cult
CULT
Linguaggio, comunicazione, lavoro
Miserie e splendori dell’intreccio tra linguaggio e lavoro nel XXI secolo. Alcune anticipazioni sui temi al centro del primo incontro del seminario “Linguaggio e marxismo. Che cos’è lavorare, che cos’è parlare”, organizzato dal “Circolo materialista del linguaggio e del lavoro”.
Né il linguista più avvertito (Noam Chomsky) né l’antropologo più brillante (Michael Tomasello) sarebbero d’accordo nell’affermare che il linguaggio è comunicazione. Il linguista direbbe che la sintassi è innanzitutto uno strumento cognitivo e solo dopo che abbiamo pensato ce ne serviamo per imbastire frasi e discorsi finalizzati a «esternalizzare» i pensieri. L’antropologo spiegherebbe che, coerentemente con Darwin, esiste la comunicazione come fatto biologico vantaggioso per l’evoluzione delle specie e che la comunicazione linguistica arriva dopo e soppianta quella gestuale degli scimpanzé e dei bambini ancora infanti. In entrambi i casi, il linguaggio non coincide per intero con la comunicazione e si manifesta in maniera tardiva e derivata: o è prima strumento del pensiero e poi strumento per comunicare; oppure la comunicazione è in origine un fenomeno della vita che precede il linguaggio e che poi negli esseri umani diventa un fatto verbale.
Da un lato, non c’è un’equivalenza immediata tra linguaggio e comunicazione. Dall’altro, però, se bisogna indicare che effetto abbia il linguaggio nella prassi umana e quale sia la sua l’utilità pubblica allora la risposta del linguista e dell’antropologo è: comunicare. Imparare a interagire parlando significa apprendere a comunicare con le parole.
Comunicazione e lavoro. Sostenere oggi la tesi circa la connessione tra linguaggio e comunicazione non è solamente un modo per fornire un’immagine ristretta e caricaturale della performance dell’animale loquace. È un gesto politicamente connotato, che appiattisce il linguaggio sul lavoro. Spiegare l’uso del linguaggio sul modello della comunicazione – c’è un messaggio che un emittente produce e che intende trasmettere a un destinatario – significa farne uno strumento di lavoro adeguato al capitale del XXI secolo. Dire “linguaggio come comunicazione” è uguale a dire “linguaggio come lavoro”.
Un esempio non è la solita agenzia di marketing, ma lo è la scuola e lo è l’università. Negli ultimi trent’anni la scuola si è trasformata in «un luogo senza studio» (Domenico Starnone), il linguaggio del lavoro a scuola non è più connesso con l’episteme, meno che mai con la praxis. È un linguaggio che serve a produrre e a comunicare contenuti funzionali alla techne, al sapere strumentale volto al successo personale, alla competizione, al mercato.
Lavoro e linguaggio. Lo schema opposto e alternativo che è in grado di descrivere la costellazione linguaggio-comunicazione-lavoro si basa sull’enunciato !lavoro come linguaggio”. Esso non implica la connessione tra linguaggio e comunicazione, dunque, non schiaccia il linguaggio sul processo lavorativo. Dire “lavoro come linguaggio” mette in conto che il linguaggio non è lavoro e che, proprio perché è separato e opposto, il lavoro lo sussume, lo assorbe in sé.
Il linguaggio serve a pensare e ad agire nel mondo «sotto gli occhi degli altri» (Hannah Arendt), il linguaggio sta fuori dal lavoro, è essenzialmente praxis e non poiesis. La sussunzione capitalistica del linguaggio nel lavoro è un fatto storico, che si configura come la risposta violenta del capitale all’affermazione dell’autonomia del linguaggio dal lavoro.
Una volta che si è consumato il divenire linguistico del lavoro, allora il linguaggio diventa un fattore economico, serve a produrre e la sua efficacia dipende dal fatto di utilizzarlo come strumento comunicativo. Oltre a rappresentare un coerente criterio epistemologico, l’enunciato “lavoro come linguaggio” è utile politicamente perché conserva l’antinomia lavoro-linguaggio e sottolinea l’eccedenza del linguaggio sul lavoro. Mantiene cioè un distacco tra lavorare e parlare all’interno del quale sopravvive la potenza di rinunciare all’uso comunicativo del linguaggio, di rifiutarne lo scopo lavorista. Rinunciare e rifiutare come premessa per la prassi. L’alternativa alla comunicazione è il linguaggio come lotta.
Platone e il capitale. Nel Cratilo, Platone antepone il lavoro all’uso. L’uso, collegato alla prassi storico-sociale, per il filosofo non è sufficiente a dare conto della correttezza dei nomi, perché innanzitutto è necessario chiarire «chi ci trasmette i nomi che usiamo». L’uso cede il posto di comando alla techne del fabbricatore di nomi. Il nome per essere utilizzato va prodotto, è un ergon, cioè un’opera, nel duplice significato del termine: lavoro e prodotto del lavoro. Il tema dell’uso corretto dei nomi rimanda dunque al tema dell’origine del linguaggio e cioè al linguaggio come lavoro. Il linguaggio come lavoro produce parole che sono strumenti di comunicazione, cioè espressioni che servono a nominare le cose e a informare il destinatario su di esse. Platone ci consegna una descrizione strumentale del linguaggio: se è come lavorare, allora parlare è un agire strumentale finalizzato alla comunicazione/informazione sulle cose del mondo. Le cose preesistono al linguaggio e, una volta prodotto, lo strumento linguistico le nomina e le comunica ad altri. È vero che Platone afferma che solamente chi usa lo strumento – e non chi lo costruisce – ne giudica l’efficacia, ma il dato antropologico rilevante consiste nel fatto di fare del linguaggio una poiesis e nel far dipendere finanche il dialettico – il tipo umano più esperto nell’uso dei nomi – dall’artigiano specializzato nella costruzione di parole.
