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L’unità di colonialismo, estrazione e finanza – secondo Scorsese

L’attesissima anteprima fuori concorso a Cannes “Killers of the Flowers Moons” di Martin Scorsese mette in scena la storia della tribù indigena degli Osage, ed il seguito subdolo e razzista della ferocia coloniale, sostenuta da banche e finanza

L’attesissima anteprima fuori concorso a Cannes “Killers of the Flowers Moons” di Martin Scorsese mette in scena la storia della tribù indigena degli Osage, misteriosamente ammazzati a inizio degli anni Venti. Sullo sfondo di una relazione d’amore tra la nativa americana Mollie (Lilli Gladstone) e il fin troppo mediocre uomo bianco Ernest (Leonardo Di Caprio), si apre uno squarcio su un pezzo di storia che racconta il seguito subdolo e razzista della ferocia coloniale, sostenuta da banche e finanza

Se l’accumulazione originaria altro non è che «il processo storico di separazione del produttore dai suoi mezzi di produzione» (Marx, Il Capitale, I, 24), una delle sue qualità è che essa non si dà solo all’origine del processo di trasformazione del denaro e della merce in capitale, ma che si ripete, in tempi, luoghi e modi diversi nella storia moderna e contemporanea. Così il processo di colonizzazione delle Americhe – e dunque di genocidio, espropriazione ed estrazione delle risorse delle popolazioni indigene e dei nativi americani – invece di cominciare e finire all’alba del XVI secolo con le guerre e i massacri dei nativi indiani, sono proseguiti nella forma di un assestamento ugualmente violento dei rapporti di dominio coloniale. Nel XX secolo questo processo aveva preso ormai la forma delle sterilizzazioni forzate e dell’emarginazione in quella sorta di veri e propri campi di concentramento, chiamati riserve indiane, che sancivano la limitazione dei diritti civili, sociali e individuali delle comunità indigene.

Il culto della frontiera dove la linea di confine sancisce la divisione tra uno spazio statuale potenzialmente pubblico e il vuoto anomico delle terre da conquistare e sfruttare è stata pensata, canonizzata, talvolta criticata, dai film western. E su questo genere, sporcato con il gangster-mafia movie di Goodfellas e Gangs of New York, si sofferma Martin Scorsese con un film fuori concorso, ma in anteprima mondiale, di cui è difficile anche solo dare l’idea dell’attesa in sala a Cannes. Killers of the Flowers Moon fa i conti con la fondazione dell’America del Nord mentre nega la sua originarietà per coglierne i tratti di persistenza nel contemporaneo. E, per farlo, compie un’operazione quasi documentaria, rimaneggiando con una scrittura a quattro mani con il pluri-candidato (e poi premiato per Forrest Gump) Eric Roth l’omonimo saggio di David Grann in cui si racconta del misterioso massacro nel 1920 della tribù di nativi americani degli Osage in Oklahoma. 

Popolazione indigena delle “acque di mezzo”, estranei a quelle che i primi coloni definivano come “le prime cinque tribù civilizzate” (per distinguerle dai “selvaggi” che non conoscevano religione, scrittura e costumi), gli Osage avevano migrato dal Midwest in Missouri e a seguire in Nebraska, Kansas e Arkansas per poi essere forzatamente convogliati in Oklahoma. Questo displacement forzato a fine ‘800 si era per pura ironia della sorte rivelato a suo modo fortunato tanto il terreno sottostante era ricco di “oro nero”. A inizio ‘900 non solo gli Osage riescono a garantirsi il diritto di proprietà della terra lucrosa sulla quale risiedono, ma cominciano a accumulare royalties derivate dalla produzione di petrolio per un totale di 30 milioni di dollari solo nel 1923. 

