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Still frame del film Desert Suite

L’uso analogico del digitale. “Desert Suite” di Fabrizio Ferrario

Con “Desert Suite” Ferraro prova a dirci come abitare il disastro e convertirlo nel suo opposto e lo fa con un uso analogico del digitale che revoca in dubbio la coerenza delle immagini e risolve la Storia in storie

All’inizio, c’è la Storia, con la maiuscola a capolettera. Le immagini di archivio di scenari bellici e postbellici non ben identificati ci ricordano che siamo in guerra, ovunque e comunque, per quanto da noi – in questo lembo di terra che chiamiamo ancora Occidente, o Nord Globale, le dimensioni dell’illusione non contano – si faccia ancora finta che non sia così. Ma chi sta combattendo chi? Chi siamo noi che guardiamo, se non dei soldati ai quali è stata sottratta anche la consapevolezza del proprio arruolamento di fatto? Intanto, due giovani si raccontano l’uno con l’altra, come se nulla più li riguardasse da vicino. Le atrocità, d’altronde, si susseguono intorno a loro come perle inanellate di una stessa collana; gli stessi volti degli esseri umani rilucono ormai di una sofferenza quasi intrinseca, immanente, come fossero animati da una segreta fusione a freddo di sentimenti destinati a rimanere indecifrabili, fatalmente incompresi, tetragoni alla messa in comune che li renderebbe sopportabili. Ognuno è tutto quel che deve essere, ognuna fa parte di un insieme di cui non è possibile tracciare il confine e che va immancabilmente in malora. Non c’è alterità nemmeno intravista, non c’è linea di fuga percorribile, all’orizzonte, in prima istanza.

Un film per abitare il disastro (e uscirne)

Nel suo nuovo film, Desert Suite (Italia, Francia, Spagna 2024), uscito nella sale lo scorso 29 ottobre, Fabrizio Ferraro ci consegna allora a un motivo di riflessione tanto arduo quanto necessario: come ci abita il disastro e come lo si volge nel suo opposto? La sfida è enorme, e non poteva essere altrimenti: in un’epoca di cambiamenti tanto repentini quanto drastici, quando l’urgenza dell’arte diventa al contempo irresistibile quanto difficilmente praticabile, la timidezza formale e tematica non ha più alcuna ragion d’essere. O si osa, e ci spinge dove altri non hanno ancora tentato, o si è destinati a rimpolpare un chiacchiericcio che finisce per aggiungersi agli imperativi dei corifei della controrivoluzione neoliberista in atto. E Ferraro non arretra su nessuno dei due fronti.

Giovane che ha molto viaggiato, secondo le sue stesse parole, e che è stato a vendemmiare nel Sud della Francia – come molte e molti giovani effettivamente fanno negli ultimi anni, in cerca di un rinnovato contatto con l’origine, fuori e dentro di loro –, il protagonista (Gianmaria D’Alessandro) ha allora, nell’economia della storia, la funzione di rivelare come qualcosa sia già andato storto e che in questo deragliamento dell’ordine costituito – mentale e materiale – noi tutti siamo implicati e immersi sino al collo. Per questo il film ha più inizi e si potrebbe dire anche che procede di inizio in inizio. Un breve epilogo metropolitano è succeduto infatti da una sequenza rurale e arcaizzante che si intrude poi direttamente nella ambientazione tardo-capitalistica per il resto prevalente. Due ragazzi si parlano così del mondo, e del suo sfacelo, e lo fanno in una sorta di edizione aggiornata ai crismi dell’Antropocene conclamato del dialogo in deambulazione fluttuante di Hiroshima mon amour di Alain Resnais.

Il disorientamento in cui versa innanzitutto ogni corpo, di fronte al male apparentemente irredimibile che ci circonda, un disorientamento che si illustra da sé nelle immagini storiche che aprono la vicenda (come nei tramonti fuori asse che sbalestrano lo sguardo…), diventa allora il vero protagonista di una narrazione sfigurata, in cui la gamification della realtà, segnalata da una sequenza videoludica di apertura, trasforma tutti in bimbi sperduti, e condanna quindi i non più giovani, che appaiono solo di spalle o di profilo, a una sorta di invisibilità larvale, crepuscolare.

