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L’ostinata liberazione di un imbranato
Tra le ultime uscite della casa editrice Cliquot c’è il romanzo dello scrittore Jean Malaquais, dal titolo “La città senza cielo”. Un racconto appassionante che parla di istituzioni totali, identità ed emancipazione
L’opera è stata pubblicata in Francia per la prima volta nel 1953, con il titolo Le gaffeur ed era il terzo lavoro dell’autore polacco, naturalizzato francese. La bella traduzione del testo è di Elisabetta Garieri e ci consegna, in linea con la politica editoriale della casa editrice romana, un altro squisito testo dimenticato del Novecento letterario europeo. Il protagonista è Pierre Javelin, venditore porta a porta di cosmetici e lozioni, dipendente di uno degli improponibili istituti che amministrano le esistenze nella città (Istituto nazionale per la bellezza e l’estetica). L’evento che scatena il disequilibrio e quindi fa partire il racconto è un errore troppo grossolano per essere innocente: una firma sbagliata nel nome, in una richiesta di aumento di stipendio.
Per lo stile, la qualità e gli argomenti trattati La città senza cielo può essere considerato un classico e, a definirlo tale, non concorre il gusto estetico di chi scrive ma una serie di coordinate che aiutano a tracciarne il profilo e la grandezza.
La prima di queste coordinate è la radicalità dell’autore. Seguendo Asor Rosa, è la sua capacità di andare alla radice delle cose, dell’essere: per quanto complicata sia la definizione di quest’ultimo concetto. Diciamo, nel nostro caso, alla radice dell’essere umano e della sua identità che è un altro nome di difficile gestione, ma di cui questo romanzo pare individuare alcuni elementi portanti e conseguenti possibilità di sviluppo. Inoltre, un classico ha la capacità di rimanere come rumore di fondo, scriveva Calvino su “L’Espresso” nel 1981, anche quando gli eventi contemporanei dominano con la loro produzione di senso. E rimane tale, classico, anche quando è nascosto alla memoria, al ricordo, scivolato nell’inconscio da cui comunque comunica.
Inevitabile, a questo punto, sottolineare il ruolo che svolge quella casa editrice che, come un’antenna, sente quelle vibrazioni, le individua e gli restituisce un canale di trasmissione adeguato.
Sulla radicalità di Jean Malaquais rimandiamo alla sua vita vissuta che, proprio al contrario di quella del protagonista del romanzo, fatica a essere riassunta da una linea dritta e coerente di eventi.
Wladimir Malacki, polacco di origine ebraica, arriva in Francia nel 1926. Qui è minatore in Provenza, scaricatore nei mercati della capitale francese. Nel 1935 incrocia André Gide che, dopo uno scambio epistolare fervido e incredibile, diventa suo mentore: gli consiglia di cambiare il nome, per soddisfare i mai sopiti pruriti nazionalistici francesi e gli paga l’affitto, perché abbia tempo di scrivere il suo primo romanzo. È così che Jean Malaquais nel 1939 consegna alle stampe I Giavanesi, romanzo che ha un alto grado di sperimentazione linguistica ed è ispirato anche alla sua esperienza di minatore. Ed è a questa prima opera che La città senza cielo può essere paragonato: non con l’intento di valutarne la diversa qualità ed esprimere preferenze, piuttosto per affinarne l’interpretazione e comprenderne il valore nel processo creativo e intellettuale dell’autore. Rispetto a I Giavanesi, infatti, La città senza cielo è un romanzo perfettamente organizzato, misurato come lo spazio nel quale si muove il protagonista. Non cede niente alla sperimentazione, a cominciare dalla lingua. Proprio questa nel primo romanzo era il risultato delle interazioni disordinate di proletari che arrivavano in Provenza, a scavare in miniera, da ogni parte del mondo. Era il prodotto di un’umanità selvaggia che pure doveva provare a stare in equilibrio, ritrovando se stessa nella socialità, oltre il lavoro, e tra gli altri. Qui al contrario non si sfugge alla cronologia dei fatti, gli eventi sono quelli dettagliati di una relazione. La traccia degli altri emerge solo nel ruolo preciso che ognuno svolge nella vita del protagonista e in quella dei propri simili, al punto che tutti sono comparse all’intero di una sceneggiatura, che è sempre narrazione controllata, disposizione: come la moglie Catherine; la coppia che gli occupa casa, Bomba e Kouka; e il dottor Babitch. Non c’è errore nella disposizione di ognuno di loro, né nel ruolo che gli è stato assegnato. O meglio non dovrebbe essercene, poiché uno sbaglio viene commesso ed è irreparabile e definitivo, quello che dà avvio al racconto.
