approfondimenti
EUROPA
«L’occupazione sionista è anche in Germania»: si intensifica la repressione anti palestinese
Mentre Israele assedia e massacra la popolazione a Gaza, le autorità tedesche sono impegnate in una lotta su procura contro la comunità palestinese in casa. Repressione, divieti, arresti. E infine l’annuncio di mettere al bando la Rete di solidarietà con i prigionieri politici palestinesi Samidoun
Divieto di mostrare la bandiera palestinese in strada. Divieto di portare la kefya e altri simboli palestinesi nelle scuole. Manifestazioni in solidarietà della Palestina vietate. Manifestazioni spontanee attaccate, persone arrestate. Strade del quartiere a maggioranza araba militarizzate. E infine l’annuncio di mettere al bando la Rete di solidarietà con i prigionieri politici palestinesi Samidoun.
Potrebbe essere un bollettino da Israele, è invece il bilancio da Berlino, Germania, a una settimana dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas. Bilancio difficile da fare e soprattutto da chiudere, perché la repressione continua e sembra farsi più intensa di giorno in giorno. Mentre Israele assedia e massacra la popolazione a Gaza, le autorità tedesche sono impegnate in una lotta su procura contro la comunità palestinese in casa. A tutti i livelli: dal parlamento, ai media, passando appunto per le scuole, gli uffici di immigrazione, le strade. La Germania ha afferrato al volo il pretesto di questa guerra per tirare le fila della repressione, fare i conti con una delle parti più militanti della diaspora e cercare di schiacciare qualsiasi richiamo all’identità palestinese.
Il caso di Samidoun è esemplare. La Rete di solidarietà con i prigionieri politici palestinesi, parte della galassia della sinistra anti-imperialista, è molto attiva nel quartiere arabo di Berlino-Neukölln, dove organizza soprattutto giovani rifugiati palestinesi cresciuti già esiliati nei campi profughi e fuggiti poi una seconda volta in Germania.
Nel proprio lavoro politico i membri della Rete hanno sempre dichiarato apertamente come legittima ogni forma di resistenza, anche armata, contro l’occupazione israeliana. E, soprattutto negli ultimi due anni, sono stati un pezzo importante del movimento che in città ha portato avanti a più riprese manifestazioni ed eventi in supporto della Palestina, nonostante repressione e divieti della polizia.
Anche la sera di sabato 7 ottobre, alla notizia dell’attacco a Israele, Samidoun scende in strada. Il piccolo presidio sulla Sonnenallee, la via dove si concentrano i negozi arabi del quartiere, viene subito aggredito dalla polizia, stampa e televisione cominciano a martellare contro i fanatici sostenitori del terrorismo di Hamas, politici ne chiedono la messa al bando. Vengono taciute le motivazioni del conflitto, la terribile situazione a Gaza, la gioia che i palestinesi possono aver provato nell’aver visto aperta la barriera che divideva la Striscia dal mondo esterno. Media e politica mano nella mano agitano lo spettro del terrore e dell’antisemitismo per delegittimare chiunque si schieri per la Palestina.
La sera di domenica 8 la bandiera bianca e azzurra con la stella di David viene proiettata sulla Porta di Brandeburgo. Lunedì 9, furgoni della polizia cominciano a pattugliare costantemente le strade di Neukölln. Viene presa di mira la comunità palestinese sulla Sonnenallee, fermato chi porta kefya o simboli che rimandano alla causa palestinese, violentemente arrestato anche un membro di Samidoun con una bandiera della Palestina disegnata sulla maglietta per essersi rifiutato di dare agli agenti le proprie generalità. In un ginnasio di Neukölln un alunno entra nel cortile tenendo in mano una bandiera palestinese: un insegnante lo schiaffeggia, il preside lo sospende.
Per la mattina di mercoledì 11 alcuni alunni organizzano un sit-in in solidarietà con il compagno di scuola. 150 poliziotti presenti vietano la protesta, scattano fermi e identificazioni per chi si oppone. Un’altra manifestazione organizzata per il pomeriggio a Neukölln viene annullata, così altre per lo stesso giorno e in quelli successivi. Tramite un semplice tweet la Berliner Polizei motiva la decisione con un generico “pericolo per l’ordine e la sicurezza”.
I bombardamenti a tappeto su Gaza vanno avanti e per le strade della capitale tedesca, dove vive la diaspora palestinese più grande in Europa, non è ammesso protestare contro Israele. La sera, al centro di Hermannplatz, la piazza principale di Neukölln, un gruppetto di poliziotti con secchio e vernice bianca si mette a cancellare un grande “Handala” disegnato sul basamento di una statua. Immagine perfetta, a simboleggiare la volontà di eliminare meticolosamente dalle strade qualsiasi rimando all’identità di una comunità.
