EDITORIALE
Lo scandalo dello sciopero generale
Cgil e Uil, senza la Cisl, convocano lo sciopero generale per il 16 dicembre, il primo dopo 7 anni. Non sarà sufficiente ad aprire una nuova stagione di conflitto sociale, ma tanto basta a turbare la pax draghiana e i suoi alfieri
Partiamo dai fatti. Il primo è che uno sciopero generale convocato dai confederali non si vedeva dal 2014. Il 12 dicembre di quell’anno Cgil e Uil scesero in piazza contro il Jobs Act voluto da Matteo Renzi. La Cisl non partecipò alla mobilitazione. Non lo farà nemmeno il 16 dicembre prossimo. Fino a poche settimane fa era quasi impossibile prevedere che le organizzazioni guidate da Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri avrebbero fatto ricorso al principale strumento di lotta in mano ai lavoratori: le ragioni della svolta non sono del tutto chiare, ma è certo che la decisione ha una portata simbolica e politica di non poco conto. Nonostante i limiti e i rischi del caso, gli uni e gli altri legati molto alle tempistiche di indizione.
Il secondo fatto sono le durissime reazioni alla notizia. Dal governo hanno comunicato stupore per uno «sciopero non comprensibile», mentre le forze politiche sono partite immediatamente all’attacco.
«È inspiegabile e irresponsabile la scelta della Cgil di indire uno sciopero poco prima di Natale», ha detto il segretario della Lega Matteo Salvini. «Vogliono solo dimostrare di esistere. È una strategia sbagliata che li porterà all’irrilevanza», ha dichiarato Carlo Calenda, di Azione. Tutto l’arco parlamentare ha espresso indignazione e condanna verso Landini, con l’eccezione di Sinistra italiana.
Chi si trova più in difficoltà, ovviamente, sono i parlamentari del Partito democratico, che in aula sostengono il governo Draghi ma fuori dovrebbero farsi votare in primis dai lavoratori, soprattutto quelli con la tessera Cgil. Dal Pd, comunque, le critiche alla protesta sono state unanimi, anche se con differenti sfumature.
Il segretario della Cisl Luigi Sbarra ha detto al “Corriere della Sera” che «da una parte c’è il sindacato del pragmatismo, della partecipazione, del dialogo e dall’altra un sindacato movimento più attestato sull’antagonismo». Su “Repubblica” è stato scritto che «l’avvio di un conflitto sociale in una fase delicatissima, in cui accanto alla ripresa della pandemia si registra anche l’impennata dell’inflazione, fa immaginare scenari da anni Settanta: la spirale prezzi-salari con una crescente tensione sociale». “Antagonismo” e “anni Settanta” sono i fantasmi usati in Italia da 40 anni per stroncare sul nascere qualsiasi protesta, screditare quelle che prendono corpo, fomentare l’allarme quando c’è il rischio che esplodano. Stavolta, però, le paroline magiche non sono dirette a No Global, No Tav, centri sociali, movimenti di lotta per la casa o studenti, ma contro due sindacati confederali. Tanto è grande lo scandalo per aver turbato la pax draghiana.
Certo, quella di giovedì prossimo non sarà la prima protesta dei lavoratori. Le vertenze – tra cui Gkn, Whirlpool, TextPrint, Alitalia – non hanno mai smesso di farsi sentire. I sindacati di base, in una ritrovata unità, hanno convocato uno sciopero generale l’11 ottobre scorso e sono scesi in piazza nel «No Draghi day» il 4 dicembre. Il comparto scuola aveva già dichiarato l’astensione dal lavoro per domani.
Il segnale di discontinuità è però significativo, sebbene tutto da verificare. Cgil e Uil marcano, almeno per il momento, una doppia rottura: verso la tanto sbandierata unità sindacale e rispetto alle modalità di contrattazione con il governo. In questi mesi Draghi ha incontrato ogni volta tutti gli attori politici e sociali, ma alla fine ha deciso sempre lui. I confederali non hanno ottenuto quasi nulla con questo metodo. Le sconfitte su pensioni e manovra sono solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La base Cgil, soprattutto le federazioni più combattive, scalpitava ormai da tempo. Le vicende relative al Green pass sui luoghi di lavoro avevano creato tensioni interne difficilmente risolvibili e spesso di natura contrastante. Lo sciopero generale sembra avere un duplice obiettivo: rispondere a un’esigenza di rilegittimazione verso gli iscritti e manifestare al governo l’indisponibilità a continuare con la contrattazione nel solco percorso sinora. Al di là delle rivendicazioni, limitate e frammentate, potrebbe essere questo secondo aspetto il più interessante. Finora le scelte di Draghi erano saltate solo per via dell’asse destre-Italia Viva, su emendamenti di importanza ridotta.
Se però si aprisse una crepa nel muro del nuovo governo starebbe a chi lotta trasformarla in breccia.
Sarebbe illusorio credere che uno sciopero di 8 ore, convocato 10 giorni prima e agito esclusivamente dalle due organizzazioni confederali possa inaugurare una stagione di conflitto sociale. Il fatto, però, potrebbe essere sintomo anche di qualcos’altro. Sembrano averlo capito i tanti che del «conflitto» agitano lo spauracchio, preoccupati che nella fase di ripresa dell’economia poveri e lavoratori non si accontentino più della carità che il governo di unità nazionale riserva loro, distribuendo le briciole alla fine dei tavoli.
Del resto, non sarebbe la prima volta che a una fase di espansione economica corrisponde un’espansione delle lotte per redistribuzione, salari, welfare. Che un processo di questo tipo possa essere organizzato o diretto dai confederali non lo crede nessuno. Per questo lo sciopero generale è un primo passo, ma per tornare all’attacco servirebbe generalizzarlo davvero, nelle rivendicazioni, nella radicalità, nel tempo.
Immagine di copertina archivio dinamopress