approfondimenti
EUROPA
L’Europa vista da Lesbo
Mentre cambiano rapidamente le politiche di accoglienza, in Grecia la situazione rimane la stessa e la vita di chi arriva sulle isole dell’Egeo continua a essere insostenibile. L’Europa dimostra come la “crisi dei rifugiati” non fosse altro che una “crisi dell’accoglienza” dovuta alla volontà politica
Osservare dalla prospettiva di Lesbo le politiche di accoglienza che la maggior parte dei paesi dell’Unione Europea stanno mettendo in campo di fronte alla crisi ucraina produce sensazioni ambivalenti. La gioia del vedere un’Europa apparentemente accogliente e solidale sfuma presto nella consapevolezza che questa accoglienza sia riservata esclusivamente a coloro che hanno la cittadinanza ucraina e diventa rabbia pensando ad anni di porti chiusi, respingimenti violenti, detenzioni arbitrarie, burocrazie e attese infinite, morte. Tutto ciò, dimenticato dai media nostrani, continua a succedere in questo angolo di Europa a una quindicina di chilometri dalle coste turche.
Dopo sette anni dall’inizio della cosiddetta “crisi dei rifugiati”, ciò che succede di fronte all’esodo ucraino ci dà la conferma che quella non fosse altro che una “crisi dell’accoglienza”.
Se c’è la volontà politica, in pochi giorni si possono accogliere centinaia di migliaia di persone, dimenticare il regolamento di Dublino, fornire permessi di soggiorno e aiuti economici senza passare per le infinite maglie della burocrazia, ma soprattutto si possono lasciare le persone libere di circolare e decidere dove andare per trovare amici, parenti, un supporto per realizzare i propri progetti di vita. Se ci fosse stata la volontà politica, tutto ciò sarebbe potuto accadere anche per coloro che sono arrivatə in Europa negli anni scorsi e per chi continua a mettersi in viaggio in cerca di vite migliori, attraversando l’Egeo o il Mediterraneo Centrale.
Tutto ciò non è accaduto e continua a non accadere per le quasi duemila persone – soprattutto afghane e somale, ma provenienti anche da Siria, Pakistan, Palestina, Kurdistan e da vari paesi dell’Africa subsahariana – che vivono nel campo per richiedenti asilo alle porte di Mitilene, capoluogo dell’isola di Lesbo.
Moria dopo Moria
L’8 settembre 2020 un enorme incendio ha distrutto il tristemente famoso campo di Moria; dopo giorni in cui le persone hanno vissuto per strada, le autorità greche hanno aperto un nuovo campo “temporaneo” nella periferia a nord di Mitilene, nell’area dove precedentemente sorgeva un poligono militare. Dopo un anno e mezzo il campo è ancora lì, a ridosso del mare, in un’area costantemente esposta al vento e agli agenti atmosferici. Appena due settimane fa a Lesbo c’erano 3°C. Qualche giorno prima aveva addirittura nevicato. Alcunə lo hanno definito Moria 2.0 per evidenziare come le condizioni di vita all’interno continuino a essere pessime.
Per i maschi single la sistemazione è prevista in grandi tendoni bianchi di plastica. Una volontaria che lavora all’interno del campo mi racconta che «per loro non c’è nessuna privacy. Dentro le tende c’è un corridoio centrale e ai lati queste camerate dove vivono assieme sei persone».
Per le famiglie, invece, la sistemazione avviene all’interno di container: «Le condizioni di vita qui sono un minimo più dignitose, ma le famiglie poco numerose spesso devono condividere lo stesso alloggio». Anche i soggetti considerati vulnerabili vivono all’interno di questo stesso campo, dopo che nell’aprile 2021 è stato chiuso “Kara Tepe”, il campo a loro destinato, che sorgeva a poche centinaia di metri da quello attuale. Come denunciato da MSF, la chiusura di questo luogo è gravissima, visto che era considerato «uno dei pochi posti che garantivano sicurezza e dignità». Probabilmente proprio per questo è stato chiuso.
L’ingresso del nuovo campo è costantemente controllato da agenti della polizia, che perquisiscono con il metal detector tutte le persone che fanno rientro nella struttura e controllano il tesserino rosso che attesta lo status di richiedente asilo, che per qualche strano motivo viene chiamato in tedesco ausweis. «Almeno ora si può uscire dal lunedì al venerdì fra le 8 e le 20», mi racconta un ragazzo afghano che da due anni e mezzo è in attesa della risposta alla sua domanda di asilo. «Fino a qualche settimana fa le persone venivano lasciate uscire solo due giorni a settimana e a lungo non è stato possibile lasciare il campo a causa delle restrizioni legate alla pandemia. Poi, ancora oggi, capita che qualche guardia all’uscita senza motivazione ti vieti di uscire… Non si può mai sapere».
Coloro che hanno vissuto a Moria dicono che, nonostante tutto, qui è meglio; anche se i servizi sono totalmente inadeguati e non c’è nemmeno abbastanza corrente elettrica per alimentare contemporaneamente tutto il campo, nulla è paragonabile a Moria.
