approfondimenti
EUROPA
Lo sciopero femminista delle donne svizzere e le prospettive delle lotte a venire
“Ma che cosa vogliono?” è stata la domanda fin dalla prima Conferenza Femminista nel giugno 2018, tenuta a Losanna, e la sua chiamata a uno sciopero delle Donne* / Femminista da tenersi un anno più tardi. Il 14 giugno 2019, esattamente 28 anni dopo il primo sciopero delle donne* in assoluto in Svizzera, più di mezzo milione di donne* e uomini sostenitori hanno preso parte alle mobilitazioni in tutto il Paese
Altre migliaia, da mezzanotte in poi, hanno occupato spazi pubblici e molti luoghi di lavoro oppure hanno semplicemente dimostrato solidarietà con lo sciopero indossando abiti viola o la spilla dello sciopero. È difficile analizzare il successo di un tale movimento di massa, necessariamente eterogeneo nella sua composizione sociale e nell’origine politica, culturale, nazionale, religiosa o generazionale dei suoi partecipanti. È ancora più complesso da capire, dato che, fin dall’inizio, con la sua decisione di mobilitarsi il 14 giugno, invece che l’8 marzo come nel resto del mondo, questo movimento sembrava distinguersi dalle mobilitazioni transnazionali dei tre anni precedenti. Queste mobilitazioni hanno dato origine a una nuova ondata femminista, supportata da milioni di donne che si sono unite, hanno manifestato e/o hanno scioperato per opporsi a politiche socialmente regressive che colpiscono le donne* in modo sproporzionato, peggiorando le varie forme di oppressione patriarcale che dominano le nostre società.
Ad ogni modo, la portata del movimento e il suo inequivocabile successo in Svizzera sono, secondo la mia opinione, prodotto della combinazione tra la natura offensiva di questo nuovo movimento femminista internazionale e la riattivazione dell’esperienza cruciale che è stato lo sciopero delle donne del 14 giugno 1991 in un Paese profondamente conservatore e patriarcale, classificato 20esimo dal World Economic Forum per la parità di genere. Questa data simboleggia un momento chiave per il rinnovamento del femminismo in Svizzera.
La trasmissione delle esperienze e delle conoscenze di coloro che avevano preso parte allo sciopero del 1991 è stata molto facile perché ogni generazione presente in questa mobilitazione (inclusa quella formatasi negli anni del 1968) ha compreso la sua inestimabile importanza. Prendere possesso del proprio passato per superarlo aggiornandolo per contrastare l’amnesia neoliberale, era una pressante necessità, ancor più perché la storia delle lotte femministe viene sistematicamente dimenticata, se non deliberatamente cancellata. La posta in gioco era alta. Il 14 giugno 1991, mezzo milione di donne* si erano mobilitate in tutto il Paese per assicurarsi che la parità di genere (de jure e de facto), scritta dieci anni prima nella Costituzione della Federazione Svizzera, fosse finalmente implementata. Il movimento era a quel tempo cresciuto con ancor più vigore perché rifletteva un sentimento largamente condiviso che troppo era troppo, in uno degli ultimi stati nell’Europa occidentale ad aver concesso il diritto di voto alle donne, molto dopo Regno Unito, Irlanda, Germania, Spagna, Francia e Italia.
Il movimento femminista svizzero aveva lottato per i diritti politici delle donne per decenni. Nel 1971, i votanti maschi finalmente accettarono questi diritti in un voto popolare a livello federale con una maggioranza del 65,7%. Siccome la proposta fu rifiutata da otto cantoni, questi diritti non furono pienamente implementati in tutti i cantoni svizzeri fino al 28 aprile 1991, solo settimane prima del primo sciopero delle donne. A quel tempo nessun progresso significativo e concreto era stato raggiunto in termini di parità sul posto di lavoro, in famiglia, ecc. Si è arrivati fino alla seconda metà degli anni ’80 perché la nuova legge sul matrimonio privasse il maschio “capofamiglia” delle sue ampie prerogative. Per quanto riguarda il diritto all’aborto e al congedo di maternità, essi apparivano ancora, all’alba di questa prima grossa mobilitazione femminista, come obiettivi fuori portata. Suggerito come uno scherzo dalle orologiaie nella Vallée de Joux (al cuore dell’industria dell’orologio, devastata al tempo da numerosi licenziamenti), lo sciopero come un mezzo d’azione venne finalmente adottato, non senza provocare forti resistenze, anche tra coloro che sostenevano il bisogno di mobilitarsi.
