettando regole e tempi di un processo che, fino ad allora, era stato un delicato esercizio di dialogo politico.

La scintilla che ha scatenato l’incendio della rivolta attuale è l’approvazione del «disgelo» del corpo elettorale locale, voluto dal governo francese e dagli anti-indipendentisti più estremisti (tra i quali i rappresentanti della macronie sul territorio caledone), contro il parere di… tutti gli altri, dagli indipendentisti ai moderati, dagli alti funzionari dello Stato memori delle tensioni degli anni ‘80 e ‘90, agli eredi del gollismo, dalla sinistra all’ONU. Il «disgelo» del corpo elettorale è una misura solo all’apparenza tecnica, ma che racchiude in sé tutto il senso della colonizzazione francese, per comprendere la quale è necessario operare qualche passo indietro. 

Giovani si riuniscono per liberare le strade nei quartieri nord di Nouméa dopo le rivote, maggio 2024. Foto di Viro Xulué

Quando la Francia prese possesso della Nuova Caledonia, a metà del XIX secolo, ne fece una “colonie de peuplement”, una colonia di popolamento. Come la Guyana, venne utilizzata come bagno penale, destinata ai criminali politici e non (tra i quali la rivoluzionaria Louise Michel, che prestò il suo savoir faire insurrezionalista alle rivolte dei popoli autoctoni). A questa migrazione forzata si aggiunse l’importazione di coloni bianchi, ai quali vennero consegnate le terre sottratte ai «melanesiani», come i francesi chiamavano il popolo locale, che oggi ha deciso di chiamarsi Kanak (risemantizzando il termine “canaque”, utilizzato in maniera spregiativa in epoca coloniale).

Questo processo di ripopolazione è continuato fino a oggi, conoscendo un picco negli anni ‘60 e ‘70 del Novecento, quando il boom del prezzo del nichel favorì un’ulteriore ondata migratoria di bianchi – la Nuova Caledonia, infatti, si trova sopra a uno dei più vasti giacimenti di nichel al mondo. 

È questa politica ad aver costruito la situazione per la quale in Nuova Caledonia vivono due comunità principali: una di bianchi (i “caldoches”) proprietari terrieri, piccoli agricoltori o imprenditori, eredi dei bagnards, che costituisce circa il 30% della popolazione; e una di Kanak, che compone circa il 40% della popolazione. A completare il mosaico vi sono una consistente minoranza di immigrati dalle isole del Pacifico di Wallis e Futuna, una comunità est-asiatica e una nutrita comunità di “expat” francesi, attratti dal mare cristallino, dal clima tropicale, dalle spiagge e dalle camicie a fiori, ma soprattutto dagli alti salari offerti a chi vi si trasferisce dalla métropole.

Nel 1988, dopo un decennio di guerra civile tra indipendentisti e coloni spalleggiati dallo Stato francese, bianchi e Kanak raggiunsero un accordo storico, firmato a Matignon, il palazzo dove risiede il Primo ministro francese a Parigi. L’accordo di Matignon riconosceva ufficialmente ed esplicitamente, iscrivendolo nella Costituzione, la violenza del fatto coloniale e l’esistenza di un popolo autoctono che l’aveva subito – un unicum nella storia francese. 

L’accordo, inoltre, stabiliva una volta per tutte che la Nuova Caledonia era un territorio del quale lo Stato garantiva un «processo irreversibile di decolonizzazione». All’interno di questo processo, lo Stato francese s’impegnava ad assumere d’ora in poi una posizione imparziale, fungendo da arbitro tra le due comunità. Si trattava di un esperimento unico nella storia dei conflitti coloniali: l’idea che si potesse giungere a una decolonizzazione con metodi pacifici e democratici, tramite un accordo tra le parti. 

Dieci anni dopo, nel 1998, il governo francese e le comunità caledoni si accordarono sulle misure concrete per guidare questo processo. Oltre alla creazione delle istituzioni locali che governano oggi l’isola in uno statuto di semi-indipendenza, il perno degli accordi era costituito da una successione di voti referendari: tre scrutini, da effettuarsi tra il 2018 e il 2022. Agli indipendentisti sarebbe bastato vincerne uno solo per ottenere l’indipendenza e, qualora in tutti e tre avesse prevalso il «no» all’indipendenza, le parti si sarebbero riunite per valutare il da farsi. In ogni caso, la strada verso la decolonizzazione era riconosciuta come irreversibile

È in questo quadro che viene fissato il congelamento del corpo elettorale, per contrastare la dinamica coloniale fondata sulla marginalizzazione del popolo autoctono. Le parti infatti avevano riconosciuto che il cambiamento demografico era frutto, strumento anzi, della politica coloniale. Per evitare che il fattore demografico influisse sul pacifico processo di decolonizzazione, gli accordi imponevano che solo le persone iscritte alle liste elettorali prima del 1998 e i loro discendenti potessero votare alle elezioni locali e ai referendum.

