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Lo spazio del contemporaneo. La strada fantasma di Aleksandr Snegirëv
L’assenza di direzione come strategia paradossale da adottare in un presente cosparso di rovine. È l’insolita lezione che emerge dal romanzo dello scrittore russo nato nel 1980, da poco tradotto in italian
Per ragioni evolutive, dovute con ogni probabilità alla lunga fase di precarietà esistenziale conosciuta in epoca preistorica, gli esseri umani provano un piacere, per lo più inconfessato, nel perdersi, nello spazio o nel tempo. Siamo, in altre parole, animali attrattati magneticamente dalle emergenze d’ogni genere, in cui riveliamo spesso le nostre più tipiche attitudini comportamentali.
Si pensi per esempio al gioco con cui i bambini nascondono se stessi, nei posti più impensati, portando così i propri genitori all’esasperazione. O al gusto con cui gli amanti appassionati si confondono l’un l’altro, talvolta, per rinfocolare i loro sentimenti. Sono tutti casi in cui il soggetto trae godimento dal mollare gli ormeggi, dal rendersi irreperibile, dal cancellarsi, quasi, dall’archivio del mondo, rimanendo tuttavia presente a se stesso, come ultimo testimone della propria prossima sparizione.
Un simile piacere, a cui si può far corrispondere il carattere in parte aleatorio delle grandi scoperte scientifiche, ha raggiunto tuttavia un punto di non ritorno quando, con l’avvento e la diffusione delle reti telematiche, si è trasformato in un fatto eminentemente triviale. Ci siamo mutati tutti in contemplatori indefessi della nostra stessa ignoranza, senza che a questa situazione facesse seguito la possibilità di trovare un qualche rimedio davvero efficace. Nessuno è più nella condizione di dirsi davvero maestro di alcunché, visto che niente resiste alla lunga alla sua disseminazione digitale. Nessuno può dirsi più un autore, ma solo un pallido imitatore di chi è venuto già sempre prima di noi, in un cortocircuito che sembra far scivolare nel passato anche l’inedito. L’eccezione, insomma, è divenuta la regola e l’aspetto straordinario dell’incontro ha ceduto il passo alla routine dell’imprevisto inevitabilmente programmatico.
In questo quadro, per taluni versi disperante, l’operazione tentata da Aleksandr Snegirëv, con il suo La strada fantasma (Gattomerlino 2022, pp. 302, € 16), acquista allora un rilievo non solo letterario, ma anche, è il caso di dirlo, squisitamente epistemologico. Come fa notare l’ottimo traduttore italiano, Raffaele Marchi, nella sua postfazione, Snegirëv ci mette al cospetto infatti di «un’esperimento condotto in diretta», un esperimento in cui il lettore è «invitato a presenziare all’atto stesso della scrittura, quindi a quello della selezione, della cancellazione e della riscrittura» (p. 300).
In una sorta di laboratorio a cielo aperto, abbiamo l’occasione, perciò, di scoprire come dietro la perfezione più o meno grande dell’opera si celi sempre l’esitazione indistruttibile dell’autore, la sua incertezza, il suo desiderio più o meno inappagato di verità vera.
Questa possibilità, a lungo ricacciata nel cantiere buio della creazione letteraria, appare insomma qui in primo piano, mettendo a nudo il procedimento, un tempo appannaggio esclusivo dell’artista, che presiede alla nascita di un sensus communis, ovvero di un orizzonte di significati condivisi e partecipabili in cui proiettare la propria azione concreta. La letteratura, sembra dirci infatti a ogni pagina Snegirëv, non è più in grado di assolvere questa funzione. L’esposizione diretta del suo ingranaggio nascosto finisce dunque per incrinarne una volta per tutte il funzionamento retorico immediato, fondato sulla sospensione dell’incredulità, lasciandoci in uno spazio che, come un cumulo di rifiuti, condensa in sé più strati epocali e, persino, più sviluppi storici possibili, in una con-fusione di realtà e immaginazione dove non è più possibile e forse nemmeno auspicabile, distinguere l’inizio dalla fine, l’essenza dall’apparenza, l’errore dal vero.
