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Lo strano caso del debito italiano

Una recensione del libro di Marco Bertorello e Danilo Corradi, che attraverso una dettagliata ricostruzione storica prova a smentire i principali luoghi comuni sul tema e ad aprire una riflessione sul ruolo del debito e lo stato del capitalismo contemporaneo a livello globale

Abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi. Quante volte abbiamo sentito queste parole in rapporto allo stato dei conti pubblici del nostro paese? Nella vulgata al bar o tra le righe del noto editorialista mainstream di turno, il senso comune largamente diffuso è che l’anomalia del debito pubblico italiano, la sua immensa mole, sia dovuta a una spesa sociale andata fuori controllo negli anni Ottanta del secolo scorso, all’eccesso di garanzie offerte ai lavoratori e divenute privilegio, alla corruzione e al malaffare della politica italiana durante la Prima Repubblica.

D’altronde il termine debito deriva dal latino debere e indicando “ciò che è dovuto” allude quasi immediatamente a un senso di colpa generato da un adempimento in sospeso, a cui non si è in grado di assolvere al tempo presente. Stabilire chi debba sentirsi in colpa e perché risulta fondamentale alla gestione politica del tema, non solo nella ricostruzione di quanto avvenuto ma anche e soprattutto per definire chi è tenuto a pagarlo.

In un contesto come quello dell’Unione Europea che ha fatto del rapporto debito/PIL un pilastro dei suoi criteri di convergenza, 50.000 euro di debito pro capite e una massa complessiva di oltre 2.800 miliardi hanno imposto e impongono all’Italia dure scelte di bilancio che spesso sono andate a gravare sui settori economicamente più deboli della società, tra tagli alla spesa sociale, aumenti dell’età pensionabile e privatizzazioni. Spiegare una massa di debiti pari oggi a circa il 145% del PIL con gli interessi dovuti per una spesa pubblica eccessiva, una distribuzione di ricchezza non prodotta ma presa in prestito, in alcuni casi attraverso logiche clientelari e corrotte, ha aiutato certamente a introiettare il senso di colpa e ritenere giustificati quegli interventi volti a togliere oggi quel che si era indebitamente preso ieri.

Lo strano caso del debito italiano (Alegre 2023) di Marco Bertorello e Danilo Corradi, già autori di Capitalismo tossico (Alegre 2011) e della rubrica “Nuova finanza pubblica” sul ”Manifesto”, prova a raccontare un’altra storia in merito alla formazione e allo sviluppo del nostro debito nazionale, con una meticolosa ricostruzione storica a partire dall’Unità d’Italia.

Una ricostruzione ricca di dati e riferimenti autorevoli che attraversando la storia del paese ne ripercorre le scelte politiche ed economico-finanziarie, quelle compiute e quelle subite, quelle pianificate (poche) e quelle adottate pragmaticamente per rispondere alla congiuntura (molte).

Il quadro che ne emerge è quello di un paese in costante ritardo rispetto ai paesi confinanti a cui faceva riferimento, portato a utilizzare la leva del debito per non perdere troppo terreno e restare al passo, prima nella costruzione dello Stato unitario, poi per finanziare due guerre mondiali (che comportarono un aumento generalizzato dei debiti pubblici), infine per mantenere livelli adeguati di crescita nella seconda metà del secolo scorso, scaricando le tensioni sociali sui conti pubblici. Molto calzante appare la metafora del ciclista usata dagli autori: una rincorsa in cui i migliori non risultano mai raggiungibili ma nemmeno così lontani da rassegnarsi, in cui la maggiore fatica rende necessario – prima degli altri, lo vedremo in seguito – il doping.

La prima parte del testo, che ripercorre la storia dall’Unità fino al secondo dopoguerra, mostra un paese deciso ad assurgere a stato di rango europeo e a costruirsi una propria credibilità di pari livello, letteralmente a tutti i costi. A tal fine l’Italia accumula debito, sia per dotarsi delle infrastrutture adeguate a colmare il ritardo dovuto al treno perso della seconda rivoluzione industriale, sia per far fronte a ripetuti sforzi bellici, talvolta dovuti a scelte sconsiderate come nel caso della politica coloniale o delle avventure militari fasciste. Una trappola del debito che per ben tre volte attanagliò il paese e da cui si uscì in modi diversi: grazie alla crescita economica e a un ciclo internazionale favorevole a inizio ‘900, alla ristrutturazione del debito nei primi anni del fascismo e con una forte impennata inflattiva nel secondo dopoguerra. I primi cento anni del debito italiano raccontano una nazione arretrata che provò a essere all’altezza delle potenze europee senza avere le risorse per farlo. La seconda parte si concentra invece sul periodo che va dalla fine del boom economico agli anni Ottanta. Ossia il periodo storico in cui il debito italiano è esploso in forme senza paragoni, raggiungendo vette mai viste in tempo di pace.

Ed è qui che gli autori offrono una interessante lettura alternativa rispetto al discorso comune: a produrre l’esplosione non fu una spesa sociale fuori controllo, essendo questa pienamente in linea con gli altri paesi europei, ma la presa in carico da parte dei conti pubblici della competitività economica che il capitale privato italiano non riusciva a sostenere una volta esaurita la spinta del boom.

