EUROPA
Da Lesbo a Mediterranea, la storia di Iasonas Apostolopoulos
Nato ad Atene, 35 anni, Iasonas è attivo nei salvataggi in mare e nei movimenti di solidarietà ai migranti dal 2015, quando si trasferì su una spiaggia di Lesbo per aiutare le migliaia di persone che sbarcavano in quel periodo. La sua esperienza in Grecia, nel Mediterraneo centrale e poi sulla nave Mare Jonio si intreccia alle diverse fasi della guerra alla solidarietà che l’Unione Europea e i governi dei diversi stati stanno conducendo contro chi combatte in prima persona le politiche anti-migranti che hanno riempito il mare di morti. Questa è la sua voce, raccolta poche ore prima della partenza della nuova missione di Mediterranea
[Στα ελληνικά: Απο την Λέσβο στη Mediterranea. Η ιστορία του Ιάσονα Αποστολόπουλου]
LESBO
«Ho iniziato a occuparmi di salvataggi sull’isola di Lesbo nell’estate 2015. Prima avevo lavorato come bagnino sulle spiagge, ma solo per arrotondare. In quei mesi sulle isole greche più vicine alla Turchia arrivavano migliaia di migranti. Migliaia ogni giorno. Non c’era nessuno ad aiutare: né Ong, né Nazioni Unite, né Frontex. Niente. Così alcune persone del movimento greco, soprattutto del quartiere ateniese di Exarchia, hanno deciso di agire e andare in prima linea per sostenere i migranti. Molti di loro avevano già aiutato i rifugiati accampati nel parco Pedion tou Areos, sempre nella capitale greca, che quell’anno era diventato un luogo di transito verso altri paesi europei».
«Arrivati sulla spiaggia di Skala Sikaminia abbiamo creato un campeggio autogestito e una cucina solidale: il Platanos Refugee Solidarity. Avevamo portato ciò che potevamo: cibo, vestiti, medicine. I soldi venivano dalle nostre tasche o da iniziative di solidarietà. Era stato lanciato un appello a raggiungerci a medici e infermieri. Dalla spiaggia si vedeva un panorama incredibile: il mare era punteggiato di nero, tante piccole imbarcazioni o gommoni che si avvicinavano alla costa, trasportando decine di persone. Ogni giorno ne arrivavano 3mila solo sulla nostra spiaggia. Uscivano da tutti gli angoli: dalle spiagge, dagli scogli, dalle insenature. L’isola era piena di gente».
«Noi eravamo arrivati all’inizio di ottobre 2015. Meno di un mese dopo è successo qualcosa che ha cambiato tutto. Era il 28 ottobre. Davanti ai nostri occhi c’è stato un grande naufragio, vicino alla cittadina di Molyvos. In acqua c’erano un centinaio di persone. Frontex non si è mosso. Pro Activa aveva solo delle moto d’acqua e ha fatto quello che ha potuto. Solo i pescatori di Skala Sikaminia si sono lanciati in acqua con le loro barche cercando di salvare più persone possibile. Noi eravamo sulla spiaggia. Guardavamo le persone annegare, impotenti. Non potevamo fare niente. Quel giorno ci sono stati 50 morti. Li vedevamo là davanti a noi, tra le onde e poi a riva. Siamo impazziti di dolore, di rabbia. La sera stessa abbiamo fatto assemblea. Io ho detto che ad Atene avevo un piccolo gommone, che avevo esperienza a guidarlo e sarei stato in grado di creare un rescue team. Sono stati tutti d’accordo. Abbiamo messo qualche soldo per il trasporto e sono andato a prenderlo».
«Siamo rimasti a Lesbo sette mesi, da ottobre 2015 a giugno 2016. Il 18 marzo 2016 l’Unione Europea e la Turchia di Erdoğan hanno firmato un accordo per chiudere le frontiere. È arrivata la Nato con le sue navi da guerra. La polizia turca ha iniziato ad arrestare tutte le persone che cercavano di partire. Contemporaneamente è iniziata la criminalizzazione della solidarietà e dei salvataggi anche sull’isola. La nostra piccola imbarcazione, però, batteva bandiera greca e non potevano fermarci. I giornali la chiamavano “la barca degli anarchici”. Gli sbirri provavano a intimidirci: ci perquisivano continuamente, ci urlavano contro, ci chiedevano i documenti, ci intimavano di tornare a riva e interrompere i pattugliamenti. Ma noi non avevamo paura. Alla fine non ci facevano niente. Sapevano che avevamo rapporti con tanti collettivi del movimento greco e sarebbe potuto succedere un casino».