Lo spettatore è condotto così attraverso una serie di scene che perlustrano l’ampiezza, di questo disastro, senza sconti. I grattacieli a strapiombo sulla città, che la tengono in una distanza siderale (siamo a Rotterdam), il parco che sembra galleggiare in un mare di nulla, il pendio, persino, di una vigna, che non dà più i suoi frutti (a Banyuls-sur-Mer). Tutto testimonia che tutto sta andando in rovina, compresa la possibilità di dare un senso complessivo all’esistente. Le esistenze dei giovani protagonisti sono allora documentate nella loro abbandonarsi alla deriva, che altro non è se non il prodotto essenziale delle dinamiche stesse del capitalismo avanzato, della sua volontà di sbarrare il passo a ogni istanza collettiva di trasformazione dell’esistente. Il tratto di una vita al suo punto massimale di contrazione, di una vita in tutti i sensi terminale – terminale come il terminale di una macchina o come il malato terminale – è illustrato quindi per esacerbazione. La violenza accade allo stesso modo di una mela che avvizzisce, di un palo dell’elettricità che cade durante un temporale. È un processo puramente inerziale, stupidamente entropico. Ci sono sciamani contemporanei, quindi, che suggeriscono di rinnovare il proprio rapporto con il divino alla luce della sua assenza elettiva, ruvidi pendii sui quali chinarsi a raccogliere acini, nella speranza che non tutto sia rovinato all’inferno e scaraventato nel buio; contro il cielo si stagliano edifici dai quali il mondo si fa compiutamente immagine, senza però che nella sua foggia si possa ancora ritrovare il principio di un’esperienza di qualche tipo, degna di questo nome. L’amore è scomparso, diventando il fantasma aleggiante e latitante al contempo di un’epoca di cui non si ricorda nemmeno la fine. E nessuno sembra sollevare più la minima protesta, sembra solamente.

Perché è di un esperimento che ne va, sebbene condotto direttamente con la tessitura del visibile, prima di tutto, ma anche con l’esistenza erratica delle persone in questo scorcio di XXI secolo, e con la struttura stessa del reale, che si squaderna in una luce cruda, pericolosa, ma anche densa di echi cinematografici, pregna allo stremo di ipotesi non ancora percorse, di futuri inespressi, al plurale, rigorosamente al plurale. Per questo motivo il protagonista di Desert Suite appare ignoto persino a lui stesso: noi siamo e non siamo lui, su più livelli, nell’unica postura con cui l’identificazione deve poter avvenire: fallendo ogni volta, ogni volta che essa ci tenta con la sua malia. La sua ricerca in prima istanza senza senso, perché alla ricerca del Senso in quanto tale, un Senso che è stato dichiarato irreperibile dalle stesse infrastrutture dell’Iper-modernità in cui continuiamo ad affondare, è allora una ricerca in articulo mortis.

Sfacelo del singolo e malattia della Terra

Che cosa abbia scatenato il disastro generalizzato in cui si dipana la vicenda non è detto, d’altro canto, e non è tanto questo il problema, in fin dei conti. Il riscaldamento globale, un economia sempre più indifferente alle sorti individuali e collettive, lo sfilacciarsi conseguente delle relazioni interpersonali, che condanna ognuna e ognuno a un’insondabile solitudine, a una guerra di tutti contro tutti dalla quale non c’è più via d’uscita. Il procedere verso lo sfacelo del protagonista non è solamente un sintomo soggettivo di un’esistenza che si è perduta per ragioni che non sono parimenti esplicitate, ma appare come una malattia della Terra, come un’irritazione sull’epidermide della specie umana tutta; si impone come un terremoto nella forma generale che ha assunto la vita antropica sinora, nella sua ricerca di una sola modalità di esistenza, a discapito di tutte le altre. Il mondo vacilla e nella sua complessione si aprono delle incrinature, dalle quali filtra tanto bene quanto il male: sta a chi ci si trova, nel mezzo di questa invasione degli ultracorpi, provare a distinguerli l’uno dall’altro. Non la psicologia “norma”, ma la psicopatologia nelle sue diverse manifestazioni è l’apparato di registrazione di tutto questo. Se «manca la vita», come dice il vignaiuolo, è perché, insomma, non sappiamo più ascoltare il suo richiamo.

Si balla allora, alla fine di ogni efferatezza, con la musica in cuffia, in un isolamento dal mondo che non potrebbe essere più grande, perché anche la fine di tutto va addomesticata, esorcizzata, contenuta, soprattutto se ha già avuto luogo, se continua a riecheggiare inascoltata attraverso di noi, attraverso il nostro esistere residuale, soprattutto per chi con la fine ha deciso di non volerci fare i conti, di non volerla guardare dritta negli occhi; per chi la fine non vuole che rimuoverla testardamente.