«Nel momento di massima capienza c’erano più di 25mila persone che ci vivevano», mi racconta un altro amico afghano che attende da cinque anni l’esito della sua pratica d’asilo. «Era un posto molto pericoloso, ogni giorno c’erano scontri e risse. Tutte le settimane moriva qualcuno a Moria. In molti giravano col coltello… Erano delle spade più che dei coltelli… Io per un periodo sono stato recluso nel centro di detenzione amministrativa che stava all’interno del campo. Era peggio di un carcere, stavamo a decine chiusi in una stanza per 23 ore al giorno, con mezz’ora d’aria al mattino e un’altra mezza al pomeriggio». Vedendo ciò che rimane oggi del vecchio campo è difficile immaginarsi quanto si estendesse sulle colline prima dell’incendio e dell’evacuazione. Rimangono macerie, capannoni sventrati, alberi anneriti, bagni vandalizzati, cumuli di spazzatura e filo spinato. Un paesaggio spettrale che evoca immediatamente le pagine più buie della storia europea del secolo scorso. Solo una parte del campo è ancora in piedi, circondata da un doppio muro di cinta, reti alte una decina di metri sovrastate da filo spinato a rasoio e un’infinità di telecamere a puntellarne il perimetro.
Il nuovo campo, in cantiere da ormai un anno e mezzo, probabilmente avrebbe questo stesso aspetto: sul modello di quello di Samos, sarebbe molto più simile a un carcere che a una struttura d’accoglienza per rifugiati. Un luogo iper-controllato e militarizzato, che dovrebbe sorgere in una zona remota dell’isola, lontano da qualsiasi centro abitato, ma in compenso nei pressi di una discarica.
I lavori non sono ancora partiti perché, come mi racconta una ricercatrice dell’Osservatorio per i rifugiati, ci sono conflitti fra istituzioni locali e governo nazionale, ma soprattutto perché nessuno sull’isola lo vuole.
Paradossalmente, sia da destra che da sinistra, con motivazioni opposte, il motto è lo stesso: «Non vogliamo che la nostra isola sia trasformata in un centro di detenzione». Lo scorso 8 febbraio un grande corteo ha invaso l’area dove dovrebbe sorgere il campo, c’è stata tensione e la polizia ha arrestato quattro persone. Inoltre, sia associazioni umanitarie che esperti forestali denunciano che la zona è ad alto rischio di incendi e sarebbe molto difficile da evacuare, visto che è raggiungibile attraverso una sola strada carrabile.
Respingimenti illegali e repressione
Dalle alture di Mitilene, nelle giornate terse, le case bianche sull’altra sponda dell’Egeo sembrano raggiungibili a nuoto, tanto sono vicine. Ogni giorno centinaia di persone provano ad attraversare questo stretto braccio di mare e vengono respinte dalla Guardia Costiera greca o bloccate da quella turca. Il primo marzo scorso sette corpi senza vita sono stati ritrovati sulla spiaggia di Epano Skala, ennesime vittime del regime di frontiera europeo.
La ONG Aegean Boat Report prova a tenere traccia di tutti i respingimenti e fornisce report settimanali sui numeri delle persone sbarcate; secondo i dati diffusi a fine marzo, dall’inizio del 2022 sono state fermate 240 imbarcazioni, per un totale di oltre 7400 persone riportate in Turchia. La stessa ONG ha documentato con prove audio e video innumerevoli casi di respingimenti illegali avvenuti dopo che le persone avevano già raggiunto le isole greche. Invece che essere accompagnate nei centri di accoglienza per iniziare la loro pratica d’asilo, lə migranti vengono prelevatə – spesso con la forza – e rimessə in mare, dove vengono abbandonatə su scialuppe di salvataggio oppure riconsegnatə alla guardia costiera turca.
Nonostante l’ampia documentazione raccolta da varie organizzazioni umanitarie e da testate giornalistiche internazionali come “Der Spiegel”, la Grecia pochi giorni fa si è autoassolta dall’accusa di effettuare respingimenti illegittimi: l’Autorità Nazionale greca per la Trasparenza si è espressa negando la consistenza delle prove fornite.
Le imbarcazioni della Guardia Costiera sono una presenza costante nel porto di Mitilene, proprio davanti alla centralissima Sappho Square; negli ultimi giorni fra di esse è presente anche una motovedetta della Guardia di Finanza italiana, probabilmente coinvolta nelle operazioni di Frontex, come già avvenuto in passato. Il 16 marzo scorso, il fotografo norvegese Knut Bry è stato arrestato con l’accusa di spionaggio per aver fotografato il porto, immortalando alcune di queste motovedette, che sembrano in tutto e per tutto piccole navi da guerra.
Il successivo processo per direttissima ha assolto Knut da tutte le accuse, ma questa vicenda parla chiaramente del clima di intimidazione nei confronti di chi vuole testimoniare cosa accade sull’isola e si adopera nella solidarietà attiva. Il suo non è infatti un caso isolato: a quanto mi spiega la stessa ricercatrice dell’Osservatorio, le isole dell’Egeo sono considerate zona di frontiera e rispondono a una particolare legislazione che permette ampia discrezionalità alle forze dell’ordine.