In Svizzera, la cosiddetta “pace sociale”, basata su un accordo del 1937 tra il sindacato degli operai metallurgici e l’organizzazione dei datori di lavoro, chiamato “pace al lavoro” (Paix du travail, Arbeitsfrieden), venne largamente adottata in tutti i settori e finì per essere vista come un supposto elemento di “identità collettiva”. Su un piano immaginario, intelligentemente coltivato dai capi e dai dirigenti dei sindacati, in un Paese contraddistinto da una sorprendente continuità delle élite, questa “pace al lavoro” era ed è ancora presentata come derivante da un tratto di carattere nazionale, che spiega l’eccezionale crescita economica dei decenni del dopo-guerra. Bisogna ricordare che, da subito dopo la seconda guerra mondiale, le élite dominanti svizzere hanno basato la loro azione politica su un assoluto liberalismo economico, riflettendo un sistema economico risparmiato dalla guerra, fortemente marcato dal potere del settore bancario e privo di qualunque industria pesante richiedente un intervento statale.
Il 14 giugno 1991, un’ondata viola (il colore dello sciopero) ha attraversato il Paese, dalle finestre delle case agli spazi pubblici, ai luoghi di lavoro, rivelando le discriminazioni prevalenti in tutti i settori produttivi e riproduttivi. Nei decenni seguenti, senza dubbio grazie all’impressionante mobilitazione del 1991, la revisione della legge sulla parità, che proibiva ogni forma di discriminazione “diretta o indiretta in tutte le relazioni di lavoro”, il diritto all’aborto e al congedo di maternità furono ottenuti. Dagli inizi degli anni 2000, le mobilitazioni femministe fecero importanti sviluppi, come anche gli studi di genere, aprendo nuove prospettive per un pensiero concreto, in relazione all’affermazione di nuove soggettività e nuovi soggetti. Questo risveglio venne percepito sul fronte sociale (in difesa dei servizi e dei benefit pubblici) e in difesa delle donne migranti e senza documenti, ma ha anche risvegliato azione e consapevolezza a livello internazionale, specialmente con la World March of Women.
Da uno sciopero al successivo
È interessante notare che, mentre nel 1991 l’uso del termine “sciopero” era considerato problematico, lo scorso anno il dibattito si è concentrato piuttosto sul termine “femminista”, un aggettivo visto da alcun* come troppo “radicale” o troppo “escludente” o, al contrario, troppo “datato” o mainstream per altr*. In particolare, giovani donne figlie di immigrat*, molto presenti nel movimento dall’inizio, erano le più caute, anche se non erano essenzialmente ostili all’uso del termine. Temevano che il ristretto e disincarnato significato assegnatogli dal capitalismo neoliberale nei precedenti decenni avrebbe potuto essere respingente per la loro generazione. Questo si è dimostrato vero quando, nel 2015, la Commissione Federale per la Questione Femminile ha lanciato un progetto richiedendo un “voto di donna”, cercando così di cancellare, nel nome dell'”universale femminile”, varie forme di oppressione sofferte dalla grande maggioranza delle donne in Svizzera.
Il femminismo non è spesso servito a legittimare degli scenari politici che non promuovevano la giustizia sociale né la “giustizia di genere”? Si aggiungeva a questo il fatto che il femminismo era stato incapace o aveva semplicemente rifiutato di comprendere la relazione tra sessismo e razzismo, promuovendo nel nome dell'”emancipazione delle donne”, una battaglia contro altre donne, specialmente donne musulmane velate, capri espiatori della destra nazionalista o liberale o persino di settori della cosiddetta “sinistra laica”. Così figure come Martine Chaponnière, una delle prime attiviste della Swiss Women’s Liberation, hanno difeso il bando sul velo a scuola nel marzo 2016.