E tutto ha ormai il modo d’essere del resto, della sua assenza di pretese, del suo non volere altro che restare. Ma c’è un’altra maniera di stare in questa deriva, sapendo che c’è sempre ancora da fare, e da fare con umiltà, come il mulo, per esempio, che si propone solido e immutabile in alcune delle immagini più intense del film, un “da farsi” senza più sperare in alcunché, accettando di introdurre nel reale non ciò vorremo che fosse, ma ciò che non possiamo sapere cosa e come sarà stato quando non saremmo più vivi, quando qualcun altro avrà preso il nostro posto. È la consapevolezza di una realtà che si va tramutando in un’assenza di pienezza, e che coincide paradossalmente con un troppo pieno, il troppo pieno di chi non ha più tutto da voler e poter controllare.  

L’opacità in cui versano personaggi è quindi una condizione in attesa di rivelarsi, innanzitutto a se medesima. Bisogna voler vedere, e credere finanche alla propria cecità, per tornare non tanto a vedere un’altra volta, ma a toccare le cose, nel loro nativo insorgere contro le forze della guerra civile che ha luogo innanzitutto all’interno di ciascuno, per scoprire insomma che anche la visione è una forma dell’esperienza tattile, e anzi del contatto: è relazione e incontro.

Non c’è nulla nel film, con la sua impostazione rigorosissima e onirica al contempo, che suggerisca una preventiva collocazione di genere, eppure qualcosa indica insistentemente che tutti i personaggi sono proiettati ormai in una zona d’ombra fondamentale, in un tempo postumo, preda di una sentenza tanto tardiva quanto esiziale, come in un noir o in un thriller che riflette sulla struttura di genere in cui si è incanalato il reale stesso, con la sua passione per l’apocalisse, con la sua ansia di collocarsi sempre sotto un’etichettatura quale che sia. Ecco dunque che ci si ritrova a pensare che nessuno dei personaggi sia più davvero in vita, che il registro mobilitato sia quello di un atipico zombie movie. Lo spettacolo è inscenato da un manipolo di revenant che parla dai confini dell’universo sensibile – dai confini frastornati del benessere e del pensiero unico – e che parla senza sosta solamente del proprio restare in questo margine liminale. L’oggetto del film, per così dire, è uno strano al di là, un afterlife insindacabile, nel quale la serie degli eventi si snoda in una successione di scene sovrapposte, ciascuna delle quali finisce sempre per restituire una prospettiva sull’intero film. Le cose appaiono inesorabili, spietate, senza speranza, eppure aprono continuamente uno squarcio non solo nel visibile – la cui stoffa è riportata finalmente a una cifra non padroneggiabile, restituito alla sua salienza primitivamente irruttiva –, ma anche nella concatenazione logica degli accadimenti. A ogni passo, se ogni passo è un tutto autonomo, si potrebbe cambiare passo, e dunque oltrepassare quel tutto, reinquadrandolo in un nuovo tutto, sempre di là da venire. A ogni passo, se ogni passo è l’ultimo, l’apocalisse potrebbe riassumere il suo originario significato etimologico di “rivelazione”. La morte è alle nostre spalle, ora si tratta di risorgere, di diventare finalmente consapevoli di questo disastro declinabile solo al passato. L’elemento femminile (Rachele Roggi, Cécile Delamere) che serpeggia con sovrana clandestinità nel film ha perciò questa portata sovversiva: riaprire il quadro, sfrangiarlo, problematizzarlo dall’interno, senza aspirare alla visione di sorvolo in cui indulge invece per lo più l’elemento maschile, pronto a sfracellarsi sulla mancanza di riferimenti dell’odierno colare a picco. Si risorge, allora, come una possibilità inattesa di consapevolizzazione imminente. Si torna dopo che il peggio è accaduto, come per sbaglio.

D’altronde, per un regista che viene dalla pellicola, la scelta di girare in digitale ha questa volta un senso di ritrovata artigianalità: ogni immagine è come un distillato; l’oggetto in primo piano, che sia un volto umano, un mulo, o un dettaglio urbano, si staglia su uno sfondo quasi sfocato, su una corolla di indeterminazione che segnala come il digitale tenda, tenda solamente, a separare ogni essere dal suo contesto naturale, sparpagliando le vite in un oceano di passioni tristi.

La digitalizzazione ha la virtù non marginale di introdurci a questo disorientamento, che scalza la struttura dialettica di avvicinamenti e oltrepassamenti successivi in cui si è articolata principalmente l’esperienza della Modernità, per riproporcela su un altro piano, il piano non più cronologico e lineare delle generazioni, ma quello spaziale e topologico dei luoghi in cui avviene ogni sorta di rapporto, in cui la cura delle relazioni ridiventa praticabile.