Così si spiega il gettito inferiore e una pressione fiscale più bassa di circa 10 punti rispetto a Francia e Germania, la leva pensionistica usata come ammortizzatore sociale nelle crisi industriali, sussidi alle imprese un terzo più elevati che nel resto d’Europa, l’acquisizione delle parti decotte del settore privato e del loro indebitamento. Il debito pubblico venne usato in quegli anni come strumento di pace sociale, volto ad assorbire i costi della ristrutturazione capitalista a cui la PMI italiana non riusciva a far fronte in parte trasformando il capitale di rischio in capitale assistito, in parte evitando che questo comportasse un sostanzioso aumento del debito privato, che negli stessi anni si registrava in altri paesi. Se altrove si indebitavano famiglie e imprese in un processo di progressiva finanziarizzazione dell’economia, in Italia si indebitava lo Stato.

Ed è questo confronto che ci porta alla terza parte del libro e a quella che forse è la sua tesi più interessante, che a partire dal debito apre anche una riflessione più generale sul capitalismo contemporaneo e a cui rimanda il sottotitolo, Storia di un’anomalia divenuta globale. Infatti, la crisi economica del 2007-2009, quella successiva dei debiti sovrani e infine la sindemia da Covid-19 hanno prodotto una convergenza nelle politiche di indebitamento degli stati che ha reso la situazione italiana decisamente meno anomala rispetto a quanto si potesse ritenere in passato. La crisi del credito ha reso necessaria da parte delle banche centrali la creazione di una massa monetaria di portata tale da polverizzare qualsiasi principio liberista. Quelle che erano considerate politiche monetarie atipiche sono ormai divenute sempre più tipiche. Mark Carney, all’epoca governatore della banca centrale canadese, nel ricordare le prime febbrili riunioni allo scoppiare della bolla nel testo Il valore e i valori (Mondadori 2021, pp. 208) ironizza su come vennero trattati gli integralisti del laissez-faire nel momento in cui i loro principi venivano palesemente traditi: «Ai pochi “fondamentalisti dell’azzardo morale” rimasti fu detto chiaro e tondo che avrebbero avuto la loro occasione una volta riformato il sistema per consentire a una grande banca di fallire senza far crollare l’intera economia».

I debiti pubblici si trovarono così a sorreggere un sistema economico altamente instabile, il cui modello di crescita era giunto al capolinea e che necessitava a quel punto di fare ciò che l’Italia aveva già fatto con largo anticipo in un lasso di tempo più diluito, non attraverso una strategia consapevole ma una sequenza di scelte pragmatiche: socializzare il debito privato e contenere in questo modo le contraddizioni dell’accumulazione. Contraddizioni che ancora oggi non risultano in alcun modo risolte e che hanno portato a quella che gli autori chiamano deglobalizzazione selettiva, con un accorciamento delle catene del valore a macchia di leopardo e sulla base dei recenti sviluppi geopolitici, in particolare a seguito della guerra in Ucraina.

Nonostante l’argomento ostico per chi non ha dimestichezza col tema, il taglio divulgativo di Bertorello e Corradi rende il testo comprensibile e scorrevole anche per i non addetti ai lavori.  Ciò gli consente di perseguire due obiettivi: fare chiarezza su un tema di solito conosciuto solo attraverso luoghi comuni e aprire interrogativi di carattere politico generale di estrema attualità.

Proprio per quanto qui brevemente accennato – e ampiamente trattato nel testo – il tema del debito pubblico riveste un ruolo di primaria importanza per gli indirizzi di governo, ma tale ruolo non risulta chiaro alla stragrande maggioranza delle persone, finendo per divenire giustificazione per scelte che ci sembrano ineluttabili piuttosto che indice di specifiche direzioni politiche guidate da altrettanto specifiche volontà.

Ciò lo sottrae generalmente all’arena della discussione politica a favore del dato puramente tecnico. Questo testo aiuta a vederlo sotto una luce diversa, a restituirlo a quella sfera politica a cui in realtà appartiene.

In secondo luogo il testo apre, senza la pretesa di avere risposte compiute in merito, alcuni importanti interrogativi sul presente e sul futuro del capitalismo contemporaneo, della globalizzazione e degli equilibri su cui questa finora si è fondata. Interrogativi che mostrano piuttosto chiaramente la precarietà su cui poggia il nostro mondo, l’incapacità di risolvere le proprie contraddizioni di fondo e la drammatica assenza di un’alternativa politica, che finisce per favorire quei progetti che attraverso populismo e torsioni nazionalistiche promettono di restituire le sicurezze perdute da un punto di vista sociale ed economico.

Perché in un capitalismo che, come sostiene Lapavitsas (Verso 2013), ha la necessità di anticipare costantemente il ciclo di riproduzione del capitale, di spingersi nel futuro per potersi realizzare nel presente, il debito non è semplicemente un importante carattere accessorio, ma diventa un fondamentale elemento costitutivo senza cui il sistema è destinato al collasso immediato e quindi di cui solo gli Stati possono farsi carico in ultima istanza.

Immagine di copertina tratta dalla copertina del libro “Lo strano caso del debito italiano” di Marco Bertorello e Danilo Corradi, edito da Edizioni Alegre, 2023