Questo femminismo aveva anche aiutato a escludere gli strati sociali “invisibilizzati” o precari dalla sua agenda militante. Il caso più rivelatorio è naturalmente quello dei migranti senza documenti che, secondo le stime disponibili, sono per la maggior parte donne impiegate nell’economia domestica. Migranti senza uno status legale, in posizioni precarie, impiegati per un misero stipendio e senza assicurazione, prendono parte del lavoro casalingo e di cura, permettendo alle donne delle classi medie e alte di sfuggire, in una certa misura, al sovraccarico di lavoro dovuto alla crescente privatizzazione dei lavori domestici e la loro divisione ineguale tra uomini e donne. Come ha scritto Nancy Fraser:
Il femminismo mainstream ha adottato una visione della parità sottile e incentrata sul mercato, che si incastra perfettamente con la dominante visione neoliberale e aziendale. Quindi tende ad allinearsi con una forma di capitalismo specialmente predatoria del tipo il-vincitore-prende-tutto, che sta ingrassando gli investitori e cannibalizzando gli standard di vita di tutti gli altri. Ancor peggio, questo femminismo sta fornendo un alibi per queste predazioni. Sempre più, è il pensiero femminista liberale che fornisce il carisma, l’aura di emancipazione, a cui il neoliberalismo si appella per legittimare la sua enorme ridistribuzione della ricchezza verso l’alto.
Le circa 200 donne* riunite in una calda giornata del giugno 2018 in una salla sovraffollata a Losanna intendevano mettere esattamente queste questioni sull’agenda delle mobilitazioni pianificate per il 2019. Cercare di reclamare un femminismo di lotta e invocare azioni di sciopero come un mezzo di lotta, in un Paese in cui gli scioperi politici sono illegali, era quindi un passo importante. Potevano anche affermare un iniziale e, come i suoi iniziator* hanno ammesso, inaspettato successo. Nata come un’idea presentata al 13° congresso delle donne dell’organizzazione ombrello dei sindacati svizzeri Union syndicale suisse, la cui linea base è da lungo tempo quella della collaborazione con le organizzazioni di datori di lavoro, l’idea di uno sciopero delle donne*/femminista ha immediatamente preso piede ed è cresciuta.
In realtà, la convocazione della conferenza femminista a Losanna è avvenuta in un contesto particolare. A livello nazionale, solo pochi mesi prima, le forze politiche della sinistra radicale, soprattutto solidaritéS, settori minoritari dei sindacati, attivist* femminist* e associazioni di pensionat*, avevano ottenuto un’importante vittoria contro un progetto del governo adottato dal Parlamento, col supporto del partito Social-Democratico, volto ad alzare l’età pensionabile delle donne da 64 a 65 anni (dopo due aumenti consecutivi, guidati dalla ministra social-democratica Ruth Dreyfuss, da 62 a 63 nel 2001 e da 63 a 64 nel 2005). Per mesi, da aprile 2017, quest* attivist* erano sces* nelle strade per raccogliere le 70.000 firme di cittadin* necessarie perché questa nuova legge venisse votata in un referendum popolare, intessendo così legami tra loro, rinforzati da una spettacolare vittoria alle urne, nel settembre 2017. Insieme, erano riuscit* a imporre la propria azione in numerosi luoghi, guidando una domanda sociale per una reale (e non solo formale) parità tra donne e uomini. Di fronte a un unanime blocco borghese, supportato dal partito Social-Democratico, questa vittoria alle urne ha svelato un importante potenziale di mobilitazione contro le politiche di regressione sociale (attacchi contro gli stipendi, l’assicurazione, i servizi pubblici e i sussidi) che colpivano tutto il Paese.
Nei Cantoni e Comuni, tagli di budget con un impatto diretto sulle donne – perché loro sono in prima linea nella cura e nell’educazione, ma anche perché rappresentano la maggioranza delle persone nel Paese sotto la soglia di povertà – colpirono l’educazione (con una riduzione di finanziamento complessiva di un miliardo di franchi nel 2017), la salute, l’accoglienza e gli aiuti per lo sviluppo. Secondo l’Ufficio Federale di Statistica, la differenza salariale tra donne e uomini è ora al 19.6%. Le donne sono sovra rappresentate nei lavori scarsamente remunerati (2/3 degli impiegati con salari inferiori a 4.000 franchi), il 60% di loro ha un lavoro part-time (costrette da* dator* di lavoro o dall’iniqua distribuzione del lavoro domestico). Solo il 10% delle donne con un* figli* sotto i quattro anni lavora full-time, e la proporzione di giovani madri che devono lasciare il lavoro tende a crescere per via della mancanza e dell’alto costo dei servizi per l’infanzia. Oggi si parla di “soffitto della madre” per riferirsi a questa realtà. Nel 2014, il 20,2% delle madri con figli* sotto i 25 anni erano disoccupate, rispetto al 4,4% dei padri nella stessa situazione; 82,5% delle donne con un* figli* sotto i 15 anni lavorava part-time, contro il 13,3% dei padri.
