COMMONS
Dietro lo scandalo Facebook e Cambridge Analytica
Il clamore sull’utilizzo dei dati di milioni di utenti di Facebook durante la campagna elettorale statunitense da parte di Cambridge Analytica, nasconde in realtà un nuovo modello di proprietà incarnato dal nascente platform capitalism
A partire dallo scorso weekend è tornata sotto i riflettori della stampa internazionale la vicenda di Cambridge Analytica, e dell’utilizzo che questa avrebbe fatto dei dati di milioni di utenti Facebook durante la campagna elettorale americana del 2016, oltre che nel referendum della Brexit e in altre occasioni. Per provare a fare chiarezza sul quadro d’insieme e avviare una discussione a partire da questi fatti, ripercorriamo in breve la vicenda:
Cambridge Analytica è un’azienda londinese di data mining e analisi, fondata nel 2013 dal miliardario Robert Mercer, finanziatore del sito di informazione di estrema destra Breitbart News, diretto da Steve Bannon (che è stato consigliere e stratega di Trump durante la campagna elettorale e poi alla Casa Bianca). Cambridge Analytica si occupa di varie attività, dalla raccolta dati a partire dalla Rete e da social network, all’ąnalisi di questi per fini commerciali o di propaganda elettorale. Tramite le informazioni provenienti dai siti di portali e piattaforme social è possibile studiare i gusti e le abitudini di ogni singolo utente, compiendo una profilazione psicometrica in base ai “mi piace”, gli acquisti, i contenuti pubblicati ecc.. questi, possono servire sia a un venditore per comprendere le richieste del pubblico sia a un candidato per studiare le strategie di campagna elettorale. Come è possibile vedere dal sito, in questi pochi anni l’azienda ha lavorato in varie occasioni in almeno una decina di paesi, tra cui la campagna elettorale di Trump e quella pro-Brexit di Farage.
Nel 2015 un ricercatore dell’Università di Cambridge, Aleksandr Kogan, realizza un’applicazione, “thisisyourdigitallife” (“questa è la tua vita digitale”), un’app come ce ne sono tante, che permetteva di visualizzare profili psicologici della propria identità virtuale basandosi sull’analisi delle attività social. Per utilizzarla, l’utente doveva dare consenso tramite le credenziali di Facebook e l’app poteva così accedere alle informazioni personali. Va tenuto conto che, fino a qualche anno fa, Facebook permetteva ai gestori delle applicazioni di raccogliere dati anche sulla rete di amici dell’utente. In pratica, se un utente dava il consenso di cedere i propri dati, tra i dati concessi vi erano anche alcune informazioni inerenti ai suoi amici, come se fossero parte delle informazioni dell’utente. In seguito Facebook ha modificato questa opzione, in modo che le reti di amici non fossero più accessibili tramite app.
Tuttavia, nel frattempo, l’applicazione di Kogan aveva raggiunto 270mila utenti, collezionando in totale informazioni di vario tipo di 50 milioni di profili Facebook (stima di Guardian e New York Times, per alcuni è sovrastimata o include informazioni di poco rilevo, certo è che i dati in questione raccolgono informazioni di centinaia di migliaia di reti di amici).
Fino a questo punto quindi, Kogan non aveva fatto nulla che contravvenisse alle regole di Facebook. Il problema è sorto quando il ricercatore ha venduto la mole di dati raccolta proprio alla Cambridge Analytica, per svolgere analisi sulle elezioni. La vendita a terzi dei dati raccolti è infatti proibita dalla policy di Facebook.
Già l’anno scorso il “Guardian” aveva parlato del ruolo di Cambridge Analytica nelle elezioni americane. Tuttavia, all’epoca, altri giornali liquidarono la cosa come poco rilevante o poco documentata.
Il weekend scorso è uscita una nuova inchiesta condotta da Il Guardian e New York Times, che ha fatto tornare alla ribalta la vicenda, con più informazioni a riguardo, oltre alla testimonianza di un whistleblower, Christopher Wylie, un programmatore che all’epoca dei fatti lavorava per la Cambridge Analytica, e che ha fornito maggiori informazioni.