Quello che succede dopo, ogni volta, non è allora ciò che in senso stretto viene dopo, e che dovrebbe condurre il ventaglio iniziale di scelte possibili in cui si trovano i personaggi a un esito che si manifesta quale sempre più inevitabile, secondo una sorta di assottigliamento progressivo delle alternative di sviluppo in cui spesso si incanala la narrazione filmica e seriale. No, questa volta il film si ispessisce frame dopo frame, si carica di potenzialità inespresse, si gonfia come una spugna spazio-temporale di nuove opportunità non avvertite. Ora, quando i morti tornato sulla terra senza nemmeno sapere di essere morti, ora che cominciano pian piano a scoprirsi tali, in un processo che richiede una veggenza sempre più penetrante e disarmata, diventa possibile di nuovo l’imprevisto, se pure in un primo momento prende l’andatura più «tragica» che si possa immaginare, come ha fatto notare il produttore esecutivo Antonio Sinisi. Qui “tragedia” va inteso appunto in senso proprio, come destino inaggirabile di qualcuno che non ne ha più alcuno, di destino, e che però conosce a un certo punto un arresto, che lo fa scivolare per sempre fuori dai cardini. Persino la morte è sfidata, portata al suo punto di rottura di legge intrasgredibile. Assistiamo così alla costruzione di un dispositivo che ha per fine la messa in sospensione, se non la manomissione definitiva, del suo carattere disponente. Lo spettatore è invitato a sapere che il sapere non basta, e che bisogna tornare a vivere, e a sentire, e a stare nella vita senza esitazioni, anche fosse rispetto a un salutare esitare rispetto al male.

Suite come susseguirsi di piani di disastro e di redenzione

La suite del titolo, allora, non è solo l’appartamento lussuoso in cui si svolge in parte la vicenda, ma anche l’insieme di piani in cui prendono forma e il disastro e le sue svariate possibilità di redenzione, è la composizione di tempi che sulla superficie del racconto coesistono assurdamente. Il deserto è anche un campo da ricoltivare, con la luce negli occhi, che ci abbaglia e forse ci può persino ancora esaltare.

La tendenza maggioritaria del presente non ha altra ambizione, infatti, dal compitare il già pensato nell’impassibile funzionamento a cui per il resto si assiste allibiti. Il suo scopo primo è ideologico, nel senso preciso di ciò che contribuisce alla perpetuazione di una falsa coscienza della realtà, perché fuori fase rispetto alla sua situazione attuale, sempre ancorata al desiderio di sussumere l’intercorrente sotto il già occorso e il già concepito (è la predizione integrale a cui tende la digitalizzazione). È così che ogni “esperimento” presunto si situa già un passo indietro, vale come un resoconto retrospettivo delle prestazioni che la macchina globale rende agibile senza alcuna eccezione e che la macchina stessa ha catturato, parassitando l’agire originale di ciascuna e di ciascuno al solo fine di renderlo sempre meno eterogenetico. È quanto si potrebbe definire l’uso digitale del digitale.

La massa di procedure di analisi, di ordinamento e di anticipazione, che si addensano intorno alla svolta digitale degli ultimi quattro decenni, si limita insomma per lo più a esplorare delle possibilità incorporate direttamente nell’architettura simbolica dispiegata dagli stessi dispositivi che vengono immessi nel grande ciclo del mercato mondializzato.

Ma è giunto ormai il momento di tentare di esplorare l’impossibile. Le opere dell’arte, della scienza, della politica e dell’amore che dànno qualcosa di inedito da pensare sono d’altronde sempre già pensiero in atto, in attesa di essere intercettato, ancora riottoso al suo deciframento. Le opere riuscite sono parte di un pensiero pensante che non ha la forma che ci si aspetta, inevitabilmente. Come pensiero rappreso in una sostanza che non si presta a essere esaurita dall’esercizio troppo regolato del concetto, queste opere sono il vettore di un sapere che resta da conoscere, ad infinitum. L’apporto proprio di un pensiero codificato come tale, in quanto pensiero già pensato nelle circonvoluzioni dell’epoca, si limiterà perciò a slatentizzare, senza credere di poter ridurre così l’innesto di energia, a volte persino brutale, che l’opera medesima ha fatto subire al nostro stare al mondo. Dopo, si tratterà solamente di ricominciare daccapo, sempre, sapendo che nessuna teoria metterà a punto una volta per tutte il nostro barcamenarci con noi stessi e con l’alterità radicale che ci si fa sistematicamente innanzi. Dopo, ci sarà ancora da ricominciare, senza temere di non essere pronti. Le opere migliori sono quelle che lasciano il posto a una decisione su come collocarsi nel reale, che fendono il reale aprendovi dentro una distanza abitabile, senza con ciò esorcizzarne la flagranza rudimentale.