Queste disparità in stipendi e carriere hanno un importante impatto negativo sul livello delle pensioni. Complessivamente, le donne ricevono poco più di metà della somma delle pensioni guadagnate dagli uomini, perché le donne hanno salari più bassi, perché lavorano in settori meno pagati e in lavori part-time, e/o hanno dovuto lasciare il lavoro per prendersi cura de* figl*. Come conseguenza di questa enorme discriminazione economica, l’estrema limitazione del congedo di maternità (conquistato nel 2005 a livello federale, copre la perdita di guadagno dopo la nascita per sole 14 settimane) e l’assenza del congedo di paternità (1 giorno nella maggior parte dei settori) o del congedo parentale, la maggior parte del lavoro domestico è ancora lavoro femminile in Svizzera oggi. E, se questo non fosse abbastanza, la destra dura ha tentato, fortunatamente senza successo, di abolire il rimborso dei costi per l’aborto (proposta votata il 9 febbraio 2014)
Con la campagna contro l’aumento dell’età pensionabile delle donne e la battaglia contro il grosso declino nella tassazione delle grandi aziende, vinte nel 2017, le organizzazioni politiche della sinistra combattiva, come anche i settori militanti dei sindacati e il mondo associativo hanno creato importanti legami su cui la mobilitazione del giugno 2019 ha potuto fare affidamento.
A livello internazionale, fin dal 2017, di fronte alla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti e la venuta al potere delle forze conservatrici e fondamentaliste in tutto il mondo con la loro dichiarata lotta a donne*, pover*, precar*, migranti, le mobilitazioni dell’8 marzo sono cresciute anche in Svizzera. Giovani donne, spesso molto giovani, hanno superato e travolto assemblee femministe più tradizionali, con una partecipazione significativa (mista o meno) di settori “autonomi”, in marcia contro la violenza di tutti i tipi contro le donne, rinforzando e/o diversificando i comitati per l’8 marzo, in qualche modo dormienti sino ad allora. Erano in migliaia nelle strade di Ginevra nel marzo 2017 e più del doppio nel marzo 2019, mentre lo sciopero era in preparazione.
Femminismo, movimento di classe e internazionalismo
Dopo la Conferenza nel giugno 2018, collettivi locali vennero creati in tutto il Paese, costruendo pazientemente la mobilitazione da un cantone all’altro: prima nella Svizzera francese, dove un coordinamento fu istituito e collettivi creati in ogni regione (Vaud, Ginevra, Neuchâtel, Fribourg, Valais) poi nella Svizzera italiana e infine nella Svizzera tedesca. Questi collettivi erano l’espressione della percezione di urgenza nell’affrontare e sfidare le varie forme di dominazione sulla base del posto occupato dall’individuo nella società. Questa necessità era quanto più urgente perché teneva insieme diverse generazioni, incluse generazioni politiche e culture organizzative distinte (dove esistevano) tra associative, politiche, sindacali, con una varietà di categorie socio-professionali e origini. Ma lo scopo era di integrare queste varie esperienze nel movimento più vasto possibile, che riflettesse le nuove aspirazioni femministe.
