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CULT
Lo sporco sotto le unghie nel teatro dell’adesso di Foucault e Deleuze
“Arianna si è impiccata” e “Theatrum philosophicum” sono due testi che Michel Foucault dedica a Gilles Deleuze nel 1969-1970 all’indomani dell’uscita di “Logica del senso” e “Differenza e ripetizione” e ora raccolti da Mimesis in un volume curato da Filippo Domenicali. Due testi dove si celebra la filosofia di Deleuze come un teatro fatto di maschere e simulacri, di doppi incerti e di soggetti in metamorfosi, e dove “rovesciare il platonismo” vuol dire far emergere un’altra metafisica: una metafisica dell’evento incorporeo e del fantasma
«Vorrei tentare, l’una dopo l’altra, diverse vie d’accesso al cuore di questa temibile opera» (p. 11), scrive Foucault di Differenza e ripetizione e Logica del senso, i due testi deleuziani di cui l’autore racconta, e celebra, la pressoché parallela pubblicazione fra il 1969 e il 1970. Tentativo d’accesso e di scasso quanto più complesso, se l’opera – letterale corpo senza organi, figura diffusa che proprio Logica del senso introduceva – non ha «nessun cuore, ma un problema, cioè una distribuzione di punti notevoli; nessun centro, ma sempre dei decentramenti, delle serie con, dall’una all’altra, la claudicazione di una presenza e di un’assenza» (pp. 11-12). Vorrei tentare un accesso, fuor di metafora (perché «anche la metafora non vale nulla, mi dice Deleuze», p. 11), al cuore di un’opera che però non presenta un vero e proprio cuore – né un centro né un cardine – bensì solo punti di fuga. Ne seguo dunque le pieghe e, nel seguirle, mi torciglio, come Arianna che, per Foucault, sola può raccontare il libro di Deleuze: stanca d’aspettare che Teseo risolva il labirinto e sciolga il bandolo, la matassa del filo s’avvolge piuttosto attorno al suo collo e assieme s’impicca e lo spezza.
«Vorrei che apriste il libro di Deleuze come si aprono le porte di un teatro, quando si accendono le luci della ribalta e si leva il sipario», p. 75), è l’invito replicato appunto in Arianna si è impiccata, che assieme a Theatrum philosophicum Filippo Domenicali ha tradotto e curato con grande perizia per i tipi di Mimesis. Testi di Delueze che sono scena del teatro e insieme corpo «non morto», «ma tanto vivente, tanto formicolante da aver fatto saltare l’organismo e la sua organizzazione», come si scriverà poi in Millepiani. Due, se mai enumerabili, differenti figure di mimesi (differenze e ripetizioni), che, col lessico platonico, chiameremmo non tanto icastiche (riproduzione di eikones, immagini che, fedeli, riproducono l’originale nella sua purità) quanto piuttosto fantastiche: elaborazione di phantasmata, di simulacri, figure con grande parte d’inganno – la filosofia non comincia del resto «da quel finale del Sofista in cui non si riesce più a distinguere Socrate dall’astuto imitatore» (p. 12)? Lì dove la dialettica platonica era esercizio di discernimento, individuazione e setacciamento e, infine, ascesa di corno in corno dell’alternativa, dal più falso – copia spicciola – all’unica Verità (ascesi dal materico all’intellegibile, dalla sordida mota all’immateriale Sole), l’opera di Deleuze (senza cuore! né riguardo) recide il filo: Arianna, stanca di attendere Teseo al centro del labirinto, ha usato il gomitolo altrimenti.
