ITALIA
Libera fame. Le cento giornate di Alfredo Cospito
Quasi 100 giorni di sciopero della fame di Alfredo Cospito non hanno fermato la sua lotta contro il 41 bis. Una protesta che riceve la solidarietà di presidi in tutta Europa, ma continua a trovare un muro da parte delle istituzioni italiane, mentre le condizioni di Cospito peggiorano progressivamente
A leggere le sentenze che lo riguardano, Alfredo Cospito pare un incrocio tra Bakunin e Al Capone. Un nemico dello Stato, un pericolo pubblico. L’uomo che per i giudici sarebbe «il capo degli anarchici», 55 anni, pluricondannato, detenuto al 41 bis del carcere di Sassari, è in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso e sabato 28 gennaio fanno cento giorni esatti.
In questo intervallo di tempo, Cospito ha perso oltre 40 kg, la dottoressa che lo tiene sotto osservazione in cella, Angelica Milia, lo descrive in condizioni buone e aggiunge, con una bella dose di understatement, «tutto sommato». Perché, al netto di un po’ d’acqua, integratori e qualche cucchiaino di miele per tenere su gli zuccheri e non andare giù di testa, non mangiare niente da così tanto tempo sballa molti valori, il tono muscolare si indebolisce, ogni giorno alzarsi dal letto diventa un po’ più difficile. E, sostiene Milia, «la situazione può precipitare in qualsiasi momento».
Ma «tutto sommato» Cospito regge: lo hanno visitato il garante dei detenuti Mauro Palma, una delegazione del Partito Democratico (ricevuta dall’anarchico solo dopo aver visitato tutta la struttura e aver interloquito con tutti gli altri detenuti), il suo avvocato Flavio Rossi Albertini.
E lui, a chiunque, ribadisce di non avere alcuna intenzione di mollare finché non gli verrà revocato il 41 bis. Non accetterà trattamenti sanitari di alcun genere: «Dovranno legarmi al letto», ha scritto in un messaggio al suo legale.
A maggio l’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia ha firmato per lui il documento che lo costringe al carcere duro. Durata: quattro anni. Nella storia giudiziaria italiana, questo regime speciale sin qui non era mai stato assegnato a chi non ha mai commesso o organizzato nemmeno un omicidio: le migliaia di persone che ci sono passate (750 al momento gli «ospiti») sono tutte legate alle mafie o al terrorismo, come i militanti delle cosiddette Nuove Brigate Rosse, attive tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni zero.
La motivazione alla base del provvedimento è che, dal carcere, l’anarchico continuava a scrivere lettere ai compagni e articoli sui loro fogli di controinformazione, un comportamento equiparato a quello dei boss mafiosi che da dietro le sbarre continuano a dettare legge fuori. Nel nostro caso, la pericolosa organizzazione terroristica sarebbe la Federazione Anarchica Informale, sigla che ha rivendicato varie azioni negli ultimi vent’anni ma che in nessuna sentenza viene mai riconosciuta come struttura davvero coordinata e, appunto, formalmente riconoscibile.
La teoria è quella del filosofo insurrezionalista Alfredo Bonanno, poi sviluppata anche nel classico «Recipes for disaster» del collettivo statunitense CrimethInc: portare la guerra allo Stato e al capitale attraverso l’azione diretta condotta da «gruppi d’affinità», ovvero sodalizi non gerarchici né burocratici tra persone che condividono uno stesso obiettivo ma che possono anche non conoscersi tra loro. È del tutto evidente che una cosa così non si sposa con la definizione di reato associativo come codificata nel diritto penale italiano.
Cospito ha sulle spalle una condanna già scontata a 9 anni e 5 mesi per aver sparato alle gambe all’ad di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi – era il 2012 – e a vent’anni per aver messo nel 2006 due bombe carta davanti alla caserma per allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo. Zero morti e zero feriti, solo un grande botto notturno, mentre in strada non c’era nessuno. Inizialmente condannato a vent’anni per strage comune, la Cassazione ha rimandato gli atti alla Corte d’Appello di Torino con la richiesta di riqualificare il reato in devastazione, saccheggio e strage con richiesta di condanna all’ergastolo e dodici mesi di isolamento diurno. Il processo è ancora in corso.
Per la cronaca e per la storia, l’articolo 285 del codice penale è un reato rarissimo e che, almeno dalla fine del fascismo, sin qui si è manifestato solo in una sentenza di Cassazione per l’attentato al Rapido 904 del 23 dicembre 1984: 16 morti e 267 feriti. Dopo un lunghissimo iter processuale, i giudici conclusero che quel fatto era da legare a una più ampia strategia politico-mafiosa volta a destabilizzare la Repubblica.