«Lesbo, intanto, era diventata una grande prigione. I profughi li avevano chiusi dentro l’hotspot di Moria, una prigione enorme e disumana. Gli arrivi erano crollati e la situazione era diventata più politica. Abbiamo iniziato a organizzare manifestazioni con i migranti. Di continuo. Ma era tutto bloccato, non c’erano prospettive. E noi stavamo finendo i fondi. A giugno 2016 abbiamo raccolto le nostre cose, il cibo, le tende e ce ne siamo andati».
MEDITERRANEO CENTRALE
«A Lesbo ho conosciuto diversi rescuers. Mi hanno detto che le navi che salvavano persone nelle acque internazionali cercavano equipaggi. Ho fatto richiesta a Sos Mediterranée, mi hanno preso e sono salito sull’Aquarius. Era l’ottobre del 2016. Le cose erano diverse rispetto all’esperienza autorganizzata di Platanos. Qui mi pagavano. Ero un lavoratore. Stavo in una Ong. Imparavo tantissimo ogni giorno. Sono passato al livello “pro”».
«Il mare era pieno di gente. In pochi mesi abbiamo salvato migliaia di persone. Una volta in una sola missione ne abbiamo tirate fuori dall’acqua 1.004. Dieci naufragi in un solo giorno, dieci salvataggi in fila. Nel fine settimana di Pasqua 2017 in due giorni sono state salvate 20mila persone da tutte le barche che si trovavano in mare, tra Ong, guardia costiera italiana e imbarcazioni militari. Era l’esodo. L’esodo dalla Libia».
«A quel tempo le operazioni erano coordinate dal Marine Rescue Coordination Centre (Mrcc) di Roma. Avevamo un ottimo rapporto con la guardia costiera italiana. Operavamo insieme. Non come adesso. Tutto funzionava meglio. C’erano molte imbarcazioni attive nei salvataggi. Nonostante questo c’erano anche tantissimi morti. Raccoglievamo in continuazione corpi senza vita, gonfi di acqua. Poi è arrivata la dichiarazione di Malta. Era il 3 febbraio del 2017».
«Tutti gli stati europei si sono messi d’accordo per riconoscere le milizie libiche e dare loro soldi, motovedette e formazione per bloccare il transito dei migranti. Sono state addestrate in Italia, ma anche in Grecia, a Creta. Così, con le armi e i finanziamenti europei, i libici hanno iniziato a fare un casino. Succedeva un incidente dietro l’altro. Alla nave Bourbon Argos di Medici senza frontiere (Msf) hanno sparato sul ponte, con i kalashnikov. Un proiettile ha sfiorato l’orecchio di un mio amico. Hanno assaltato l’imbarcazione Lifeline con le armi in pugno, salendo a bordo senza permesso. Poi hanno speronato la Sea-Watch. A noi sull’Aquarius, comunque, è andata peggio».
«Era maggio 2017. Avevamo trovato due barche in difficoltà e distribuito i giubbotti di salvataggio, quando abbiamo visto arrivare la cosiddetta guardia costiera libica. Si sono avvicinati e hanno iniziato a sparare. Ci siamo buttati tutti per terra, stesi sul ponte, a faccia in giù. Come nei film. Ho pensato che saremmo morti. I libici sono saliti sulle due barche, armati. Picchiavano le persone e gli urlavano di salire sulla loro motovedetta. Concluso il trasbordo hanno girato la prua e sono ripartiti verso la Libia. Appena i profughi hanno capito che li stavano portando indietro hanno iniziato a lanciarsi in acqua. Era incredibile: la barca andava e queste persone, con addosso i giubbotti arancioni, si buttavano in mare, una dietro l’altra. Cento persone in mare che nuotavano verso l’Aquarius. Noi gli siamo subito corsi incontro, per recuperarli. Era un casino. I libici sparavano in aria o in acqua e con i bastoni colpivano la gente che nuotava. A quelli ancora a bordo strappavano il giubbotto di salvataggio. Sono dei bastardi. Degli assassini. Abbiamo tirato fuori dall’acqua tutti i migranti che abbiamo potuto. Ma alcuni sono annegati e altri sono stati riportati indietro».