Primo e unico libro tradotto per ora in italiano di un autore nato a Mosca nel 1980 e approdato alla scrittura letteraria dopo aver praticato i più disparati mestieri (venditore di piumini al mercato, addetto alle pulizie, cameriere e operaio in un cantiere), La strada fantasma si segnala allora, innanzitutto, per il suo stile scanzonato, ma che non deve nascondere l’intento meta-poietico che anima le sue pagine, volte a un’indagine ravvicinata del procedimento della narrazione, in un’epoca in cui le parole non sembrano più avere il potere di ghermire la sostanza del reale.
Come sa infatti benissimo chi è nato a partire dal penultimo decennio dello scorso secolo, il mondo, da allora, si è convertito sempre di più in un paesaggio di rovine, in cui le azioni collettive non sembrano fare più presa sulle cose e le cose non lasciarsi più agguantare dalle imprese comuni. Gli anni ’80, con il loro portato politico-economico reazionario, con il loro stile di vita pop globale, con la loro magnificazione ipocrita dell’individuo, sono insomma la nascita di uno spazio in cui il senso, una volta rintracciabile fuori e dentro di noi, si coglie ormai soltanto nella forma di una possibilità residuale, che cola a brandelli da una realtà per il resto priva di ogni appiglio simbolico.
Questo spazio, sempre presente qui e ora, incastonato tra lo spazio fisico in cui si muovono i nostri corpi e lo spazio mentale in cui viaggiano i nostri pensieri, è infatti uno spazio ambivalente, tanto interno che esterno, tanto poroso quanto solido – tanto concreto, infine, quanto profondamente fantastico.
Uno spazio in cui la convinzione dell’impossibilità di un cambiamento socio-politico radicale ha sbriciolato, letteralmente, il vettore che prima animava l’agire delle persone, proiettandone i frammenti in un firmamento senza più coordinate temporali. È qui, allora, che perdersi intenzionalmente diventa non più una tra le tante scelte disponibili ma la sola strategia paradossale capace di rendere ancora abitabile il presente.
Snegirëv sembra confermare perciò l’ipotesi che, a partire da quel decennio, il presente si sia come ripiegato in stesso, dando la stura a un florilegio di figure in cui lo spazio prende risolutamente il posto del tempo, scardinando così la postura di chi ricerca ancora una verifica sicura al proprio pensiero. Il titolo, La strada fantasma, indica già di per sé un tipico topos ‘ottantone’: la figura di un mondo che, assediato dai simulacri, comincia a funzionare come l’imitazione della propria imitazione, in una sorta di mise en abyme inter-temporaledegna di Ritorno al futuro di Robert Zemeckis. Persino l’incipit, con il suo brusco passaggio dalla terza alla prima persona, segnala allora la necessità di abbandonare ogni postura solamente constativa, quale propedeutica di ogni pragmatica, per installarsi nella zona primordiale in cui il nostro cervello opera incessantemente la discriminazione tra ciò che merita il nome di reale e ciò che invece si limita a essere immaginato. In cui insomma le cose appaiono soprattutto come il frutto casuale delle nostre cieche azioni.
«La causa di tutto è il desiderio di incuriosire, di piacere.
Ecco perché attacca con una scena di tensione.
Per giunta scrive di sé in terza persona
(…)
Non sono durato a lungo. Sono crollato al terzo capoverso.
Non riesco a fingere.
È chiaro che lui sono io» (pp. 7-8).
Come si trattasse, dopo un tentativo abortito di vedersi nell’ottica della verità oggettiva, di accettare senza mezzi termini la parzialità insuperabile della propria prospettiva, il narratore di La strada fantasma scopre fin dall’inizio le sue carte, scardinando così ogni altra pretesa tradizionalmente associata all’atto di scrivere: si tratta ormai soltanto di piacere, e null’altro.
Una volta che non c’è più modo di raccontare una storia comunitaria, finita la pretesa conoscitiva del romanzo modernista e dei tentativi post-moderni di riassortirne le forme specifiche, non rimane infatti che parlare di come fatichiamo a orientarci in ciò che è rimasto del mondo e della società, e, quindi, della necessità di ricominciare ogni volta daccapo che sembra affliggere più di ogni altra cosa l’umanità attuale.