E basta: per Piazza Fontana non si è arrivati a tanto. E nemmeno per la stazione di Bologna o per piazza della Loggia, per Capaci, per via D’Amelio. Il da poco arrestato Matteo Messina Denaro – che di sé in un pizzino diceva di aver ucciso abbastanza gente «da poterci fare un cimitero» –, tra tutti gli ergastoli accumulati, non ne ha nemmeno uno per «strage contro lo Stato».
Per quanto assurdo possa sembrare, a livello processuale, Cospito viene considerato un pericolo più grande. La battaglia legale, a ogni buon conto, è intensa: il suo avvocato aspetta un pronunciamento della Corte Costituzionale per capire se davvero due ordigni piazzati di notte e che non hanno causato vittime possano portare a un ergastolo. Tecnicamente lo scontro è tra la recidiva reiterata specifica (Cospito di bombe carta ne ha messe parecchie) e l’attenuante della lieve entità del fatto: l’una cosa esclude l’altra e la Consulta dovrà dire quale delle due prevale a livello di gerarchia normativa. Dovessero spuntarla le tesi della difesa, l’ergastolo diventerebbe una pena compresa tra i 20 e i 24 anni.
La lotta di Cospito, comunque, riguarda le sue condizioni di carcerato più che l’entità delle condanne che lo riguardano. Nelle rare occasioni in cui ha potuto parlare liberamente, come quando ha reso alcune dichiarazioni spontanee in un’udienza dello scorso dicembre, il punto era sempre lo stesso: «Non ci sto e non mi arrendo. Continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro, per far conoscere al mondo questi due abomini repressivi».
Il dettaglio politicamente rilevante, in tutto questo, è che finché Cospito ha potuto continuare a scrivere e a mandare i suoi pensieri fuori dal carcere non se lo filava quasi nessuno, mentre, adesso che è obbligato a tacere, il suo nome è sulla bocca di tutti. Militante anarchico da oltre trent’anni – la sua prima condanna, a scorrere le cronache, è del 1991 –, soltanto negli ultimi mesi è diventato un caso. Era dai tempi di Valpreda – ingiustamente incarcerato per la strage della Banca dell’Agricoltura di Milano del 12 dicembre 1969 – che un anarchico non riusciva a smuovere così tanto al di là del ristretto recinto dei suoi compagni.
Infatti, mentre si moltiplicano le manifestazioni in tutta l’Europa e i muri delle città si riempiono di scritte in suo sostegno, «il caso Cospito» è diventato un affare umanitario. Attivisti per i diritti umani e personaggi assolutamente inseriti all’interno delle logiche e delle pratiche democratiche guardano a questa vicenda come una grave lesione per lo stato di diritto e non smettono di farlo notare. E quindi abbiamo lunghe interviste, appelli firmati da insigni costituzionalisti e magistrati, il consiglio comunale di Torino che approva una mozione con cui si chiede di togliergli il 41 bis, incontri pubblici, assemblee, paginate di giornali, mozioni parlamentari.
Perché, ormai è evidente, la storia non è solo quella di un uomo ritenuto colpevole di vari reati, ma il trattamento assolutamente sproporzionato che lo Stato gli sta riservando.
Sin qui, chi potrebbe fare qualcosa di concreto per lui, però, finge di non ascoltare. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio – inspiegabilmente considerato dai più un alfiere del garantismo – nicchia davanti a ogni richiesta, sia del Parlamento (Peppe De Cristofaro di Sinistra Italiana gli ha sottoposto due interrogazioni) sia della difesa di Cospito, che procede a colpi di istanze e procedimenti formali.
Inoltre, nella lunga sequela di assurdità che accompagna il tutto, pochi giorni fa l’amministrazione penitenziaria di Sassari ha diffidato la dottoressa di Cospito dal rilasciare interviste a Radio Onda d’Urto, dalla quale veniva periodicamente intervistata e raccontava le condizioni cliniche del detenuto. Motivo: «Non vanificare le finalità del regime del 41 bis». In buona sostanza, siamo in presenza di una testata giornalistica, peraltro regolarmente registrata, che viene considerata alla pari di una cosca mafiosa.
Si attende, sempre sul 41 bis, un pronunciamento della Cassazione, ma i tempi saranno lunghi e la corsa contro il tempo è veloce, perché i giorni di sciopero della fame continuano a passare e la cifra raggiunta comincia a essere considerevole. Tanto per fare un esempio molto noto: Bobby Sands morì dopo 66 giorni di digiuno.
«Vogliono un martire», conclude l’avvocato Rossi Albertini. «Tra cento anni i posteri si ricorderanno di Alfredo Cospito e non dei suoi persecutori».
Immagine da pagina facebook Lea Berta Caceres