Il manifesto dello sciopero, inizialmente abbozzato da un ristretto gruppo di donne* delegate dall’assemblea generale durante la seconda plenaria del coordinamento di lingua francese a Losanna nel settembre 2018, e poi discusso, emendato, corretto e ampliato dai collettivi locali, è senza dubbio uno dei risultati di maggior successo. La discussione di questo manifesto ha mirato a essere il più orizzontale possibile, a riunire tutte le forze presenti, quelle di attivist* con esperienza, molto spesso dalla sinistra radicale, migranti e associazioni di donne, e sindacati (dei settori privato e pubblico), ma anche quelle dell* attivist* più giovani che volevano far sentire le loro voci. Questo metodo ha reso possibile determinare insieme le modalità di azione e le richieste dello sciopero. Tra queste c’erano parità di salario, salario minimo, riduzione delle ore di lavoro; assicurazione e sussidi sociali; diritti per le donne migranti al lavoro e nel loro percorso migratorio (richiesta di regolarizzazione e legislazione che le proteggano); lotta alla discriminazione e alla violenza contro le donne* (un piano nazionale per la prevenzione e la lotta alla violenza di genere e alla violenza sessuale, accettazione del diritto di asilo per queste ragioni); libertà di vivere il proprio orientamento sessuale e di scegliere la propria identità di genere; presenza delle donne nello spazio pubblico/politico.
La radicalità di questo manifesto, che contesta il sistema patriarcale e capitalista, è stata una conquista decisiva. A Bienne, nel marzo 2019, le 500 donne* presenti hanno adottato una chiamata allo sciopero. È questa chiamata, conosciuta come la “Chiamata di Bienne”, che doveva essere letta il 14 giugno alle 11 sui posti di lavoro e negli spazi pubblici in Svizzera:
Noi tutte, donne*, con o senza un* partner, in comunità, con o senza figli*, con o senza lavoro, qualunque sia la natura di tale lavoro, sane o malate, con o senza disabilità, eterosessuali, LGBTIQ, dalle più giovani alle più vecchie, nate qui o altrove, con culture e origini diverse, noi convochiamo uno sciopero femminista e delle donne* il 14 giugno 2019. Noi vogliamo parità nei fatti e vogliamo decidere per noi stesse sulle nostre vite. Per questo, scenderemo in sciopero il 14 giugno 2019!
Se durante i mesi di preparazione, i collettivi sono cresciuti per la preparazione concreta dello sciopero (costruendo siti web, scrivendo brochure, organizzando cori, iniziando azioni di ogni tipo, flash mob, ecc.), altre mobilitazioni hanno aiutato ad alimentare le richieste dello sciopero. La mobilitazione di settembre 2018 a Berna, per la parità retributiva, ha riunito più di 20.000 persone, e il suo volantino tradotto in undici lingue (in Svizzera l* immigrat* senza diritti politici sono più di un quarto della popolazione). A Ginevra, lo sciopero degli addett* alle pulizie di una banca privata che ha tenuto picchetti nel freddo dell’inverno per giorni, così come la lotta contro una legge islamofoba che proibiva indossare il velo nei comuni o nei parlamenti dei cantoni e per i lavorator* in tutte le entità di servizio statale o pubblico, resero possibile allargare le lotte e renderle più concrete. Due settimane prima dello sciopero, “Sciarpe Viola”, che raccoglie donne musulmane che indossano o meno il velo, dichiarò lo sciopero.
Liste di richieste per settore professionale furono stese e inviate in diversi luoghi di lavoro. Oggi queste sono una grossa sfida per la continuazione dell’enorme mobilitazione del 14 giugno. Molte iniziative sono venute dal basso, specialmente nel settore pubblico (asili, scuole, università, ospedali, amministrazioni pubbliche…) Senza dubbio è lì (ma non abbiamo ancora tutti i dati) che la mobilitazione è stata più forte e che lo sciopero è stato più seguito. Nel settore privato è stato particolarmente difficile. In realtà, nei settori orologiaio e metallurgico, i sindacati non hanno supportato lo sciopero, con l’accordo di lavoro collettivo contenente clausole di condanna di qualunque sospensione del lavoro. Però, in alcuni casi, legami di solidarietà tra donne lavoratrici nei settori pubblico e privato si sono manifestati con specifiche liste di rivendicazioni. Così, quella del* impegat*, studenti, dottorand* dell’università di Losanna, includeva rivendicazioni per le donne lavoratrici nelle caffetterie e nelle imprese di pulizie (quasi tutte migranti) assunte da aziende private nel campus.