Il mimetismo è un pessimo concetto, come si scriverà ancora in Millepiani, che lo si percorra per il diritto o per il rovescio – che sia un riconoscere il mondo terreno e terraceo come simulacro, imperfetta partecipazione d’un più alto e iperico progetto, che sia un «rovesciare il platonismo» (p. 12), capovolgendolo nella propria filosofia: senso contrario per leggere un’identica figura. La saggezza che proviene da Deleuze è allora una riproduzione estrema, portata alla rottura, portata all’irruzione: quel che ogni nuovo testo fa è prolungare, allungare, l’immagine del mondo in esso trasposto, per divenire-mondo esso stesso – gioco che Deleuze definisce non già imitazione, concetto che ancora troppo corre sul doppio binario (troppo binario) di soggetto e oggetto, vero e falso, ma «evoluzione aparallela». Non è dunque, di per sé, nemmeno metaforica né allegorica, la scrittura di Deleuze: non vi si può marcare in anticipo un centro, un nucleo, e l’immagine in cui esso verrebbe secondariamente tradotto o traslato: rappresentato, sulla scena, o nel pascaliano come se. Abolizione di ogni metafora: tutto quel che appare è reale, e tutto quel che appare può anche essere, rettamente, falsificato e tradito. Non esiste riconversione all’origine, svelamento del trucco, sulla scena, né del significato perduto o forcluso (esiste perciò la parabola, in cui la parola s’inscrive e che la parola traccia, ma non il suo fuoco). Né ancora differenza tra artificiale e naturale, forma e contenuto o forma e materia, vita e messinscena – differenza di grado, differenza d’ordine o, più semplicemente ancora, ordine. La parola di Deleuze continuamente, solamente, ri/vela: si arrischia verso nuovi sensi, tesa sempre al di là di se stessa, senza moto centripeto a riportarla al punto (e quindi, altro invito: «abbandonate il circolo, il cattivo principio di ritorno, abbandonate l’organizzazione sferica del tutto: tutto ritorna sulla retta, la linea retta e labirintica», p. 12).
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Quello di Deleuze, e quello di Foucault su Deleuze, è un discorso nella sua più letterale radicalità (sistema-radicella o radice-fascicolata, innesto di ogni rizoma), se il dis-currere è (originariamente? para-etimologia?) un correre disordinato, che non trova riposo ma piuttosto sbando e dispersione. Quale era il gesto stupido, bestiale, di Bouvard e Pécuchet, che nel Calvados si davano al giardinaggio per averne, di ritorno, zucche e ortaggi mostruosi, e poi allo spiritismo per non riuscire, invece, a cavarne alcun prodigio né genio – lanciando continuamente il cuore (perdendo continuamente il cuore! Sarà per questo che l’opera non l’ha) al di là dell’ostacolo. Bisogna che la pagina si riempia, e proprio «allora viene in momento di girovagare [errer]. Ma non come Edipo, povero re senza scettro, cieco interiormente illuminato; ma di girovagare nella festa oscura dell’anarchia incoronata» (p. 79). Bisogna che la pagina si riempia, che si riempia la scena di questo theatrum: che collassi il magnificente spazio scenico del Gran Teatro del Mondo – si vedevano ancora le due porte ai lati del proscenio a marcare la Vita e la Morte, a indirizzare uno scorrimento e suggerire una percorrenza, discorso dell’origine e discorso della fine – e, oltre ancora, il beckettiano interstizio di Aspettando Godot, nervosamente, diffusamente calpestato, a cui apparteneva, quale ultimo residuo, la svettante verticalità dell’albero (con Deleuze: struttura articolatoria, asse gerarchizzante).
Tutt’altro è il rizoma. Girovagare, senza capo né coda: tanto che, prendendo in parola l’autore, non si potrà mai dire di aver infine accoppato l’ingombrante padre. «Rovesciare il platonismo: qual è la filosofia che non ha cercato di farlo?» (p. 12). Eppure come realizzare il rovesciamento, inverarlo, laddove non vi è vero e non vi è centro e non vi è, ancora, nemmeno, cuore, capo e coda, alto e basso? «Diciamo piuttosto che la filosofia di un discorso è il suo differenziale platonico. Un elemento assente in Platone, ma presente in esso? Non ci siamo ancora: un elemento il cui effetto d’assenza è indotto nella serie platonica dall’esistenza di questa nuova serie divergente (e che svolge allora, nel discorso platonico, il ruolo di significante in eccesso che non si trova al suo posto) […]. Platone, padre eccessivo e mancante. Tu quindi non cercherai di specificare una filosofia dal carattere del suo antiplatonismo […], ma distinguerai una filosofia un po’ come si distingue un fantasma, dall’effetto di assenza» (p. 13). Quello di Deleuze non è un platonismo rovesciato quanto invece un platonismo catacretico: raddoppiamento scenico del mondo platonico, eliminatane forse la sorgività, che sempre era (così in cielo, così in terra) generatività paterna e paternalistica del Bene – raddoppiamento della sfera cui è stato sottratto il centro e che, pertanto, orbita arbitrariamente, pure errando, in assenza del proprio riferimento e referente. O, si dirà, quello di Deleuze è un platonismo apparente o un’apparenza di platonismo, un platonismo recitato. «C’è stata (Hegel, Sartre) la filosofia-romanzo; c’è stata la filosofia-meditazione (Descartes, Heidegger). Adesso, dopo Zarathustra, c’è il ritorno della filosofia-teatro: non una riflessione sul teatro; non un teatro carico di significati. Ma la filosofia divenuta scena, personaggi, segni, ripetizioni di un unico evento che non si ripete mai» (p. 75).