Wylie sostiene che Facebook fosse al corrente della cessione dei dati a Cambridge Analytica da parte di Kogan da circa due anni. Fu infatti la stessa Cambridge Analytica ad autodenunciarsi a Facebook dicendo di aver scoperto di essere in possesso di dati ottenuti in violazione dei termini d’uso. Ciò che stupisce, allora, è il fatto che Facebook ha deciso soltanto la settimana scorsa, venerdì 16 marzo, di sospendere l’account di Cambridge Analytica, dopo essere venuti a conoscenza dell’imminente pubblicazione degli articoli. Ad essere bloccati, inoltre, anche gli account personali di Kogan e di Wylie.
Nell’estate del 2016 Trump affidò a Cambridge Analytica la gestione della raccolta dati per la campagna elettorale. Non sappiamo con esattezza quanto e come l’azienda abbia messo in atto la campagna, ma sappiamo che l’attività fu organizzata sicuramente su larga scala. Informazioni di tipo vario sulle modalità criticabili di indagine e azione dell’azienda provengono dalle rivelazioni di Wylie e da un’inchiesta condotta da Channel 4 nella quale due giornalisti si sono finti clienti dell’azienda. Ne emerge l’uso da parte dell’azienda di agenti provocatori, rumor campaign e disinformazione.
A Washington, Adam Schiff, deputato californiano e membro di spicco del comitato di intelligence interna, ha richiesto a Facebook di fornire una spiegazione e ha sottolineato la necessità di una “indagine scrupolosa” su Cambridge Analytica. «La compagnia ha ripetutamente utilizzato le sue competenze per influenzare gli elettori con un targeting ‘psicografico’ e ha rivendicato il fatto che si trattasse della ragione principale della vittoria di Trump», ha detto Schiff al Guardian. «Attraverso Cambridge Analytica la campagna di Trump ha acquisito illegittimamente i dati di milioni di americani per aiutarlo a vincere.»
Lunedì 19 marzo, il senatore democratico Ron Wyden ha inviato a Zuckerberg un elenco di domande relative alla violazione, con richiesta di rispondere entro il 13 aprile. Due membri del comitato giudiziario del Senato, il democratico Klobuchar e il repubblicano Kennedy hanno chiesto audizioni con gli amministratori delegati di Facebook, Twitter e Google. Da Londra è Damian Collins, presidente della commissione parlamentare britannica su Cultura, media e digitale, ad accusare il social network di aver ingannato l’organismo in precedenti audizioni. Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo, riferisce su Twitter di aver «invitato Mark Zuckerberg» a chiarire «davanti ai rappresentanti di 500 milioni di europei che i dati personali non vengono utilizzati per manipolare la democrazia». Secondo il garante Ue per la privacy, Giovanni Buttarelli, «potrebbe essere lo scandalo del secolo».
Facebook affonda in borsa, perdendo fino al 12%, trascinando in basso Wall Street, mentre sui social arriva la campagna #DeleteFacebook, e il responsabile della sicurezza, Alex Stamos, ha annunciato la sua intenzione di dimettersi dopo disaccordi interni su come l’azienda dovrebbe affrontare la bufera. Intanto la società Cambridge Analytica ha fatto sapere di avere sospeso il suo amministratore delegato, Alexander Nix, il cui operato stando al comunicato “non rappresenta i valori e il modo di operare della società”
Edward Snowden, sempre su twitter, invita a guardare la luna anziché il dito, e quindi al fatto che ciò che è successo, al di là della questione prettamente di policy, è una naturale conseguenza della natura di Facebook e di come questa guadagna tramite il possesso dei dati. «Le aziende che guadagnano denaro raccogliendo e vendendo dettagli di vite private sono state definite chiaramente “società di sorveglianza”. Il loro rebranding come “social media” è il loro inganno di maggior successo».
«Facebook guadagna sfruttando e vendendo dettagli intimi sulla vita privata di milioni di persone, ben oltre i pochi dettagli che pubblichi volontariamente», ha aggiunto, «Non sono vittime, sono complici».
