OPINIONI
Lo sguardo sul mondo di David Graeber
Comprendere che cambiare è possibile, se solo si è disposti a rifiutare l’idea che le cose siano andate nel modo in cui era inevitabile che andassero, ha il potere di metterci di fronte al fatto che il mondo in cui viviamo non è l’unico possibile. Un ricordo dell’antropologo scomparso e del suo sguardo sul mondo
La morte di David Graeber è arrivata improvvisa, seppur non del tutto inaspettata. Solo poco tempo prima aveva scritto di avere avuto qualche problema di salute ma di stare oramai meglio, rassicurando chi lo seguiva di aver terminato la stesura del suo ultimo libro. Inizialmente la notizia ha circolato lentamente e in forma privata, antropologi che scrivevano ad altri antropologi increduli quanto loro a chiedere conferma, sperando forse di essere smentiti. Poco o nulla ancora si trovava in rete a riguardo.
Nei giorni successivi, però, un fiorire di articoli sulle principali testate europee e d’oltreoceano a commemorare la scomparsa dell’antropologo attivista, tra i promotori del movimento Occupy Wall Street e coniatore del motto “We are the 99%”, l’autore del Debito e di Bullshit Jobs, l’anarchico bandito dalle università americane approdato infine alla London School of Economics.
Difficile davvero immaginare un’attenzione simile nei confronti di un qualsivoglia altro antropologo contemporaneo al di fuori dell’accademia. Questo perché è difficile immaginare un altro antropologo tanto noto al grande pubblico e altrettanto presente nel dibattito politico, soprattutto al di fuori del mondo anglo-americano, dove l’antropologia non gode di grande attenzione mediatica.
Ma Graeber, al di là della cassa di risonanza data dal movimento del 2011, è stato di sicuro uno di quelli che maggiormente ha saputo rompere la barriera tra dimensione professionale e vita pubblica, mostrando ai più la potenziale utilità pratica e applicativa della sua disciplina.
Questo perché pochi come lui hanno saputo parlare un linguaggio che fosse semplice e divulgativo, che rendesse fruibili analisi sofisticate senza mai ridurre l’estrema complessità che il suo metodo rigoroso, fatto di lunghe ricostruzioni etnografiche e lavoro d’archivio, portava necessariamente con sé.
Convinto che l’attenzione al dettaglio, apparentemente piccolo e localizzato, potesse essere rilevante sul piano generale e universale, con una spiccata sensibilità, semplicità e acume, Graeber è stato pioniere di quel tipo di antropologia che non vuole limitarsi a studiare contesti lontani nel tempo e nello spazio e produrre riflessioni chiuse in loro stesse, tutt’al più generando qualche lontana astrazione teorica di carattere macrostrutturale.
Nel suo scambio con Viveiros De Castro, ragionando sulla questione della Svolta Ontologica, Graeber si era battuto non tanto a favore della valenza o meno di un duro reale che è immutabile al di là delle svariate interazioni che si hanno col mondo, quanto dell’esistenza di un terreno comune su cui poggiare i principi di un’umanità condivisa. Postulare l’esistenza di ontologie separate, l’aggregarsi di reti di segni e significati localizzati e storicizzati che generano sfere di incomunicabilità, quasi tanti mondi quante prospettive, equivale a invalidare proprio ciò in cui Graeber credeva fortemente: che il potere della disciplina risiedesse nel considerare l’uomo come svincolato, oltre che da vincoli biologici, da un qualsiasi tipo di determinismo storico o materiale, che la sua caratteristica fondamentale fosse quella della possibilità, ovvero delle infinite forme che poteva assumere, delle innumerevoli strategie che diversi gruppi umani potevano adottare di fronte a una stessa problematica.
E ancora in Frammenti di antropologia anarchica, di fronte a chi sollevava la questione dell’applicabilità del modello anarchico su larga scala, Graeber sosteneva che fosse un paradosso cercare di incastrare una struttura dentro un’altra, applicando quel modello al nostro senza essere inclini a cambiarlo radicalmente. Anarchia diviene dunque in primo luogo anarchismo nel momento in cui rappresenta principalmente una postura, un’etica, una lente con cui guardare alla società e alle società col fine di pensare a quali possano essere gli strumenti più adatti per costruirne una diversa, più giusta e inclusiva.