Stele in memoria dei caduti della strage di Ouvéa, 2015

Stele di Jean-Marie Tjibaou, Tiendanite 2015

Negli anni, questa disposizione è divenuta il nemico da abbattere per la parte più estremista degli anti-indipendentisti, capeggiati ultimamente da Sonia Backès, presto divenuta l’ancella del macronismo sull’isola, fino a essere nominata ministro nel governo di Elizabeth Borne tra il 2022 e il 2023. Per queste fazioni, infatti, far accedere alle liste elettorali decine di migliaia di nuovi elettori, quasi tutti bianchi, per lo più expats, è un modo sicuro per pesare tanto sui referendum quanto, soprattutto, sugli scrutini locali, nei quali ultimamente i partiti indipendentisti hanno ottenuto notevoli e sorprendenti successi. Gli indipendentisti, dal canto loro, non hanno mai opposto il veto a eventuali estensioni del corpo elettorale, a patto che ciò avvenisse nel quadro degli accordi appena descritti, quindi all’interno di un processo di negoziazione politica. 

Lo Stato francese, al contrario, ha deciso di approvare lo scongelamento del corpo elettorale senza alcuna negoziazione né alcuna volontà reale d’instaurare il benché minimo dialogo. Un passage en force che, agli occhi degli indipendentisti, non può che richiamare la peggiore attitudine coloniale. 

Il voto sullo scongelamento del corpo elettorale, avvenuto all’Assemblée nationale francese il 13 maggio, è l’ultima pietra miliare di una strada lastricata di autoritarismo, imbroccata dal governo di Emmanuel Macron sin dal 2017. Storicamente gestito dal Primo ministro, il dossier caledone è passato, sotto Macron, al ministero degli Interni, occupato da Gérald Darmanin, il ministro più a destra dell’attuale presidenza. Prima del voto sul corpo elettorale, Darmanin ha avuto modo di mostrare tutta la propria intransigenza in occasione del terzo referendum per l’indipendenza previsto dagli accordi di Nouméa, quelli firmati nel 1998. 

Nei primi due scrutini ha prevalso (con margini sempre più ridotti) il «no» all’indipendenza. Entrambi i voti sono stati contraddistinti da una partecipazione al voto delle comunità Kanak senza precedenti, segno di un’adesione attiva al processo di decolonializzazione sancito negli anni ‘80 e ‘90. Gli eventi hanno cominciato a deragliare nel 2021, in vista del terzo referendum, quando l’epidemia di Covid-19 ha colpito le tribù Kanak proprio mentre si avvicinava la data dello scrutinio. I partiti indipendentisti hanno chiesto allora la possibilità di rimandare di almeno 6 mesi il voto, per poter dare degna sepoltura alle decine di Kanak morti in seguito all’epidemia, secondo le complesse cerimonie tradizionali di lutto e così avere il tempo necessario a riorganizzare la campagna politica porta a porta.

Darmanin e Macron hanno rifiutato ogni discussione sulla possibilità di spostare più in là il terzo referendum, malgrado gli appelli dell’ONU, della chiesa protestane e della comunità scientifica. Risultato: boicottaggio del voto da parte dei Kanak indipendentisti, astensione al 57% (quando negli scrutini precedenti era sotto al 20%) e vittoria ridicolmente bulgara del “no” al 96,50%.

La volontà macronista di riformare senza concertazione alcuna una delle misure cardine degli accordi del 1998, se da un lato è frutto dell’attivismo di politici come Sonia Backès, dall’altro è emblematica del modo in cui il più giovane presidente della storia della V Repubblica ha gestito le grandi questioni politiche e sociali legate al colonialismo francese. Dalle rivolte in Guyana e Guadalupa, dalla repressione selvaggia scatenata nelle baraccopoli sull’isola di Mayotte, fino all’invio delle teste di cuoio in Nuova Caledonia, il macronismo si è contraddistinto finora per la più becera supponenza colonialista, elevando la violenza a regola e relegando la diplomazia all’eccezione. 