Come dire, appunto, che occorre ormai soltanto sapersi immergere senza remore in uno spazio in cui la spola tra finzione e realtà che normalmente regola l’invenzione letteraria, e che rimane solitamente al di qua della pagina pubblicata, diventa l’elemento in primo piano, l’orizzonte ultimo a cui affidare la propria esistenza, intra ed extra-letteraria. E questo, senza fare altro che tentare di conquistare il massimo share disponibile.
Dove sentire infatti con maggiore intensità questa condizione di derelizione esistenziale se non nel paese che più di tutti, la Russia, ha tentato di praticare un’alternativa all’ordine capitalista?
La vicenda, per quanto erratica, prende allora sin dall’inizio un andamento affilato: fare i conti con un passato che ha ormai soltanto uno statuto fantasmatico, ritornante, virtuosisticamente ossessivo. È così per le truppe napoleoniche, che sono passate nella strada di fronte all’abitazione del protagonista e che, come tutte le Grandi Armate dispiegate dall’Occidente, non incontrano in terra russa «se non loro stessi» (p. 194). È così per il mondo del lavoro, dissolto in un frullato di occupazioni saltuarie e discontinue – come è il caso della Diva, amica della moglie del protagonista che passa il suo tempo a scattarsi selfie da caricare poi sui social network, in attesa spasmodica di acchiappare quanti più like possibile, ma anche dello scrittore che parla di se stesso e del proprio scrivere, incapace di badare a tutto ciò che la vita contemporanea ci impone di sovrintendere, allontanandoci dalle nostre vocazioni naturali.
Due episodi si segnalano perciò come emblematici, a fronte di una serie di quadri che, nella loro vorticosa giustapposizione, delineano comunque la traiettoria imprevedibile di chi ha deciso per partito preso di non avere più uno vero e proprio. Il primo, che dà il titolo al libro, concerne banalmente l’attesa di un autobus sulla strada suddetta, attesa in cui si constata l’incongruenza in fin dei conti irriducibile tra le indicazioni dei sistemi digitali e la pregnanza effettiva della nostra vita quotidiana. Il protagonista, dopo aver tentato a lungo di badare alla gestione della propria abitazione, dopo aver quasi ucciso un uomo e schivato il più possibile tutte le incombenze che potevano distoglierlo dalla scrittura, si ritrova infatti ad attendere un autobus che esiste ormai soltanto in effigie.
«Ho respirato a larghi polmoni, e la fantasia si è sbrigliata.
Ho dato un’occhiata all’applicazione. L’icona del mezzo di trasporto si avvicina alla curva.
Ho allungato il collo, non volendo perdermi l’incontro del virtuale con il reale.
Ora l’autobus convenzionale sulla mappa elettronica si scambierà con l’autobus palpabile proprio davanti ai miei occhi.
Dalla curva sbucavano solo delle automobili nuove, e in mezzo a quelle nessun autobus.
(…)
Da un punto di vista filosofico, una situazione piuttosto curiosa.
(…)
ufficialmente l’autobus è passato, ma di fatto – neanche l’ombra» (pp. 194-195».
C’è un momento, allora, in cui il protagonista stesso finisce per perdersi all’interno della propria casa, sentita ormai come un microcosmo tentacolare, come un movimento tellurico in cui i ricordi giocano a nascondino con le percezioni, e viceversa, e in cui la Storia, con la maiuscola a capolettera, precipita infine negli oggetti, diventando suscettibile di rievocazioni tanto fuggevoli quanto caotiche. In cui, in breve, il corpo di ognuno si sovrappone a quello di tutti, nel passato, nel presente, nel futuro. Scrive ancora Snegirëv:
«La gola era in fiamme.
Tutto intorno si ingrandiva.
Che cos’è? Fili d’erba sulle ciglia o pixels dell’ambiente circostante?
I granuli della casa, gli opachi riflessi di un ricordo, la microfibra delle speranze o la struttura molecolare dell’atmosfera terrestre?
Cos’è dove?
Dove ci sono ancora, o dove non ci son più?
Ho visto il Passato.
La Storia.
Un immenso cadavere, un’autentica discarica di rifiuti sulla quale volteggiano gli uccelli-avvoltoi, corrono gli sciacalli, strisciano gli insetti e le persone, le persone, le persone.
Io sono quel cadavere, e tutti loro mi sbranano» (pp. 284-285).