Comprendere che cambiare è possibile, se solo si è disposti a rifiutare l’idea che le cose siano andate nel modo in cui era inevitabile che andassero, ha il potere di metterci di fronte al fatto che il mondo in cui viviamo non è l’unico possibile, senza tirare in ballo utopie né lasciarsi ingabbiare da principi dogmatici e cristallizzati su materialismo e rapporti di potere, come molti di quelli che condividevano la sua insoddisfazione per il modello di cui ci siamo dotati tendono a fare.
L’antropologia è in tal senso proprio quello strumento che, più di altri, aiuta a sviluppare un nuovo modello di sintesi che possa rivelarsi funzionale.
Così nel Debito, oltre a smontare i consumati fondamenti dell’economia classica sul mito del baratto e sulle origini del denaro, Graeber ha dimostrato quanto quella che noi concepiamo come una logica ineluttabile e stringente, una banale normalità come restituire un debito, non sia altro che un concetto morale fondato sull’idea che le relazioni umane siano basate su null’altro che la razionalità economica, su calcolo e scambio come fondamento dell’agire sociale. Che le modalità di scambio determinino dunque le modalità di interazione e di struttura.
I numerosissimi esempi etnografici e di archeologia storica presenti nel libro servono allora a dimostrare che è vero il contrario e che tale morale è istituita con la forza da chi, in un tipo di società centralizzata e burocratizzata, aveva il potere sufficiente per imporre una simile ideologia morale. E che già in Mesopotamia, cinquemila anni fa, dichiarare bancarotta e cancellare i debiti fosse un tipico meccanismo portato avanti dai sovrani per evitare un collasso sociale.
Volontà di invertire i paradigmi che è ancora il fulcro del suo ultimo lavoro, scritto a quattro mani col suo maestro Marshall Sahlins, Il Potere dei Re. Le società originarie, con economie di sussistenza e contenute nel numero, sono società acefale e orizzontali. Il potere di imporre regole era prerogativa di entità immateriali, quelli che noi definiremmo spiriti, o meglio divinità.
La cosmologia, quella che impropriamente chiameremmo religione, è dunque all’origine del potere di un uomo su molti ed è l’ordine gerarchico terreno a ricalcare il modello di quello celeste. Tirare in ballo il carattere simbolico del potere, come già aveva fatto descrivendo l’essenza dei bullshit jobs, ma soprattutto la sua natura cosmologica, può creare forse qualche prurito a quell’approccio teorico tutto intento a scrostare quella che avverte come una patina che nasconde la vera natura dei rapporti di forza, fatti di determinazione della base economica e intrisi di materialismo. Eppure, capire in che modo si erano resi invisi al loro popolo i sovrani del Madagascar in una certa fase storica, quali strumenti questo abbia impiegato per contrastare il loro potere assoluto, non toglie nulla alla lotta contro il potere autoritario, ma contribuisce a comprendere la totalità delle dinamiche in campo, anche se tira in ballo argomenti come spiritismo, possessioni e antenati che tornano in vita.
David Graeber è stato davvero uno degli intellettuali più influenti del suo tempo, in grado di portare avanti un concetto tutt’altro che scontato: che un intenso lavoro di archivio e di studio comparato e uno sforzo divulgativo e di applicazione sul reale contemporaneo siano l’arma principale per uscire dall’inattività e far sì che l’ottimismo non sia solo della prassi, ma anche e soprattutto della ragione.
E che, se finora abbiamo pensato nel modo in cui abbiamo pensato, è solo perché non abbiamo guardato un po’ più in là, perché quel che riuscivamo a vedere era l’acqua in cui eravamo immersi.
Non resta che attendere l’uscita dell’annunciato The Dawn of Everything per capire cos’altro potremo riconsiderare e leggere sotto una nuova luce. Nel frattempo, il suo sguardo sul mondo mancherà a molti di noi.
L’autore è antropologo e traduttore, asieme a CHiara Cacciotti e Piero Vereni, dell’ultimo libro di Sahlins e Graeber “Il potere dei re. Tra comsologia e politica”, Raffaello Cortina Editore, 2019.
Immagine di copertina di Thomas Altfather Good. David Graeber (in IWW t-shirt, center) with Brian Kelly at a May Day immigrant rights rally at NYC’s Union Square.