Quando Darmanin definisce il CCAT (Cellula di Coordinamento delle Azioni sul Campo, una specie di servizio d’ordine indipendentista che ha organizzato le mobilitazioni di questi giorni) come una «gang mafiosa», quando l’esercito s’aggira nelle strade in combutta con le milizie armate dei coloni, quando le autorità francesi millantano misteriose «ingerenze» straniere additando di volta in volta la Cina e l’Azerbaijan, lo Stato francese rispolvera una secolare tradizione, un savoir faire: quello di mater la révolte, reprimere la rivolta, che ha contraddistinto la République in quasi ogni angolo del mondo negli ultimi due secoli e mezzo. L’utilizzo dello “stato di emergenza” come risposta alle rivolte rappresenta la ciliegina sulla torta dei rimandi coloniali, essendo stato ideato e utilizzato per legittimare la più brutale repressione contro gli indipendentisti algerini negli anni ‘60. 

Per più di un secolo e mezzo, i Kanak hanno subito una violenta occupazione coloniale. Le loro rivolte sono state represse nel sangue, facendo migliaia di morti, ai quali si devono aggiungere le migliaia di vittime delle epidemie e la segregazione nelle riserve sulle montagne nelle quali sono stati confinati fino al 1946, quando venne abolito il Codice indigeno. 

Negli anni ‘70 e ‘80, una nuova generazione di militanti politici Kanak, guidati da Jean-Marie Tjibaou, il fondatore del FLNKS (Fronte di Liberazione Nazionale Kanak e Socialista), diede vita a quello che oggi si chiama “il risveglio Kanak”. Grazie a un incredibile attivismo artistico e culturale, questi militanti riuscirono a ridare coraggio e dignità a un popolo decimato e a una cultura impoverita dal colonialismo. L’indipendentismo Kanak elaborò in quel momento un ethos politico unico nel suo genere, incentrato sulla necessità di costruire un “destino comune” con la eterogenea popolazione che abita ormai l’arcipelago. 

Al centro del progetto politico indipendentista, vi è l’idea di ridare centralità all’identità Kanak, il popolo autoctono che vive sull’isola da più di 3.000 anni, accogliendo al contempo al suo interno tutte le comunità che vivono in Nuova Caledonia. Per i Kanak, i discendenti dei bagni penali, i nipoti dei coloni inviati dallo Stato coloniale, gli immigrati in cerca di avvenire provenienti dalle altre isole del Pacifico e dall’ex-Indocina (anch’essa erede del colonialismo francese), sono tutte “vittime della Storia”: e in quanto tali, hanno diritto al riscatto, che si può ottenere solo tramite la conquista della dignità permessa dallo smantellamento dell’ordine coloniale.

Giovani si riuniscono per liberare le strade nei quartieri nord di Nouméa dopo le rivote, maggio 2024. Foto di Viro Xulué

La storia coloniale francese sembra, a tratti, il frutto di una coazione a ripetere, un eterno ritorno dei propri peggiori istinti, un ostinato, testardo rifiuto a imparare dai propri errori. Così, quello che succede oggi a Nouméa sembra ricalcare tristemente gli eventi degli anni ‘80, che portarono a una terribile guerra civile locale. 

Negli anni ’80, durante il risveglio Kanak, il rifiuto da parte dello Stato francese di negoziare, motivato da calcoli politici ed elettoralisti, non fece altro che accelerare la spirale della violenza, il cui prezzo venne pagato principalmente dai Kanak stessi. 

Allora come oggi, la destra di Jacques Chirac, in piena coabitazione con il presidente socialista François Mitterrand, fece sue le rivendicazioni dei caldoches e degli anti-indipendentisti, sostenendone i tentativi di sbarrare la strada alla benché minima evoluzione politica in favore dei Kanak. 

Allora come oggi, i coloni bianchi crearono milizie armate che sparavano sui militanti indipendentisti e tendevano agguati omicidi. Il culmine di questa fase di guerra civile, che fece più di un centinaio di vittime in quattro anni, fu il massacro della grotta di Ouvéa, un’isola nel nord dell’arcipelago.