La popolarità del movimento nella popolazione, come evidenziato da un sondaggio rilasciato dalla stampa, come anche la sua dimensione, ha scatenato una sorta di strikewashing: alcune aziende hanno concesso pause estese o hanno lasciato libere le donne alle 15:24, orario simbolico della giornata che marcava l’inizio dell’orario di lavoro non salariato in Svizzera (dato che non sono pagate quanto gli uomini). Le mobilitazioni miravano anche a rendere l’invisibile visibile promuovendo le dimostrazioni davanti ai luoghi di lavoro dove le donne sono impiegate in massa (centri commerciali, hotel…) per dimostrare solidarietà a coloro che non potevano unirsi al movimento. Le invisibili erano anche presenti alle dimostrazioni finali di fine giornata, rappresentate da silhouette o cartelli indossati da altre donne solidali.
Dopo la mobilitazione del 14 giugno, si poteva leggere che la chiamata allo sciopero, criticata da molta stampa per la sua radicalità di sinistra e anti-patriarcale, lontana dal costituire un ostacolo alla mobilitazione era stata “l’espressione di una marea realmente femminista, anti-razzista e anti-capitalista.” Un’incoraggiante analisi del movimento, ma probabilmente un po’ troppo ottimista. È vero che, nonostante le pressioni e gli attacchi a uno sciopero illegale, “confiscato dalla sinistra”, “escludente gli uomini”, ecc. fatti da ampie fasce della destra e dei padroni, riportati da alcuni media, la mobilitazione è stata di dimensioni senza pari. I legami che ha creato nei luoghi di abitazione e di lavoro, le nuove solidarietà che sono emerse e i temi che sono stati sollevati e costantemente ripetuti fin dalla chiamata allo sciopero lanciata a marzo, erano senza dubbio condizioni per una nuova consapevolezza delle relazioni di dominio e sfruttamento che esistono in una società capitalista come quella svizzera.
Ad ogni modo, bisogna notare, come anche le nostre compagne in Polonia hanno osservato, che per il momento “Le donne si pensano come ‘le oppresse’, ma l’analisi di classe è presente solo in piccole parti del movimento femminista, principalmente associate con mondo accademico, gruppi radicali dal basso e, molto meno, sindacati.” Ma c’è speranza. Il movimento è stato costruito pazientemente dal basso, in modo capillare, in connessione con movimenti sociali e militanti e organizzazioni sindacali, senza rinunciare agli elementi radicali del proprio programma. Questa è sicuramente una delle chiavi del suo successo, manifesto nella serata del 14 giugno. Un movimento senza precedenti, ampio e nazionale in un Paese conservatore e patriarcale che ha fatto del suo collaudato federalismo uno degli elementi della sua continuità politica, senza dubbio apre il campo per una protesta politica e sociale in tutto il Paese, di fatto imponendo un rinnovamento e/o rafforzamento delle sue modalità d’azione.
Il prossimo passo vedrà sicuramente questo impressionante movimento, la cui prima preoccupazione – senza dubbio giustificata – era segnalare la continuità con lo sciopero del 14 giugno 1991, connettersi con il movimento internazionale dell’8 marzo. Questo orientamento sarà dibattuto dopo la pausa estiva e probabilmente adottato dai vari gruppi. Agli incontri femministi internazionalisti organizzati lo scorso aprile a Ginevra da solidaritéS, a cui Sara Farris e Tithi Bhattacharya hanno considerevolmente contribuito, la chiamata a creare una internazionale femminista è stata bene accolta. Nei mesi a seguire, la compagna per l’elezione del parlamento federale svizzero rimetterà sul tavolo le rivendicazioni del Manifesto, che sarà inviato a tutti i partiti che presenteranno de* candidat*. Il futuro di questo nuovo movimento femminista, in prima linea nella lotta contro l’inasprimento dello sfruttamento capitalista, ma anche contro le sue conseguenze nella sfera riproduttiva e contro l’ascesa di un patriarcato apertamente razzista, ha enormi potenzialità. La sua consapevole articolazione internazionale oggi dipende molto dalla sua ala più radicale. Le nostre responsabilità sono quindi notevoli.
Questo articolo è parte di un dossier intitolato “New Dispatches from the Feminist International”
Articolo pubblicato da viewpointmagazine
Traduzione in italiano di Marta Lovato, Nudm Maceratese