Bianciardi contro La vita agra. C’è un’intuizione dello scrittore Luciano Bianciardi che, come ha notato una volta Paolo Virno, ha «un indubbio valore teorico». Per apprezzarla a pieno bisogna scollegarla dalle conclusioni inoperose e impolitiche de La vita agra, il romanzo che la contiene. A cent’anni dalla nascita dell’autore e a sessant’anni dalla pubblicazione dell’opera, è l’ora della piena leggibilità di Bianciardi come filosofo del lavoro.
«Il fatto è che il contadino appartiene alle attività primarie, e l’operaio alle secondarie. L’uno produce dal nulla, l’altro trasforma una cosa in un’altra. Il metro di valutazione, per l’operaio e per il contadino, è facile, quantitativo: se la fabbrica sforna tanti pezzi all’ora, se il podere rende. Nei nostri mestieri è diverso, non ci sono metri di valutazione quantitativa. Come si misura la bravura di un prete, di un pubblicitario, di un PRM? Costoro né producono dal nulla, né trasformano. Non sono né primari, né secondari. Terziari sono e anzi oserei dire, se il marito della Billa non si oppone, addirittura quartari. Non sono strumenti di produzione, e nemmeno cinghie di trasmissione. Sono lubrificante, al massimo, vaselina pura. Come si può valutare un prete, un pubblicitario, un PRM? Come si fa a calcolare la quantità di fede, di desiderio di acquisto, di simpatia che costoro saranno riusciti a far sorgere? No, non abbiamo altro metro se non la capacità di ciascuno di restare a galla, e di salire più su, insomma di diventare vescovo. In altre parole, a chi scelga una professione terziaria o quartaria occorrono doti e attitudini di tipo politico. […] Nelle professioni terziarie e quartarie, non esistendo alcuna visibile produzione di beni che funga da metro, il criterio sarà quello».
Bianciardi connette il linguaggio al lavoro e ottiene una poiesis piena di qualità e caratteristiche tipiche della praxis, a partire dall’identità tra azione e prodotto. Il suo modello può essere sintetizzato nella formula “lavoro come linguaggio’ in polemica con la ben più nota espressione ‘linguaggio come lavoro” coniata da Ferruccio Rossi-Landi sul finire degli anni Sessanta, ma di matrice ben più antica se ripensiamo al Cratilo di Platone.
Nel capitalismo contemporaneo, per essere professionali e per aver successo occorre imparare a lavorare parlando e a non utilizzare il prodotto finale come unità di misura del lavoro. Il lavoro linguistico è per definizione senza misura, è fondamentalmente lavoro gratuito ed è proprio per questa ragione che gli va riconosciuto un reddito incondizionato. Il divenire linguistico del lavoro ha un che di perturbante (Unheimliche) perché coglie la familiarità nell’estraneità: individua proprio nel linguaggio, cioè nel nemico del lavoro, l’elemento che adesso gli diviene familiare. Delle due l’una: o il disagio si trasforma in solitudine inattiva e cirrosi epatica come accade a Bianciardi, oppure va attraversato dando luogo a esempi di operosità del comune.
Per una quindicina d’anni, prima di essere azzerata dal Ministero degli Interni, Riace è stata una comunità di philoxenoi, animata da uno spirito anti-capitalista e anti-fascista, che ha sospeso alcune norme del diritto e dell’economia dominanti: l’opposizione amico-nemico, la priorità del consumo sulle pratiche d’uso, il nesso vita-lavoro e quello proprietà-profitto. Riace, secondo me, non è separabile da altri esempi di miracolo tuttora in uso: cooperative ma anche centri socio-culturali di produzione e distribuzione di beni e servizi, sindacalismo del lavoro autonomo e precario, associazionismo indipendente e basato sull’autofinanziamento, comitati per la riappropriazione di spazi cittadini.
Venerdì 24 marzo 2023 si svolgerà il primo incontro del seminario “Linguaggio e marxismo. Che cos’è lavorare, che cos’è parlare”. L’incontro si terrà on-line tramite piattaforma Webex (https://unimib.webex.com/meet/vittorio.morfino) ed è organizzato dal “Circolo materialista del linguaggio e del lavoro” (https://circolomaterialista.wordpress.com/), che connette tra Italia e America Latina ricerche in corso su linguaggio, lavoro e marxismo. I promotori sono: Fortunato Maria Cacciatore, Enrique León, Paulo Lévano, Vittorio Morfino, Angelo Nizza, Eduardo Yalán.