Allora come oggi, si trattava di una questione all’apparenza tecnica: una riforma dello statuto del territorio che avrebbe favorito gli anti-indipendentisti, una riforma che la destra di Chirac intendeva intraprendere senza concertazione alcuna coi Kanak, con l’idea di capitalizzare il consenso elettorale dei caldoches alle elezioni presidenziali del 1988. 

In un contesto di tensione crescente, pochi giorni prima delle elezioni, un gruppo di Kanak prese in ostaggio un gruppo di gendarmi intendendo forzare il governo francese al negoziato. Ma la destra francese, in cerca di consenso elettorale, preferì inviare le forze speciali all’assalto alla grotta dove i Kanak avevano tradotto i gendarmi. Nell’operazione vennero uccisi 19 Kanak, alcuni dei quali giustiziati con un colpo alla testa, l’isola venne occupata militarmente e i suoi abitanti vennero torturati coi metodi sperimentati durante la guerra d’Algeria. Dopo il massacro, la destra perse le elezioni e vennero siglati gli accordi di Matignon firmati dal leader indipendentista Jean-Marie Tjibaou e dal lealista Jacques Lafleur. 

Eventi così lontani nel tempo, sembrano improvvisamente attuali e pronti a ripetersi. Ciò obbliga a interrogarsi su cosa non abbia funzionato, al di là dell’autoritarismo francese. Se gli accordi di Matignon e di Nouméa hanno gettato le basi per un processo di pace e di costruzione di una nazione, allo stesso tempo, il processo si è rivelato ben più difficile di quanto previsto, in termini di miglioramento di qualità della vita, in particolare per i Kanak. 

Se il popolo neo-caledone è riuscito a mantenere la pace per un trentennio, all’interno della società sono rimaste grandi contraddizioni legate all’ordine coloniale. Le istituzioni e le politiche costruite sul modello europeo (in primis la scuola), spesso senza tenere conto delle specificità locali, hanno condotto a un accesso differenziato alle risorse, marginalizzando una parte della popolazione. A farne le spese più di tutti sono stati i giovani Kanak, che registrano tassi di disoccupazione e descolarizzazione allarmanti e faticano a integrarsi soprattutto a Nouméa.

Per la destra e i media locali, questa gioventù rappresenta l’incarnazione perfetta della “classe pericolosa”: una popolazione violenta, deviante, soprattutto agli occhi dei cittadini bianchi e benestanti di Nouméa. Ma in realtà, la segregazione della gioventù Kanak è il risultato cristallino di un processo coloniale di marginalizzazione violenta.

Foto di Viro Xulué

Non è un caso che le rivolte siano scoppiate proprio a Nouméa, la “ville blanche”, dove il divario sociale e razziale è più evidente che altrove, dove una minoranza di ricchi bianchi vive in ville da sogno con piscina, in paradisiache gated communities, guardando, anzi sorvegliando, da lontano s’intende, i quartieri “melanesiani” fatti di palazzoni popolari, sovrappopolati e afflitti da soglie altissime di povertà. Questa gioventù Kanak era dipinta come prettamente apolitica, orfana di ogni riferimento identitario, del tutto cinica e nichilista. Eppure è questa stessa gioventù ad aver votato in massa durante i referendum del 2018 e del 2021, popolando pacificamente le mobilitazioni per l’indipendenza. E ora, di fronte all’arroganza dello Stato coloniale, è questa gioventù a esplodere nelle rivolte, a volte a costo della vita.

Ma non c’è repressione che tenga: quando lo Stato francese ha sancito come “irreversibile” il processo di decolonializzazione, non ha fatto che registrare un’ovvietà, una verità che i Kanak conoscono da molto tempo, per la quale lottano da secoli e che sono sicuri di ottenere, a discapito del tempo che sarà necessario per raggiungerla.

Non importa quanto siano affilati gli artigli sfoderati dallo Stato coloniale, quanta violenza esso dispieghi per aggrapparsi a quanto gli resta del proprio potere. Come disse – con un certo ottimismo – Jean-Marie Tjibaou, «un bien volé réclame toujours son propriétaire»: un bene rubato (la libertà di un popolo) reclama sempre il suo proprietario. 

Matteo Gallo (antropologo, specialista della Nuova Caledonia) e Filippo Ortona (giornalista, corrispondente dalla Francia per “Il manifesto”)

In copertina: immagine dei blocchi stradali nel nord del paese, maggio 2024 di Jean-François Porin-Pouéa

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