Scorsese apre il film, riprendendo l’intersezione tra due ritualità, la sepoltura di una pipa a cui fa seguito una danza circolare della pioggia premiata dalla fuoriuscita di petrolio. Sepoltura ed emersione, spirito e materia, Wakanda e petrolio, aprono e chiudono circolarmente la storia straordinaria di questa comunità che, come ci ricorda uno dei protagonisti, l’approfittatore e cercatore del nuovo oro William Hale (Robert De Niro), a differenza di tutte le altre comunità indigene non è povera ed emarginata, ma tra le tribù più ricche di tutti gli Stati Uniti. Vuole trasmettere conoscenza, William Hale, insegnare al nipote Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio) come addentrarsi nella comunità indigena, utilizzando il doppio volto della magnanimità e della speculazione. E, tuttavia, una serie di misteriosi omicidi irrisolti cominciano ad affastellarsi in questa strana riserva che, presieduta dalla tribù degli Osage, sempre più si riempie di uomini bianchi che si ergono a tutori delle ricchezze finanziarie dei nativi, ne sposano le donne, specie quando sono di “puro sangue” e quindi intitolate alla proprietà del petrolio sottostante. Il processo di connivenza tra estrazione diretta delle risorse minerarie, la protezione finanziaria degli uomini bianchi garantita non solo dalle banche ma anche dal neonato sistema di assicurazioni sulla vita e la salute, si accompagna al matrimonio di convenienza che supplisce con l’appropriazione giuridica per via ereditaria il processo di eliminazione diretta dei colonizzati. Un episodio che costituisce una variante della storia americana, come suggerisce lo stesso Scorsese, e rimanda al massacro di Tulsa in quegli stessi anni Venti, quando la Black Wall Street venne pesantemente attaccata da una folla di bianchi risentiti e riottosi, lasciando 300 persone uccise in quasi meno di un giorno. 

Se William Hale-De Niro si autonomina come il “The King” della comunità degli Osage, Ernest-Di Caprio, invece, brilla (come sempre nelle sue interpretazioni) in tutta la sua pochezza, quando ama la moglie – affetta, come gran parte della tribù, da quella malattia al tempo ancora misteriosa che si chiama diabete e ancora oggi costituisce la principale causa di morte delle persone di colore negli Stati Uniti – ma allo stesso tempo uccide i membri della famiglia e la avvelena. Il problema del bene e del male – quasi un’ossessione per Scorsese, insieme al peccato, al pentimento e alla mancata redenzione–  sfugge da tutte le parti, non solo perché la moralità dei nativi americani è talvolta descritta come ingenua e altre volte consapevole, spirituale e materiale, ma anche perché il film è tagliato in due da queste due figure maschili così diverse, William ed Ernest, che incarnano rispettivamente il male consapevole e la banalità del male, agita dall’uomo non solo medio, ma mediocre: connivente ma allo stesso tempo instupidito; innamorato, ma non abbastanza; pentito, ma non fino in fondo. 

E così questa storia di accumulazione originaria viene decomposta e ricomposta da un multilivello di ri-mediazioni narrative, filmiche e, sul finale, persino radiofoniche, con un cast dalla potenza fuori controllo, e si fa canto epico della fondazione americana: tra violenza e diritto; mediocrità e crudeltà meditata; anomia ed emersione dello Stato. Il sottotitolo del libro di David Grann, infatti, è The Osage Murders and the Birth of the FBI, perché proprio il caso dei plurimi omicidi degli Osage aveva costituito l’atto di nascita (anche esso già corrotto, decomposto) di una delle poche istituzioni che fanno della federazione americana uno Stato in senso classico, e cioè la polizia federale, allora governata da quello che sarà il protagonista indiscusso dei romanzi e film crime-noir, J. Edgar Hoover. Su questa chiusura sinistra si sofferma Scorsese, per poi lasciare l’ultima scena di nuovo ai nativi americani raccolti in cerchio che, come i “flowers moon”, risorgono dopo l’inverno a segnalare il ritorno della rinascita e dell’abbondanza – la forza della sopravvivenza dopo la gelata.