Giovedì 12 arriva una circolare del Senato di Berlino, un gran passo in avanti nel razzismo e nella criminalizzazione anti-palestinese: in tutte le scuole della città sono vietate non solo espressioni o modo di agire che «possano essere interpretati come di supporto o approvazione dell’attacco a Israele», ma anche «simboli, gesti, manifestazioni di opinione» tra cui «l’indossare capi d’abbigliamento che possano esservi messi in relazione come ad esempio la kefya, il mostrare adesivi con scritte come Free Palestine o una mappa di Israele nei colori della bandiera palestinese, slogan come free palestine e sostegno verbale al terrorismo di Hamas». Tutto ciò, si legge, potrebbe danneggiare la quiete scolastica e il corso ordinato delle lezioni. Quella stessa mattina si riunisce anche il Bundestag per un discorso ufficiale del cancelliere Olaf Scholz, all’ordine del giorno c’è la situazione in Israele, ma preme parlare anche di ciò che è successo sabato nelle strade del quartiere arabo di Berlino.
La Germania non può permettersi un movimento anti-sionista in casa, deve mostrarsi all’altezza dell’alleato Netanyahu: è il primo partner europeo commerciale dello stato ebraico e il secondo a livello mondiale e da poche settimane ha concluso con il governo a guida Likud un gigantesco accordo militare da 3,5 miliardi di dollari per l’acquisto del sistema israeliano anti-missile Arrow-3.
La seduta del parlamento si apre difatti con un lungo applauso per l’ospite seduto nella tribuna d’onore, l’ambasciatore israeliano a Berlino Ron Prosor. Scholz gli dichiara appoggio incondizionato – «Israele è la ragione di Stato della Germania» – e annuncia che il governo metterà al bando le attività di Hamas (Betätigunsverbot) ed emetterà un divieto di associazione per Samidoun (Vereinsverbot), «i cui membri», spiega, «festeggiano per strada i più brutali atti di terrorismo».
Nel dibattito che segue, tra citazioni di Ben Gurion («il destino di Israele dipende dalla sua forza e dalla sua giustizia», CDU), rimandi all’Olocausto e alla narrazione sionista sulla fondazione di Israele («Creato per offrire agli ebrei rifugio dall’annientamento», Verdi), retorica da scontro di civiltà («Difendendo Israele difendiamo anche il nostro modo di vivere e pensare contro l’islam politico», AfD), razzismo anti-arabo («Chi arriva qui in Germania per fomentare l’odio contro gli ebrei non è benvenuto», FDP), reticenze sul ruolo di Israele («Quello che è successo è solo responsabilità di Hamas, senza se e senza ma», Die Linke), i rappresentanti di tutto lo spettro politico tedesco confermano il proprio sostegno alla linea governativa e, di conseguenza, alla mattanza che si sta compiendo di Gaza. A metà seduta sembra alzarsi, isolata, una voce fuori dal coro: «È giusto nominare qui chiaramente anche la responsabilità di Israele», dice un deputato della SPD. Ma era solo un lapsus e si corregge subito – voleva dire dell’Iran.
Quello del Vereinsverbot è uno degli strumenti privilegiati dal Ministero dell’interno nella lotta al cosiddetto estremismo di qualsiasi orientamento politico. Al contrario del Betätigunsverbot, emesso contro organizzazioni formalmente non presenti sul suolo tedesco (è il caso di Hamas oggi, o del Partito dei Lavoratori del Kurdistan PKK nel 1993), con il Vereinsverbot si sopprimono organizzazioni attive all’interno della Germania. Contro la sinistra radicale è stato usato una volta nel 2017, sull’onda lunga della repressione del G20 di Amburgo e ha portato alla chiusura della piattaforma online linksunten.indymedia, e ancora nel 2019 contro la casa editrice vicina al movimento curdo con sede in Nordrhein-Westfalen “Mesopotamia”. È una macchina repressiva abbastanza complessa: dietro c’è la coordinazione del Bundeskriminalamt (la polizia federale) e del Verfassungsschutz (i servizi di intelligence interna), che stilano rapporti e li fanno arrivare sulla scrivania del Ministro degli Interni, che a sua volta deve valutare e approvare. L’annuncio di Scholz mostra quindi la velocità con cui gli apparati tedeschi hanno saputo verticalizzare la lotta contro il movimento palestinese, spostandola in pochi giorni dalle botte degli agenti in strada ai piani alti delle decisioni ministeriali.
