MONDO
Quando l’esercito è lo stupratore: militari violentano dodicenne indigena in Colombia
Organizzazioni di donne indigene e reti femministe denunciano l’abominevole crimine avvenuto a fine giugno nel municipio Pueblo Rico del dipartimento di Risaralda: il sequestro e lo stupro commesso da sette soldati nei confronti di una dodicenne indígena Embera
Il sequestro e lo stupro di una dodicenne indígena del popolo Embera compiuto da sette militari dell’esercito colombiano nel dipartimento di Risaralda, dove si trova la comunità indigena Menduará, nel territorio del Resguardo Gito Dokabú, ha scosso a fine giugno la Colombia, nel pieno dell’avanzata della pandemia e della crisi socio-sanitaria in corso nel paese.
La militarizzazione del paese, con la presenza di nuovi contingenti statunitensi che con la scusa della lotta al narcotraffico e la pressione internazionale contro il Venezuela stanno accompagnando i dispiegamenti militari in corso in diversi territori, avanza di pari passo con la violenza crescente che in piena quarantena ha portato all’aumento degli omicidi dei leader sociali, tra gli aspetti più drammatici della situazione che si vive in Colombia dopo la firma degli accordi di pace firmati a L’Avana nel 2016. Nei teritori indigeni del Cauca nelle ultime settimane vi sono stati diversi massacri contro leader indigeni, afrodiscendenti e contadini, uccisi dai paramilitari e altri gruppi armati dopo essere stati minacciati e perseguitati, e diversi casi di villaggi e comunità sfollate dalla violenza del conflitto armato.
I tremendi fatti di Risaralda avvengono quindi in un contesto di gravissime violazioni dei diritti umani: in un appello pubblicato da Revista Amazonas pochi giorni dopo i fatti, diverse donne indigene, attiviste sociali e organizzazioni femministe denunciano come «ancora una volta sia stata messa a rischio la vita, la dignità e l’integrità delle donne indigene: per questo siamo solidali con la bambina, con la sua famiglia e il suo popolo, e alziamo la voce per esigere giustizia».
L’esercito ha riconosciuto che i responsabili del sequestro e dello stupro della dodicenne indigena siano sette soldati appartenenti al Comando dell’Ottava Brigata della Quinta Divisione, inviati nel territorio per operazioni di controllo e prevenzione della pandemia.
I sette soldati incriminati per lo stupro hanno inoltre dichiarato che la dodicenne fosse consenziente, fatto che ha scatenato l’indignazione di tante organizzazioni, donne e uomini nel paese. Le autorità Embera Katio rivendicano, come previsto dalla Costituzione, che i colpevoli siano giudicati in prima istanza in base alla giurisdizione indigena, per poi compiere la pena secondo le leggi dello Stato. Al tempo stesso, le autorità indigene chiedono misure che possano garantire la sicurezza per la bambina e la sua famiglia. Decine di organizzazioni delle donne nei resguardos, i territorio governati dalle autorità tradizionali indigene, di diverse aree del paese, i cabildos, le istituzioni politiche indigene, movimenti sociali e organizzazioni femministe sostengono l’appello, tra cui l’associazione delle Donne Indigene e il Programa de Mujer y Familia del Resguardo Cañamomo Lomaprieta, il Colectivo Nepono Bania, il Consejo Indigena regional de Caldas, il CRIC – Consejo Regional Indígena del Cauca – Área de Mujer, la Associazione dei Cabildos del nord del Cauca ACIN, Tejido Mujer, la Red de Tejedoras Indígenas de Caldas, l’Associazione delle donne vittime del conflitto armato e la Confluencia de Mujeres.
Intanto, mentre altri casi passati di violenze e abusi sessuali da parte di militari contro donne e bambine indigene vengono alla luce, diversi presidi e mobilitazioni si sono tenuti sia nel dipartimento di Risaralda che nella capitale Bogotà, così come nelle principali città e nei diversi territori indigeni, ed in diversi casi vi sono state dure repressioni poliziesche.
Davanti alla caserma della capitale del dipartimento di Risaralda, Pereira, dove sono di stanza i militari autori del sequestro e dello stupro, si è tenuta una azione di denuncia delle organizzazioni femministe che hanno inscenato la famosa performance “Un violador en tu camino” che ha sconfinato a livello planetario dopo essere stata lanciata in Cile nello scorso autunno.
«In questa società patriarcale e misogina», continuano nell’appello le organizzazioni indigene e femministe, «la guerra che viene portata avanti contro di noi sembra non avere fine: ci odiano per il solo fatto di essere donne, ogni giorno ci ricordano duramente l’importanza della nostra lotta. Siamo di fronte a una pratica sistematica e razzista di dominazione, discriminazione e violenza contro le donne, in un contesto dove i doveri dello Stato nei nostri confronti e nei confronti dei nostri popoli sono costantemente violati».
Denunciano inoltre la violazione dei trattati e delle leggi che regolamentano le relazioni con i popoli indigeni in Colombia, così come dell’Accordo di pace che prevede misure a sostegno delle comunità, dei territori e delle popolazioni colpite e spossessate degli spazi e degli spazi, delle risorse, degli affetti, dei diritti e della memoria da sessant’anni di conflitto armato, che lo Stato colombiano continua a disattendere sistematicamente. È in tale contesto che va inquadrato questo ennesimo stupro nei confronti di una giovanissima indigena: «dall’invasione coloniale ai giorni nostri si ripetono senza sosta atti violenti contro le donne, ma in questi tempi di distanziamento e isolamento ci scopriamo ancora più esposte a qualsiasi tipo di violenza, sembra l’opportunità perfetta per portare avanti azioni del genere. I tassi di aggressione fisica e sessuale e i femminicidi sono aumentati in questi mesi».
Dopo secoli di resistenza, di lotta e di riorganizzazione nei territori minacciati dalla colonizzazione e dall’estrattivismo, i popoli indigeni si trovano oggi a essere sempre più minacciati dalla violenza dell’accumulazione legale ed illegale del capitale globale contemporaneo, dall’avanzata di un «governo elitista, machista e razzista che cerca di farci sparire dai nostri territori a qualsiasi costo per spianare la via a progetti di morte che vogliono appropriarsi dei nostri territori, delle nostre ricchezze e come se questo non bastasse, dei nostri semi di vita». Rivendicando il dirittto alla propria autodifesa, l’appello della comunità indigena si conclude con la richiesta di «immediata smilitarizzazione dei nostri territori, il riconoscimento pieno della “guardia indigena” come coloro che si prendono cura del territorio, una guardia popolare composta anche dalle donne delle comunità», che sostenga il processo di pace e i processi di autonomia contro le violenze dell’estrattivismo e quelle dei gruppi armati, del narcotraffico e delle forze militari dello Stato.
Foto di copertina da ANZORC- ZRC