La repressione è però ancora più feroce nei confronti delle persone in viaggio: il prossimo 7 aprile riprenderà il processo di appello ad Amir e Razuli, due giovani afghani condannati in primo grado a 50 anni di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e naufragio. I due ragazzi hanno testimoniato che la barca su cui erano è stata attaccata dalla guardia costiera greca non appena entrata nelle acque territoriali elleniche, nel tentativo di respingerla in acque turche. Secondo la loro testimonianza, così facendo, i militari greci hanno perforato la barca con dei pali metallici, mettendo a rischio la vita delle persone a bordo. In seguito, la guardia costiera avrebbe picchiato pesantemente Amir e Razuli, accusandoli arbitrariamente di essere smugglers e mettendoli in arresto non appena sbarcati a Lesbo.
Attesa e sfruttamento
Qualche giorno fa, nel community centre dove faccio il volontario sono arrivatə decine di somali: al campo si era diffusa la voce che avessimo un avvocato in grado di fargli ottenere i documenti. Purtroppo, era una fake news, mentre invece la dura realtà parla di centinaia di persone che ricevono esito negativo alla loro domanda di protezione internazionale. La procedura d’asilo sull’isola è una vera e propria corsa a ostacoli: prima di poter iniziare la loro pratica le persone devono affrontare un colloquio per dimostrare che la Turchia per loro non è uno stato sicuro, altrimenti rischiano la deportazione. Questo avviene sulla base degli accordi fra Grecia e Turchia del 2016 e della decisione adottata dal governo greco nel giugno 2021 che designa la Turchia come “paese terzo sicuro” per i richiedenti provenienti da Siria, Afghanistan, Somalia, Bangladesh e Pakistan. Superato questo primo filtro, inizia la vera e propria pratica d’asilo, che può durare anni e spesso si conclude con un diniego. «Questo è il limbo d’Europa», mi dice un volontario italiano che frequenta il community centre.
«In questo momento, dopo che i Talebani hanno preso il potere, le persone che arrivano dall’Afghanistan stanno ottenendo risposte positive», mi racconta un ragazzo che ha ottenuto l’asilo dopo aver aspettato qui dal 2017, «ma per tutti gli altri è una lotteria».
Nei fatti il sistema d’asilo è una grande macchina di illegalizzazione, messa in attesa delle persone ed estrazione di valore dai loro corpi.
L’economia di confine non si fonda solo sull’enorme volume di denaro destinato all’industria della sicurezza e del controllo, ma anche su quella alimentata dalle organizzazioni umanitarie che portano ogni anno centinaia di volontariə a vivere sull’isola nel tentativo di mitigare il regime di frontiera e sul feroce sfruttamento lavorativo delle persone che vivono nel campo. «Mentre vivi nel campo ricevi 75 euro al mese, prima erano 90, ma ora i fondi sono stati ridotti», mi racconta lo stesso ragazzo afghano. «Con quei soldi non ci puoi fare niente. Per la legge greca, i richiedenti asilo non possono lavorare e allora, se vuoi guadagnare qualche soldo, puoi farlo solo in maniera irregolare. Io per quattro mesi ho raccolto patate, lavoravo tutto il giorno e prendevo 25 euro al giorno. Quando lavoravo negli uliveti la paga era di 30 euro al giorno e anche lì il lavoro era molto pesante».
Aggiunge: «Dopo che ho ottenuto la risposta positiva della commissione ho dovuto spendere 100 euro per avere i documenti di viaggio. Prima non facevano pagare tutti questi soldi, ma non si sapeva dopo quanti mesi te li avrebbero dati. Adesso nel giro di un mese o due ti danno il passaporto e puoi ripartire. Dopo cinque anni su quest’isola però non so che fare. Qui non ho futuro, ma mi sembra che la situazione non sia diversa nel resto d’Europa. Subito sarei voluto andare in Svizzera, ma so che da lì rischio di essere rimandato indietro. Quasi tutti vogliono andare in Germania, ma il tedesco è difficile. Forse andrò in Irlanda, non lo so più dove voglio andare».
Vista da Lesbo l’Europa purtroppo non è cambiata. Le sue frontiere continuano a produrre morte ed esclusione. I suoi campi continuano non solo a negare la libertà di movimento, ma anche le condizioni minime per vite dignitose, mentre assolvono pienamente la loro funzione di disciplinamento e reclutamento di manodopera a basso costo altamente ricattabile, diventando ingranaggi fondanti il sistema capitalistico contemporaneo.
Quest’Europa, che sui media mostra di aprire le sue porte alle persone in fuga dalla guerra ucraina, lontano dai riflettori continua a essere razzista e violenta, fondando sulla bianchezza la sua falsa retorica di empatia e accoglienza.
Tutte le immagini di Luca Daminelli