Il potere emergente delle piattaforme proprietarie
Come in parte Snowden ed altri attivisti vicini al tema della privacy fanno notare, non c’è certo da stupirsi del fatto che un’azienda come Facebook, che noi paghiamo con i nostri dati, faccia uso dei nostri dati, e li ceda a terzi. Certo, c’è di mezzo un’infrazione delle policy, ma questo non è sinonimo né di falla del sistema informatico né di furto vero e proprio di dati. È semmai da considerare la naturale conseguenza del business delle piattaforme.
Detto ciò, non possiamo sminuire la vicenda.
Questo “scandalo da prima pagina” che sta circolando in tutto il mondo, permette di porre, forse per la prima volta, la lente di ingrandimento sul nuovo modello produttivo del capitalismo delle piattaforme. E certo, vi sono tanti processi in corso su cui varrebbe la pena discutere. Ad esempio, ci sarebbe da ragionare di come le piattaforme stiano diventando simili a “organismi sovranazionali diffusi”, naturalmente privati, che con le loro leggi (policy) e le loro misure (sospensione account, eliminazione), acquistano un potere inedito di costruzione della realtà che sconvolge le classiche concezioni dei rapporti mediatici e geopolitici.
La questione dei conflitti tra Silicon Valley e Stati-nazione rientra in una difficile articolazione del nuovo rapporto tra questi ultimi e le piattaforme, e del mancato equilibrio di poteri che ne consegue. Ciò non toglie che le grandi corporation riescano a determinare aspetti fondamentali della società odierna, in particolare nella definizione di ciò che “è vero” e cosa invece deve essere bloccato/censurato. Inoltre, stabiliscono quali prodotti e servizi sono utili e a chi sono rivolti, quali avvenimenti hanno rilievo, ecc. Tutti questi aspetti sono commercializzati, resi valore di scambio e, così, risultano parzialmente disponibili per chiunque abbia i soldi per pagare.
Nonostante la natura prettamente commerciale della sua struttura, Facebook dispone (e utilizza con sempre più frequenza) della possibilità di decidere arbitrariamente su questioni “etiche” e politiche cruciali: chi e cosa merita di apparire e chi o cosa deve invece essere censurato. Nessun potere istituzionale può oggi vantare la stessa forza in questo campo della rappresentazione. E ciò è certificato dal valore finanziario raggiunto oggi da queste corporation.
Facciamo comunque attenzione al peso delle cose. Non c’è un rapporto di causa-effetto tra Cambridge Analytica ed elezione di Trump o Brexit, e non si può “calcolare” il merito della campagna. Ma quel che deve far riflettere è la nuova forma economica e culturale che impongono queste piattaforme. In questo, Facebook è la più importante poiché riesce a definire il mondo a partire dalla scala individuale.
Oltre a tutti i nostri dati personali nel senso più generale di “profilo” (età, sesso, orientamento sessuale, etnia, luoghi di…), definisce l’amicizia e attraverso questa stabilisce l’ampiezza e diversità del mondo a cui accediamo. Definisce ciò che preferiamo (like) e ciò che facciamo (eventi). Chi e quando, nel nostro mondo, ci fa arrabbiare, esultare, innamorare, ridere, divertire. Tutti questi processi standardizzati e determinati per ogni individuo, non sono mai stati disponibili per nessuno prima d’ora. E questo rende “il voto”, in quanto preferenza aggregata periodica delle preferenze individuali momentanea, una barzelletta. Ed è a partire da questo, e non dalla vittoria di un singolo attore, che bisogna riflettere su quanto questi cambiamenti, in primo luogo culturali ed economici, arrivino a sconvolgere (o ridicolizzare?) il classico funzionamento della democrazia liberale rappresentativa.
Per concludere la riflessione ma rilanciare il dibattito, la questione centrale, a nostro avviso, è tornare a collegare le critiche al fenomeno, nella confusione della bufera mediatica, alla questione della proprietà. Se oggi è evidente a tutto il Mondo che un’azienda che utilizza dati per influenzare la campagna elettorale rappresenti un problema per la democrazia, che dire di una piattaforma che già possedeva tutti quei dati, e molti altri di più?
Per continuare e approfondire il dibattito sul ruolo sociale e politico dei big data e degli algoritmi, uscirà ad aprile per D Editore l’antologia Datacrazia, con saggi di vari autori e autrici sul tema