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L’orso che ci ha insegnato come essere viventi
Con “M49. Un orso in fuga dall’umanità” (Ortica Editrice) Massimo Filippi riscrive la storia dell’orso che tra il 2019 e il 2020 era stato imprigionato dalle autorità forestali della Provincia di Trento perché considerato pericoloso, e che per ben due volte era riuscito a evadere. Una vicenda che ci può far riflettere su che cosa voglia dire mettersi in fuga da uno dei più grandi dispositivi di esclusione che mai siano stati creati: quello dell’Umanità
Forse alcuni se la ricorderanno la storia di M49, l’orso bruno trentino che per diversi mesi tra il 2019 e nel 2020 monopolizzò il dibattito pubblico nazionale, anche per via di uno scontro politico tra l’allora ministro dell’Ambiente Sergio Costa e il leghista Maurizio Fugatti, primo Presidente di centro-destra della Provincia Autonoma di Trento. M49 evase per due ben volte, in modo abbastanza incredibile e rocambolesco a dire il vero, dalla gabbia nella quale era stato rinchiuso dalle autorità della Provincia di Trento al Centro di recupero faunistico “Al Casteller” scaldando gli animi di chi sosteneva il suo diritto alla libertà e di chi invece ne voleva l’abbattimento o la reclusione sulla base dei danni, modesti a dir la verità, che aveva provocato a diversi malgari, pastori e contadini della zona durante i mesi precedenti.
Per capire la vicenda però bisogna ritornare a qualche anno prima, per lo meno alla metà degli anni Novanta, quando venne approvato il progetto Life Ursus, ideato dal Parco Naturale Adamello Brenta insieme alla Provincia Autonoma di Trento e all’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (e ingentemente finanziato dall’Unione Europea), che si proponeva di reintrodurre l’orso bruno nei territori alpini centro-orientali. All’inizio si pensava di portare 9 orsi dalla Slovenia (3 maschi e 6 femmine di età tra 3 e 6 anni) con lo scopo di arrivare nell’arco di qualche decina d’anni a una popolazione che si potesse riprodurre e rigenerare in modo autonomo. Le cose, come era facile prevedere, non andarono come previsto. Tra i vari problemi, oltre alle speculazioni della classe politica leghista trentina, la malagestione del progetto, il panico seminato dalle pagine di cronaca locali, ve n’era uno per così dire strutturale, e cioè che l’arco alpino italiano è la catena montuosa più densamente popolata e più antropizzata del mondo. Claudio Groff, coordinatore del settore Grandi Carnivori della Provincia Autonoma di Trento ammise che quando i suoi colleghi americani visitarono le alpi trentine, mostrarono tutto il loro scetticismo riguardo al fatto che l’orso bruno potesse vivere in tale ambiente e infatti sostenne candidamente che l’unica possibilità per permettere un futuro all’orso bruno sulle alpi fosse quella di farlo vivere tramite un progetto fortemente antropocentrico, alle condizioni cioè dettate e prescritte dall’uomo.
Queste condizioni – cioè “le leggi” a cui gli orsi bruni trentini avrebbero dovuto conformarsi – vennero enunciate dal cosiddetto PACOBACE (acronimo per il Piano d’Azione interregionale per la Conservazione dell’Orso Bruno sulle Alpi CEntro-orientali): il documento di riferimento per la gestione dell’Orso bruno per la regione Trentino-Alto Adige e le Provincie autonome di Trento e Bolzano. In particolare, al capitolo 3 – quello più contestato da associazioni e militanti animalisti – si parla dei cosiddetti “orsi problematici”, quelli definiti dannosi e pericolosi, che in seguito a qualche azione illegittima (non necessariamente “pericolosa” per l’uomo: può voler dire semplicemente rompere un’arnia per mangiare del miele o divellere un recinto) possono essere catturati, gli può venire applicato un radiocollare per il monitoraggio in remoto e in alcuni casi possono anche essere abbattuti. Il progetto di ripopolamento degli orsi in Trentino ha finito per doversi difendere proprio dagli orsi che dovevano “ripopolare” quelle montagne, e in particolare da quelli cosiddetti “problematici” che hanno finito – come nel caso di M49 – per essere internati in quello che è a tutti gli effetti un carcere. Stiamo parlando di orsi che si erano macchiati di “crimini” quali non aver fatto alcuna differenza tra un cervo selvatico o una manza di un allevamento, o che sentendo l’odore del latte non erano entrati bussando alla porta di un caseificio di montagna ma buttando giù l’ingresso: con l’intento criminale addirittura di prendere del latte senza nemmeno avere la creanza di pagare.
