OPINIONI
L’estremismo del moderato. Una risposta a Federico Rampini
Abbiamo appreso giorni fa dalla celebre penna del giornale “La Repubblica”, che negli Stati Uniti sarebbe in corso uno scontro tra «opposti estremismi». Eppure di estremistico in questo caso, c’è solo il moralismo provinciale del giornalismo liberal italiano
Mentre negli ultimi giorni gli schermi dei telefoni e le pagine dei giornali continuano a essere occupate dalle immagini della sollevazione antirazzista statunitense e della durissima repressione, dalla lettura di un articolo di Federico Rampini apparso su “Repubblica” e datato 30 agosto 2020 apprendiamo che sull’altra sponda dell’Atlantico sarebbe in atto uno scontro tra «opposti estremismi». L’estate, si sa, rende benevoli: inizialmente, abbiamo creduto che si trattasse di un vero e proprio abbaglio, dovuto a un colpo di sole. Abbiamo poi pensato di aver a che fare con la maldestra proiezione di un tic linguistico del giornalismo italiano sulla situazione americana, alla quale sarebbero seguite un’abiura e delle scuse pubbliche. Passata ormai una settimana, non possiamo che prendere atto di un’interpretazione degli eventi statunitensi consapevole e ragionata, nonché veicolata dalla redazione di uno dei più importanti quotidiani italiani.
Le oceaniche manifestazioni contro la violenza della polizia, l’esplosione di sommosse nelle principali città, l’imposizione del coprifuoco, la retorica bellica e anticostituzionale dall’amministrazione Trump e l’intervento omicida delle milizie di destra: tutto ciò viene sintetizzato dal corrispondente di «Repubblica» come «un crescendo di scontri tra due fazioni», una «tragica contabilità» dei morti «che ricorda stagioni lontane», alla quale «la maggioranza degli americani assiste sbigottita e sgomenta». L’era lontana evocata da Rampini sono gli anni Sessanta: gli anni del movimento per i diritti civili, del Civil Rights Act e delle mobilitazioni contro la guerra in Vietnam. Indiscutibilmente uno dei periodi di maggiore avanzamento per la società americana, conquistato attraverso lotte determinate e durevoli, ma anche una fase di estrema polarizzazione sociale, sfruttata da Nixon e dal Partito repubblicano per ristabilire law and order nel paese. Per Rampini, però, sono soprattutto gli anni in cui Malcom X e le Black Panthers «spaccarono l’unità della battaglia per i diritti civili», proprio come oggi, a suo dire, fanno gli «ultrà di Black Lives Matter». Personaggi senza nome e senza volto, che lasciano campo libero a «bande di predoni» e «gang criminali», che imperversano nelle città, spaventando commercianti e piccoli proprietari. Tra questi ultimi, secondo l’attento osservatore, ci sarebbe un pezzo di elettorato che Joe Biden dovrebbe tenere saldo in vista delle elezioni di novembre, rispondendo senza ambiguità alla «violenza» degli «opposti estremismi».
In realtà, non sorprende – soprattutto sotto la nuova direzione di Molinari, noto per il suo inossidabile atlantismo – che una delle maggiori voci di «Repubblica» sia più preoccupata dall’acuirsi del conflitto sociale che dalla continuità del razzismo istituzionale negli Stati Uniti.
Fin dall’inizio delle proteste, infatti, il principale giornale liberal italiano ha affrontato la questione in maniera ambigua, per non dire volatile e opportunistica. Da una parte, non ha potuto evitare di dare visibilità – anche se spesso con toni sensazionalistici – alle manifestazioni alle quali ha partecipato una larga fetta degli statunitensi, razzializzati e non. Dall’altra, non è mancata una stigmatizzazione sistematica della violenza durante le proteste. In questo senso, vale la pena citare la cronaca redatta da Roberto Saviano in un articolo del 2 giugno: un illustre esempio di semplificazione moralistica e manicheismo a buon mercato. Secondo lo scrittore, i veri «indignati» per le violenze poliziesche (i manifestanti pacifici? gli osservatori internazionali? i giornalisti stranieri?) non possono che «vedere nei saccheggi un regalo a Trump e una delegittimazione delle ragioni politiche e sociali della protesta». Cedant arma togae! Tanto basta a un “intellettuale progressista” per mettere in discussione la legittimità delle lotte per l’emancipazione.