Un’accelerazione in cui anche i media hanno giocato e continuano a giocare un ruolo fondamentale. A dimostrarlo, venerdì 13 la faccia di Zaid Abdulnasser, il coordinatore della sezione tedesca di Samidoun, finisce sulla prima pagina del giornale locale “BZ”, che titola: Sostenitori del terrorismo a Neukölln – Questo è il capo di chi odia gli ebrei. Notizia ripresa anche dalla “Bild Zeitung”, il giornale più letto in Germania e, come la “BZ”, parte del gruppo editoriale Springer, dal dopoguerra ad oggi in prima fila nelle campagne diffamatorie contro qualsiasi forza progressista si muova nella Repubblica Federale.
!Non ci aspettavamo che questo colpo arrivasse così presto», ammette Zaid. «Ma l’attacco in Germania non è unico, la repressione colpisce anche in Francia, Spagna, Svezia, Olanda, Belgio, America, Canada. Tutti i paesi in cui siamo attivi», Lo scorso anno il presidente francese Emmanuel Macron aveva chiesto lo scioglimento di un gruppo palestinese parte della Rete, si è finiti in tribunale e per ora la decisione è sospesa. Anche Samidoun in Germania farà ricorso, ma dato il contesto tedesco è difficile che un giudice gli dia ragione. Quello che differenzia la Germania, dice Zaid, è la sistematicità dello stato tedesco nel perseguire la comunità palestinese con tutti i suoi organi: da una parte le attività di polizia, Verfassungsschutz e Bundeskriminalamt, dall’altra quelle nell’ombra del ministero dell’Immigrazione (BAMF) e dell’ufficio stranieri.
Perché ai palestinesi che arrivano in Germania per richiedere asilo, dai campi profughi sparsi in altri paesi ma anche dai Territori stessi, gli uffici immigrazione tedeschi rilasciano un documento in cui alla voce nazionalità scrivono «non chiarita». Un modo per fargli capire sin da subito come si pretende vivano in Germania: da invisibili.
La maggior parte si becca una Duldung, dovrebbero cioè essere espulsi ma non avendo la Palestina uno stato vengono “tollerati”. Incertezza e ricatto che possono durare anche dieci anni, con pochissimi diritti, altrettanto pochi sussidi, la necessità di accettare qualsiasi lavoro per sopravvivere, il divieto di lasciare la Germania. A Zaid, che a Berlino è arrivato da rifugiato nel 2015 dalla Siria, la domanda di asilo è invece stata accettata senza problemi. «I palestinesi siriani ottengono lo status di rifugiati perché provengono dalla Siria, non perché palestinesi», spiega. A luglio di quest’anno ha però ricevuto una lettera del BAMF, correlata da un rapporto del Verfassungschutz, in cui il ministero gli comunicava la revoca del suo status di rifugiato a causa del suo impegno in Samidoun.
Anche a un altro membro di Samidoun che aveva fatto richiesta di cittadinanza tedesca, racconta, è arrivata una lettera con allegata una relazione dei servizi su di lui e un questionario. Gli si comunicava che l’unico modo di prendere in considerazione la sua richiesta era rispondere alle domande che vi erano contenute: cosa pensi di Israele, della resistenza, della normalizzazione tra Israele e Paesi arabi e così via.
«Per essere cittadino tedesco devi esprimere supporto a uno stato straniero», commenta Zaid. «Anche se sei stato colonizzato da quello stato, anche se il tuo essere rifugiato in Germania e prima ancora altrove dipende dall’occupazione». Sulla base della legge sul permesso di soggiorno, a un altro ragazzo palestinese della Rete è stato notificato il divieto di esercitare attività politica fino alla fine di ottobre. Casi simili ce ne sono moltissimi, ma le persone vivono una situazione talmente precaria che hanno paura di parlare. Per rendere pubblico il caso di Zaid e smascherare questa pratica dello stato tedesco Samidoun ha lanciato a metà settembre la campagna internazionale “We stand with Zaid”, con centinaia di adesioni.
Domenica 15. Dopo una settimana finalmente l’unico presidio autorizzato a Potsdamer Platz. La polizia dice che è stato registrato un sit-in di 50 persone, ma la piazza si riempie velocemente, ne arrivano migliaia. Gli agenti revocano il permesso di manifestare, attaccano brutalmente con calci e pugni, il bilancio è di 150 fermi e 80 denunce. In un video della giornata pubblicato da Samidoun si vede un gruppo di poliziotti gettati su un uomo, lo pestano. Sotto la scritta: «L’occupazione sionista non è solo in Israele, è anche in Germania».
Immagine di copertina e nell’articolo a cura di Magda, mobilitazione per la Palestina a Berlino, luglio 2022