M49 è stato senz’altro uno di questi “orsi cattivi”, e per questo è stato catturato più volte: prima per affibbiargli il radiocollare necessario per il suo monitoraggio e poi per una detenzione più lunga (che infine dopo la seconda “evasione” è divenuta definitiva) al Centro di recupero Faunistico “Al Casteller”. La sua unica colpa è stata quella di essersi semplicemente comportato com’era ovvio che un orso si comportasse: cercando la libertà, qualora venisse messo in gabbia, e non rispettando la proprietà privata quando andava alla ricerca di cibo.
Massimo Filippi, teorico anti-specista tra i più importanti e illuminanti che vi sono attualmente in Italia, con M49. Un orso in fuga dall’umanità (Ortica Editrice, 2022) ha provato a entrare in risonanza con questa vicenda, o per meglio dire, con il campo desiderante ibrido e sfuggente che questa storia ha fatto emergere. Anche e soprattutto a noi che delle gesta di M49 siamo stati spettatori. Il risultato è un interessantissimo esperimento di scrittura dove M49 – ma sarebbe meglio chiamarlo un orso o tra secondo una linea di fuga anche dal nome proprio – diventa un’occasione per mettere in atto un processo di animalizzazione. Un’occasione cioè per mettersi in fuga da quell’Umanità – quell’astrazione reale con la “u” maiuscola «che, per ergersi sopra l’intero cosmo e dominarlo e sulle dimoranti sue creature per dilaniarle, si auto-definisce con l’articolo determinativo» (p. 16).
Il problema per Filippi non è tanto entrare nel surreale dibattito tra innocentisti o colpevolisti di M49 (quale dovrebbe essere la legge, della cui trasgressione M49 si sarebbe macchiato?) o appellarsi a una sfera, allargata agli animali non-umani, del diritto in base alla quale chiederne la scarcerazione (per quale Legge? E a quale tribunale?). E non si tratta nemmeno di mettersi a discutere dei dettagli di quello che giustamente l’autore chiama «un aberrante progetto bio-politico di ripopolamento» (p. 12) che ben presto, non appena gli equilibri sono stati perturbati, si è colorato di cupe tinte necropolitiche. Si rimarrebbe ancora dentro a un ordine del discorso dove a M49 verrebbero appiccicate le nostre parole, quelle attraverso cui – esattamente come si fa con i mille processi di esclusione che contraddistinguono l’essere sociale del modo di produzione capitalistico – si divide il dentro dal fuori, la norma dalla patologia, la Legge dalla trasgressione, l’animale dall’umano. E dove a M49 si dovrebbe applicare una Legge alla quale inevitabilmente non potrà che continuamente trasgredire. Si tratta semmai per Filippi di fare qualcosa di diverso: non enunciare la Legge, ma leggere ed essere fedeli alle tracce che M49 ha lasciato a noi con il suo gesto di libertà. E renderle vive mettendoci noi su quelle tracce, e facendoci animalizzare da esse. È questo quello che il vivente a cui si è dato il nome di animale – il vivente animalizzato, proprio come quello razzializzato o eteronormato viene marchiato dal simbolico –non smette mai di fare: non mettersi nel luogo della sutura e della chiusura logocentrica, ma continuamente tracciare e scrivere il confine tra il dentro e il fuori, tra la Legge e la trasgressione, tra il significante e il vuoto (come dice il Lacan di Lituraterra) facendo del significante una lettera dove accogliere e incorporare il vuoto, senza pensare di poterlo espellere o esorcizzare. Tracciare e scrivere la soglia che divide il dentro dal fuori: camminandoci sopra, per così dire, senza pensare logocentricamente di enunciarne il principio di Legge e la pratica della sua trasgressione.
Essere sulle tracce di M49 non può che voler dire allora, invece che raccontarne la storia, abitarne la sua scrittura. E se parliamo di esperimento di scrittura (e non di saggio o di opera di narrativa) è perché il tentativo di Filippi non è quello di enunciare quello che M49 è o è stato (parte della pena che lo affligge sta nell’averne fatto perdere le tracce, in modo che non sappiamo nemmeno più se è vivo o morto), ma continuare a scriverne le tracce: non concedendogli la parola, secondo il principio del parlare a nome di qualcuno come vorrebbe il modello della rappresentanza liberale, ma mettendoci noi stessi in continuità con lui/lei/esso.
