DIRITTI

Licenziare la maestra di Torino è legalmente possibile?

Licenziare la maestra di Torino è legalmente possibile?

Continua a far riflettere l’episodio che ha visto come protagonista la giovane maestra di Torino, Lavinia Flavia Cassaro, rea di aver difeso il diritto costituzionale a manifestare liberamente i propri valori antifascisti. Desta sdegno e preoccupazione il violento attacco che “ben pensanti” e istituzioni le stanno riservando. Preoccupazione determinata da echi di un buio passato e dalla volontà di qualcuno di risignificare l’antifascismo, magari in chiave elettorale.

Ciò che stupisce non è tanto l’invocato intervento della magistratura volto ad appurare l’eventuale illecito di “oltraggio a pubblico ufficiale” e neppure le ulteriori accuse del pm di Torino di “istigazione a delinquere” e “minacce”, quanto invece l’incitamento a colpire la maestra nella sua sfera privata, nella sua vita lavorativa.

Ecco quindi che cominciano a echeggiare nella testa quegli anni passati, che qualcuno continua a sostenere “morti e sepolti”, ma che sembrano, invece, essere ancora spaventosamente attuali.

Era il 1931 quando sulla Gazzetta Ufficiale apparve il regio decreto n. 1227 che all’articolo 18 obbligava i docenti universitari a giurare fedeltà “alla Patria e al Regime Fascista”. Solo 12 docenti su 1225 rifiutarono il giuramento, consapevoli che sarebbero incorsi nel licenziamento ma decisi a non tradire l’autonomia della cultura e a non piegare l’intellettualità alla dittatura fascista. Fu un atto di coraggiosa ribellione, che andrebbe ricordato a chi pretende oggi una discutibile integrità morale assoluta dagli insegnanti. Ma qui la fattispecie è tutt’altra.

Anche a seguito di questi accadimenti storici, nel secondo dopoguerra si è avvertita l’esigenza di affermare il principio di diritto dell’irrilevanza dei fatti extralavorativi – ossia posti in essere al di fuori del luogo e dell’orario di lavoro – sulla vita lavorativa. Si pone così una rottura concettuale: il rapporto di dipendenza non comportava più un vincolo che investiva l’intera persona del lavoratore, ma solo le sue prestazioni lavorative. Rottura concettuale formalizzata anche nell’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori, ove «è fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore».

Bisogna rilevare che la Cassazione ha negli anni mutato l’interpretazione di tale principio, passando dall’orientamento più garantista (degli anni ’80 e ’90) della generale irrilevanza dei comportamenti estranei all’ambito contrattuale, a quello (attuale) della sanzionabilità dei medesimi da parte del datore di lavoro quando idonei a incidere sull’elemento fiduciario a base del rapporto lavorativo.

Quest’ultimo orientamento implica che ogni comportamento extralavorativo può dare avvio a un procedimento disciplinare?

Ovviamente no, principalmente per due ordini ragioni specificate dalla stessa Corte Suprema. Anzitutto la valutazione della lesione dell’elemento fiduciario non va condotta con riferimento all’evento astrattamente considerato, altrimenti si riduce a un giudizio di valore sulla rettitudine e sulla moralità della persona del lavoratore. Deve invece essere effettuata guardando alle circostanze concrete attinenti alla natura del singolo rapporto, al grado di affidamento richiesto per l’espletamento delle mansioni e alla portata soggettiva del fatto stesso. In altre parole, il vincolo fiduciario si può ritenere compromesso solo quando la condotta del lavoratore mini la fiducia nell’esattezza dei successivi adempimenti contrattuali da parte del medesimo; in secondo luogo, la giurisprudenza di legittimità ha posto un principio, che potremmo definire di chiusura, in base al quale la sanzionabilità in sede disciplinare è comunque da escludersi quando il comportamento del prestatore si estrinsechi in atti che siano espressione della libertà di pensiero, in quanto la tutela dei valori costituzionalmente garantiti (art. 21 Cost.) non può essere recessiva rispetto ai diritti-doveri connaturati al rapporto di lavoro (si veda la Sent. Cass.16/2/2011, n. 3822). Insomma, la libertà costituzionale di pensiero e parola predomina su ogni altro aspetto.

Si tenga poi conto che il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, di cui è accusata la maestra antifascista, è una fattispecie legata a una concezione di privilegio attribuita agli organi investiti di pubbliche funzioni che sussisteva all’epoca dell’emanazione del Codice Rocco. Una concezione non in linea con l’attuale prospettiva del modello costituzionale di reato, la quale considera meritevoli di protezione penale solamente i valori espressi dalla Carta fondamentale. Non a caso tale figura delittuosa era stata abrogata nel 1999 e, sempre non a caso, la dottrina continua a esprimere dubbi circa la compatibilità costituzionale della rediviva fattispecie del 2009.

Quindi, già da una valutazione di carattere astratto, risulta assolutamente sproporzionato ed eccessivo qualsivoglia provvedimento disciplinare inflitto nei confronti di una persona che scenda in piazza per esercitare il suo diritto costituzionale a manifestare a difesa dei valori democratici e, se del caso, contro chi questo attacco legittima. Allo stesso giudizio di incongruità si giunge anche passando da una valutazione del caso concreto, dato che quello della maestra di Torino nient’altro è che uno sfogo verbale compiuto – in una situazione di evidente esasperazione – al di fuori delle mura scolastiche e che non incide sulla sua idoneità a insegnare.

Nonostante ciò, prosegue la criminalizzazione di Lavinia Flavia Cassaro e i “ben pensanti” insistono nel chiedere di porre fine al suo – precario – percorso lavorativo. Come si spiega tale paradosso? Sono due le risposte che mi vengono in mente. Da una parte, l’attuale campagna elettorale che si sta caratterizzando per una corsa all’equidistanza fra fascismo e antifascismo; dall’altra, l’attuale mercato del lavoro ove soffia ancora il vento fordista: l’imprenditore Henry Ford, razzista e antisemita, pretendeva che gli operai e le loro famiglie avessero una condotta irreprensibile anche fuori dalla fabbrica (ne licenziò a centinaia per aver festeggiato il Natale). Come in epoca taylorista/fordista, si vuole oggi plasmare un prototipo di lavoratore moralmente integerrimo e asservito al processo produttivo. Come ha evidenziato Gramsci, per realizzare tale modello è necessario intervenire sull’assetto sociale, modificandolo, invertendo i valori civici e morali e, se necessario, forzando la realtà.

Per concludere, nel gesto “eretico” della maestra di Torino rivedo quell’indole ribelle dei 12 docenti che non giurarono fedeltà alla dittatura fascista. Come loro, Lavinia Flavia ha deciso di non avere paura, di non essere silente, di non svendere la propria dignità personale di antifascista. Di resistere.

Un insegnamento che non va dimenticato.