Proprio questo elemento ci permette di chiarire anche il riferimento al rumore di fondo, a quella comunicazione che l’opera ha continuato a produrre, pur lontana dalla memoria. Pierre Javelin sbaglia la propria firma ed è una mancanza che, ripensata a fine lettura, assomiglia più a un lapsus. Questo atto mancato come tale ci svela una necessità. Un’urgenza inconscia che si manifesta all’improvviso e sfalda l’ordinata sequenza di soggetti e compiti della vita del protagonista. Questo, con il suo gesto, si fa carico di svelare l’illusione retorica che fa di un’esistenza una successione coerente e perfettamente leggibile di eventi. Lo fa a partire dal rifiuto di quella nominazione particolare, assegnata alla nascita e per questo immutabile, che contribuisce come primo elemento a disegnare la traiettoria del vivente: il nome proprio.
Pierre Javelin rifiuta inconsciamente di farsi riconoscere, inciampa in un desiderio recondito e si incastra e incastra il processo burocratico che organizza il mondo, lavorativo e quindi sociale (e non viceversa, questo è importante!). Naturalmente, Pierre è una troppo piccola briciola nel meccanismo di nominazione e controllo per generare danni. Quindi viene facilmente travolto dalla macchina del sistema, che pure mette in scena il tentativo di riassorbirlo, non senza punizione. Il protagonista perde la moglie, la casa, il lavoro, mentre si aggira in una città geometrica, perfettamente squadrata che non prevede la possibilità di perdersi, né tanto meno lo smarrimento.
Il protagonista, sul profilo del quale è forse troppo facile sovrapporre quello dell’autore, inoltre scrive poesie che circolano solo nella clandestinità. Il tema della letteratura come processo doloroso di liberazione è presente e amplifica la riflessione sul sé, a cui il romanzo pare essere dedicato.
Il discorso a cui partecipa quest’opera insomma è quello complesso e irrinunciabile intorno alla produzione di identità e alla sua narrazione. Per leggerla torna utile un bel saggio di Pierre Bourdieu, datato 1986 dal titolo L’illusion biographique, e quindi il più ampio discorso sulla soggettività che ha dato forma a tanta produzione intellettuale, nella seconda metà del Novecento. Ben più misero appare invece il riferimento all’anticomunismo, come chiave di lettura, con cui qualche critico approssimativo ha pensato bene di inquadrare l’attività di un lavoratore, operaio, scrittore, intellettuale che fu comunista consiliarista. Vicino alle posizioni di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, Malaquais era antistalinista, posizione che certamente individua un’altra chiave di lettura del romanzo. La tensione libertaria dell’autore è anche quella che spinge l’ostinato protagonista a perseverare nell’errore e probabilmente gli salva la vita, quando scopre la grande messa in scena nella quale è caduto e che lo condanna a diventare qualcos’altro, lontano da quel consesso di attori programmati. Tensione libertaria conosciuta da quel Norman Mailer, uno dei padri putativi della beat generation, che firma l’introduzione al romanzo.
Un’ultima riflessione sul titolo dell’opera. L’originale inquadrava il ruolo del protagonista, per meglio dire il suo essere in errore, perché gaffeur, pasticcione, forse imbranato. Chi è che sbaglia a scrivere il proprio nome in calce a un documento importante? La traduzione, invece, illumina il contesto nel quale questo “idiota” si muove e predilige un’inquadratura dal basso verso l’alto, tecnicamente supina, anticipando che gli eventi si svolgono in una città da cui non si può godere il cielo. Questo è stato spedito lontano dagli immensi e alti palazzi che la compongono. Viceversa, colui che guarda è stato inghiottito in un inquietante débrayage istituzionale, nel quale è situato come soggetto definito, con una storia perseguibile, che cioè può essere percorsa, quindi premiata o punita. Il rapporto tra il titolo originale e quello tradotto suggerisce un perimetro di lettura che rischiara di molto le possibilità di interpretare questo testo come saggio sull’identità. La domanda chi siamo? banalizza forse di molto il discorso. Che rapporto abbiamo con la nostra storia? migliora il tiro. La città senza cielo, da questo punto di vista, è anche una lunga lancinante risalita, un’emersione inarrestabile verso un “qui e ora” che solo può rivelare al soggetto, oggi più che mai, il suo essere costantemente elemento centrale di una disputa, luogo di incontro e scontro di potere.
Corrispondenza con André Gide, una testimonianza
http://e-gide.blogspot.com/2011/02/jean-malaquais.html
Serge Quadruppani su Malaquais