Nella prima delle tre parti di cui è composto il libro allora, più che trovarci in una narrazione “a nome dell’orso”, che renda conto di che cosa l’orso pensi o faccia se noi fossimo al suo posto, ci troviamo in un flusso di parole in prima persona: quelle di cui è composto il primo movimento, quello della pura negazione, o della pura libertà negativa. A cui si oppone nella seconda parte il discorso del tu della seconda persona, dove il processo di immaginarizzazione (o di “incarcerazione” nello specchio dell’identità, quello secondo cui il mondo è solo un insieme di individui irrelati e separati gli uni dagli altri, come nelle democrazie liberali) mette l’umano e l’animale l’uno di fronte all’altro. E in effetti è solo specchiandosi nell’animale (ed escludendolo dal campo della razionalità) che l’uomo riesce davvero a pensare di essere sé stesso.
Ma c’è bisogno di fare un passo in più, ci dice Filippi, che non può essere solo quello dell’empatia e della solidarietà – che non sono altro che l’altra faccia compassionevole e altruistica della Legge dell’astrazione reale dell’Umanità e dalla trasgressione animale. C’è bisogno non più di dire (e di distribuire patenti di linguaggio e di razionalità) ma di scrivere, camminando sul continuo in cui le identità non solo si fanno più indistinte, ma si rivoltano e si ribaltano continuamente l’una nell’altra, come in una striscia di Moebius. È qui dove non ci sono più né l’animale del primo capitolo, né l’umano/umana del secondo, ma un terzo registro senza soggetto e senza spessore, come ne L’innominabile di Beckett, che qualcosa di questa vitamorte – secondo la bella espressione dell’autore – inizia a lasciare tracce.
«… e l’avrò detto, senza bocca ma l’avrò detto, l’avrò sentito fuori di me, poi subito dopo dentro di me, forse è questo che sento, che c’è un fuori e un dentro e in mezzo ci sono io, forse è questo che io sono, la cosa che divide in due il mondo, da un parte il difuori, dall’altra il didentro, potrebbe essere sottile come una lama, io non sono né da un parte né dall’altra, io sono nel mezzo, sono il diaframma, ho due facce e niente spessore, forse è questo che sento, mi sento vibrare, sono il timpano, da una parte c’è il cranio, dall’altra il mondo, io non faccio parte né dell’uno né dell’altro…» (Samuel Beckett, L’innominabile, trad. it. di Aldo Tagliaferri, Einaudi, Torino 1996, p. 129).
È in questa dimensione interstiziale, che leggiamo nel terzo capitolo del libro di Filippi – come in una striscia di Moebius dove non si è né da una parte né dall’altra, ma si è in continuità dell’una e dell’altra – che qualche cosa di questo “divenire animale” senza soggetto inizia a prendere corpo. E forse la metafora migliore di questo mondo dove non ci sono più identità e dove i soggetti sono senza sostanza e senza spessore, e dove vige una terza persona di verbi senza soggetto e senza proprietà, ci viene proprio da M49 e da una delle storie più bella della sua fuga.
Dopo la prima evasione del 2019, quando nel marzo del 2020 in piena pandemia di Covid-19, M49 si sveglia dal letargo, è molto affamato e ricomincia a macinare chilometri tra il Trentino e il Veneto in cerca di cibo. Il 12 aprile 2020 compare su internet un video girato da Tommaso Borghetti del Servizio Forestale di Ala dove M49 è da solo sul Carega nelle Piccole Dolomiti che gioca divertito in mezzo alla neve. Si sdraia, si rotola, scava delle buche, ci si butta dentro e poi ne riesce. Sembra ignaro del terrore che ha seminato in Trentino, dei leghisti che lo vogliono abbattere e anche delle trappole che di lì a poco lo riporteranno in carcere. Sembra ignaro forse anche della sua stessa fame (quando lo riprenderanno peserà 40 kg di meno). C’è qualcosa di questa gioia insensata, ci sembra dire Filippi, che ci servirà per «immaginare un mondo come potrebbe essere o […] immerger[c]i in un mondeggiare-insieme in cui la vitamorte può trascorrere nella sua inumana gioia travagliata» (p. 20). Forse il divenire-animale che leggiamo in queste pagine ha anche qualcosa a che vedere con una gioia di questo tipo.
Le illustrazioni dell’articolo sono di Andrea Nurcis e sono incluse in Massimo Filippi, “M49. Un orso in fuga dall’umanità” (Ortica Editrice)