Sono situazioni di questo genere, in cui rapporto tra parole (segni) e cose (mondo) si slabbra fino a far posto al suo interno a un corteo di fantasmi di difficile nominazione che sembrano fare di questo libro una sorta di manuale ad uso e consumo di chi, pur vivendo nel nostro tempo, si sente appartenere non a un’altra era, ma solamente alla sfera dell’immaginazione creatrice, nella sua libertà problematica dalle pressioni del quotidiano. Persino allora la prosa quasi versificata cesellata con grande precisione da Snegirëv sembra riflettere questa condizione: vi sono solo frammenti, eventi smozzicati, pezzi di situazioni, di cui non si può mai arrivare a ricostruire la connessione ultima. L’unica unità residuale ancora a disposizione sarebbe ormai soltanto quella individuale, se non fosse che, in ultima istanza, anche gli in-dividui sono in fondo tutt’altro che tali (indivisibili):
«Ci insegnano che ogni persona è un individuo, ma questa è un’illusione. La nostra individualità è definita dalla vista. Se tutti noi fossimo esaminati al microscopio, ne risulterebbe che tra noi e il resto del mondo non esistono confini, le molecole e gli atomi corrono di qua e di là, oltrepassando i confini di continuo, noi siamo parte di un tutto, e i microbi, che tanto sfuggiamo, che ci uccidono, che sembrano privarci dell’individualità, in realtà ci avvicinano all’unione con questo grande tutto comune» (pp. 131-132).
È questa la cifra dello spazio del con-temporaneo – intendendo con questa espressione la sfera in cui si istruisce ogni forma di sapere –, uno spazio nel quale tutto appare disperso, messo fuori asse rispetto a qualsiasi direzionalità: restituito alla sua materialità pluristratificata e, a ben vedere, sostanzialmente informe, mostruosa. Uno spazio in cui non ci sono che moltitudini, molteplicità, pluralità, tanto diversificate quanto, a ben vedere, sempre un po’ imprendibili.
La strada fantasma muove allora da questa inquietante evidenza: prima di essere sensificabile, la vita, è un flusso disordinato di corpi, cose, dettagli, nessuno dei quali ha realmente un diritto di rango rispetto agli altri e che, semmai, rivela un senso cangiante, embrionale, sempre suscettibile di essere arrangiato in maniera soltanto metastabile.
Questo libro ci mette in contatto insomma direttamente con una tale circostanza, o, come pure si potrebbe dire, con la difficoltà intrinseca nel fare del circostante un complesso di accaduti dotati di una forma immanente. Per quanto ce ne siamo accorti da poco, questo disordine primigenio è infatti sempre esistito, al di sotto dei costrutti storici determinati con cui si è cercato volta per volta di occultarlo, come uno spazio che, a differenza di ogni altro, resiste a ogni colonizzazione.
È in questa situazione, allora, che il gravoso onere antropologico di sceverare tra l’informazione e il rumore, tra il significato e l’insignificante, diventa sempre più insostenibile e il livello del controllo tecnologico, di contro, assume una misura tendenzialmente schiacciante, per quanto, in ultima istanza, fallimentare.
Ma è anche qui che il compito dello scrittore, e delle parole-rappresentazioni, può riacquistare la sua importanza, come unico avamposto contro la deriva del senso – non foss’altro perché è grazie a esso, e solo a esso, che ci cogliamo infine sul ciglio della nostra possibilità di ricominciare ad agire, anche se avendo perduto ormai ogni illusione, ogni attesa di realizzazione personale, ogni progetto di senso universale.
Lo spazio del contemporaneo con cui ci mette in contattato la scrittura esplosa di Snegirëv è, in una parola, bifido: tanto impraticabile, con gli strumenti della ragione strumentale, quanto, alla fin fine, foriero di un nuovo status esistenziale puramente tattico: quello di chi agisce non sapendo che cosa fare, ma solo come, e che scopre quindi le sue aspettative sulla coda lucida delle proprie scelte puntuali, locali, per forza di cose sempre e solo situazionali. E forse, così, anche assolutamente comuni, nel duplice senso della parola: di tutti e di nessuno, al contempo.
In copertina un muro disegnato da Bansky a New York per omaggiare l’artista curda Zehra e chiederne la liberazione.