Alla luce di tali autorevoli interventi, sorgono spontanee alcune domande in merito alla linea redazionale di «Repubblica». Cosa si invoca come soluzione di fronte al baratro dello scontro razziale? Si chiede ai Democratici di assumere pienamente le parole d’ordine di «legge e ordine»? Si domanda dall’amministrazione Trump un intervento repressivo più mirato, contro “estremisti”, “Antifa” e “anarchici”? O si invitano forse i media progressisti, come sembra fare Rampini, a mettere in risalto le violenze “di sinistra” oltre alle brutalità dei suprematisti? Forse tutte e quattro le operazioni insieme, e pure qualcosa di più. Sicuramente si pretende che i manifestanti siano divisi in buoni e cattivi, lasciando invece da parte il cleavage tra oppressi e oppressori. Senza dubbio viene meno il sostegno a un movimento di massa che, da ormai quattro mesi, ha attaccato le forme di oppressione razziale che ancora innervano le istituzioni, l’economia e la società della prima potenza mondiale. Un movimento che ha messo in crisi la presidenza Trump molto più di quanto non siano riusciti a fare, in quattro anni, gli editoriali e la propaganda dei moderati che rifuggono gli «opposti estremismi».
Per quanto possa dispiacere a Rampini, le vicende degli ultimi mesi dimostrano che, ben lungi dall’essere giunta alla “fine della storia”, la società statunitense, come molte altre, è attraversata da esplosioni radicali di conflitto sociale.
Lo slogan «no justice, no peace» dà conto di questa tensione, ed è condiviso dalla maggioranza di chi prende parte al movimento antirazzista. Da parte nostra, ci limitiamo a notare che esso è assunto pienamente ben oltre gli Stati Uniti, e che viene messo produttivamente in atto in contesti variegati, anche europei, come nel caso della battaglia condotta dal Comité Adama nella vicinissima Francia. Chi sceglie di non schierarsi in maniera netta, chi teme la polarizzazione sociale più di ogni altra cosa, chi condanna moralisticamente le violenze, è convinto – nella migliore delle ipotesi – di assumere un punto di vista oggettivo e distaccato, e ha la presunzione di interpretare tanto i sentimenti della “maggioranza silenziosa” bianca impaurita dal disordine, quanto i veri bisogni della popolazione nera messa in pericolo dalla radicalizzazione della protesta. Nella peggiore delle ipotesi, la paura che lo scontro sociale fornisca un’arma elettorale a Trump lo conduce a legittimare la conservazione dello stato di cose presenti, fornendo una sponda alla repressione più brutale e sostenendo la torsione autoritaria del law and order. Nella condanna delle novelle Black Panthers egli vorrebbe assomigliare a Martin Luther King, ma ricorda piuttosto il «white moderate» che lo stesso reverendo considerava un individuo «più devoto all’ordine che alla giustizia», «che dice sempre: “Sono d’accordo con i vostri obiettivi ma non posso essere d’accordo con i vostri metodi”; che crede, nel suo paternalismo, di poter essere lui a determinare le scadenze della libertà di un altro».
Quanto a noi, siamo persuasi del fatto che, anche su questa sponda dell’Atlantico, la sollevazione antirazzista americana susciti già interesse e entusiasmo, e costituisca un riferimento importante per le lotte sociali in Europa e in Italia. Non abbiamo bisogno di leggere «Repubblica», né tantomeno altri quotidiani di proprietà dell’oligopolio dell’informazione italiana, per sviluppare riflessioni e discutere criticamente del presente.
Riteniamo tuttavia che una lettura distorta di ciò che capita oltreoceano risulti funzionale alla delegittimazione dei conflitti sociali, qualora assumano forme incompatibili con la buona coscienza armonizzante dei “ceti medi riflessivi” e pericolose per l’ordine costituito. Ma con ciò stiamo forse sovrastimando un ceto giornalistico che, negli ultimi anni, ci ha abituato a incompetenza, superficialità e grossolanità, tanto peggiori perché pervase dal moralismo più provinciale. Una cappa che ha pesato, pesa e peserà sul discorso pubblico e sulla vita sociale italiana, le cui banalizzazioni e falsità, in questo caso, parlano sì la lingua dell’estremismo: l’estremismo dei moderati.