Slegare il diverso

Anche i volti esposti in Desert suite, con l’alone di sfocatura che li tiene in sospensione nel circostante e che significa senza giri di parole lo slegame profondo in cui è precipitato il vivere rispetto all’orizzonte di trasformazione comune dell’esistente un tempo credibile e creduto, anche i volti galleggiano quindi in cerca di una nuova dimora, da recuperare sul limite della sua dispersione massimale, come una chance inanticipabile e quindi mai additabile in modo solamente didascalico, dottrinale e univoco. Il carattere di trapassato che aleggia su tutto è anche quello in cui si trova ogni concettualizzazione nei confronti dell’operare artistico, come di ogni evento, un operare che procede in uno spazio d’eccedenza, che istituisce ed esplora allo stesso tempo lo spazio d’eccedenza in cui si installa. È l’aspirazione a dire tutto a scadere, a mostrare la corda. È l’esigenza di circoscrivere il diverso sotto un unico segno, a caracollare. Qui siamo, senza saperlo davvero, qui dobbiamo provare a restare, senza credere di poter fare di meglio, avendo solo la certezza di dover fare altro. Additando nell’elemento del digitale stesso con il quale è stato realizzato il film la natura separatrice e appunto slegante delle tecnologiche numeriche, Ferraro riesce nel compito difficile di fare un uso analogico del digitale, che esibisce in corpore vili l’insufficienza dell’ambizione tecnocratica di ricalcolo integrale di ciò da cui non si può comunque prescindere: la continuità in cui non si dànno mai né totalità né unità definitive, l’essere in perenne divenire della Natura, e quindi, anche, delle comunità umane.

Il mettersi di traverso, della Natura stessa, il suo manifestarsi sotto la forma privilegiata della crisi, di un ostacolo di qualche tipo alla pretese di irregimentazione che vorrebbero ricondurre tutto a una sola misura. Il metodo suggerito di riconduzione del separato al suo sostrato di provenienza è in questo caso, allora, anche l’approdo, di nuovo, un metodo che spinge l’immagine fuori dai ranghi di un tentativo di militarizzazione dell’esperienza che, come ha sottolineato lo stesso regista in occasione della prima veneziana del film, rischia altrimenti di imbrigliare ogni cosa soltanto al proprio nome.

Si tratta di cogliere alla radice questa mutazione, senza pensare di andare indietro, ma senza nemmeno credere di poter smettere di andare avanti. Si scopre allora che la verità esiste fuori, ma nell’errore, e diventa così costantemente altro da sé, senza confondersi con il falso a cui invece ci assuefà l’ordine del discorso computazionale, in cui lo schermo funziona ormai come uno specchio in cui rimirare soltanto se stessi e non più come una finestra dal quale osservare il mondo nella sua lussureggiante diversità; in cui ogni soggetto non si distingue più dall’oggetto con il quale è in rapporto, perché la realtà è sussunta sotto l’avatar che pretende di renderla una volta per tutte calcolabile. A differenza delle droghe assunte dai personaggi del film per fuggire il disastro, ora è quindi il momento di potenziarsi, con o senza l’ausilio di una qualche pianta maestra, per sprofondare nel punto in cui il cielo riprende a proiettare la luce dei suoi astri dall’abisso in cui ci siamo scaraventati da noi stessi. Ciò che viene dopo, infatti, non è mai soltanto la prosecuzione di ciò che era prima, ne è la premessa svelata, il principio che si stava cercando non sapendo di cercarlo. Bisogna saper guardare, anche nella totalità sensoriale di ogni immagine riluce una screziatura imprevista, anche nella perfezione cristallina degli schermi a cristalli liquidi si intrude una ferita, un’interferenza, una piccola crepa, dal quale penetra disturbante e indisturbata la materia insondabile delle cose. E di lì che si accede al passaggio al limite che sbocca oltre, verso le altre possibilità di vita, nella loro pluralità sconfinata. Dopo la Storia ci sono allora le storie, che ognuno di noi può provare a sondare e a costruire, sapendo che non saranno mai le ultime, ma sempre e solo le prime.

Immagine di copertina: still frame del film Desert Suite

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