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Ne L’Idea del Teathro, il cabalista Giulio Camillo Delminio contrapponeva il theatrum, come gesto dello stare a vedere, al leggere, violento impadronimento di concetti, concatenamento e incatenamento logico. Esiste, si dice, una comprensione del mondo – o del testo che si fa mondo o del testo che si fa teatro filosofico – che è semplicemente un vedere per immagini e figure: previo incantamento, mettersi certamente «sulle tracce dell’autentico», senza però «suddividere, setacciare e seguire il filone buono». «Come distinguere fra i tanti falsi (simulatori, millantatori) e il vero (il puro, l’incontaminato)? Non inventando una legge del vero e del falso», perché «la verità non si oppone all’errore, ma alla falsa apparenza» (pp. 14-15). «Apriamo», allora, «a tutti quei furbi che simulano e schiamazzano alla porta» (p. 16), scrive Foucault, nel momento in cui la sovversione del platonismo significa anzitutto maggiore pietà per il reale, il suo spazio e il suo tempo, per quel brano di fango e quel poco di sporco sotto le unghie, per il minuscolo lombrico che, dal suo fondo, il Sole non vede, così chino com’è nella terra. Che i millantatori, quali i pretendenti scacciati da Ulisse, possano essere realmente ciò che dicono di essere non ci è probabilmente dato sapere. Non li si distribuirà, comunque, in gradazioni e assegnazioni di merito, né a partire dalla loro attitudine alla recitazione né per loro veracità e nemmeno «secondo il censo» (p. 17). Accade, infatti, che l’imitazione non sia partecipazione a una verità, disposizione assiologica ma, come in Kafka e nel suo Pietro il Rosso, una via di scampo, senz’altra ragione. E Deleuze, o il Deleuze di Foucault, pare propriamente questa via di fuga: dall’esaustività, come vuole anche Domenicali nella sua Postfazione, dalla lettura globale e inglobante, alla quale viene preferita piuttosto l’arbitrarietà – il percorso che Foucault traccia entro il pensiero dell’amico è solo uno dei possibili: il migliore? Il più vero? Il più fedele all’originale? Il più appropriato? – O una sua simulazione, ripetizione di un evento che, a ben vedere, non è invece accaduto né si è dato quel modo? Quindi: «non chiedersi: differenza tra cosa e cosa e cosa? […] Né chiedersi più: ripetizione di cosa, di quale evento, o di quale modello primitivo? Ma pensare la somiglianza, l’analogia o l’identità come altrettanti mezzi per ricoprire la differenza» (p. 79). Il Deleuze di Foucault ha liberato, si diceva, la parabola dal proprio fuoco, il segno dal proprio referente: apparato radicale e similitudine viva, il pensiero s’espande lungo gli angoli della terra senza bisogno di soggetto che lo incarni e lo pronunci, senza bisogno, a differenza ancora dell’allegoria e del simbolo, di qualcuno che l’interpreti e ne svolga le fila; eppure rimane vivido l’invito alla verificazione, la provocazione a spiegazione e dispiegamento, cui è però impossibile corrispondere – non chiedersi la differenza tra cosa e cosa, si diceva, non chiedersi la differenza tra alto e basso e l’altezza a cui situarsi: la scena del theatrum, a ben vedere, la si può stare a guardare dai palchi come dalla platea, come ancora da dietro le quinte. Il modo in cui si può rispondere, forse, è lasciarsi prendere nel gioco come Spiel, imitazione e recita. Daniel Defert, ricordato nella postfazione, ben nota «lo stile quasi mimetico» di Foucault nei due saggi dedicati all’amico. «Il libro di Deleuze è il teatro meraviglioso in cui si giocano, sempre nuove, tutte quelle differenze che siamo, che facciamo, e fra cui girovaghiamo […]. Teatro dell’adesso» (p. 82).