«La dichiarazione di Malta aveva cambiato molte cose. Il clima in Italia era molto diverso. In televisione ogni giorno le Ong venivano chiamate “taxi del mare”, sostenendo che agivano da pull factor, fattori di attrazione. Sono stati alimentati sospetti sulle fonti di finanziamento di queste organizzazioni. È stato dato tanto potere alla guardia costiera libica, diventata sempre più aggressiva. Si parlava della Libia come di un luogo sicuro. Io di una cosa sono certo: deve essere l’inferno. Tutte le persone che ho salvato mi hanno detto: preferisco morire che di tornare in Libia. Tutte le donne appena salivano in barca chiedevano la stessa cosa: un test di gravidanza. Le avevano stuprate tutte. Gli uomini erano stati venduti come schiavi, fino a quattro, cinque volte a tesa. Tutti escono da quel paese in condizioni fisiche e psicologiche pessime».
«Comunque fino a ottobre 2017 le barche arrivavano ancora. Poi pare siano state finanziate con soldi italiani tutte le diverse milizie libiche. Pagate per fermare i migranti. La guardia costiera da sola non riusciva a farlo. Questa dinamica ha scatenato una nuova guerra tra le diverse fazioni perché chi controllava i migranti prendeva i soldi. Così le partenze sono crollate».
«I problemi per le Ong erano iniziati già a maggio 2017. Il governo aveva scritto un codice di condotta che ne limitava molto l’operatività in mare. Diceva che dopo un salvataggio dovevi tornare direttamente in Italia. Che dovevi accettare le forze dell’ordine a bordo. Iuventa si è rifiutata di firmarlo e dopo un mese la sua nave è stata sequestrata. Un caso utilizzato per terrorizzare le altre Ong, che infatti dopo hanno firmato. Ad agosto 2017, poi, la guardia costiera libica ha dichiarato che nella zona entro le 8 miglia dalla costa diventava operativa la sua zona Sar, Search and Rescue».
«Così l’Italia ha potuto lavarsene le mani, riconoscendo le autorità libiche e declinando su di loro la responsabilità dei salvataggi. Quando trovavamo una barca chiamavamo lo stesso Mrcc che pochi mesi ci coordinava, solo che ora ci dicevano di sentire i libici, che la cosa non li riguardava. Ho visto con i miei occhi la nave militare Andrea Doria aiutare la guardia costiera libica in due occasioni, a ottobre e novembre 2017. Trovavano le imbarcazioni con i migranti e aiutavano i libici a portarli indietro».
«Tutto era più difficile. Gli arrivi erano molto diminuiti. I libici diventavano sempre più aggressivi. A marzo 2018 Pro Activa Open Arms si è rifiutata di restituirgli le persone che aveva appena salvato. Una settimana dopo la nave è stata sequestrata. Sea Eye, Sea Watch e Lifeline sono state bloccate da Malta per gli stessi motivi, tutte accusate di non permettere ai libici di riportarsi indietro le persone. Nell’estate del 2018 in mare c’era solo Aquarius. A giugno intanto era iniziata la politica dei porti chiusi. Dopo un grande salvataggio l’Aquarius era dovuta arrivare fino a Valencia per far sbarcare i naufraghi. Una settimana di navigazione con 630 persone a bordo, in condizioni difficilissime, senza cibo né acqua sufficienti, con la Croce Rossa che portava i rifornimenti».
«Ad agosto Gibilterra ha tolto la bandiera alla nave di Msf e Sos Mediterranée perché non aveva rispettato il protocollo Sar, perché non aveva riconsegnato i migranti alle autorità competenti, i libici. Dopo uno stop nel porto di Marsiglia, a settembre 2018 è ripartita in una nuova missione, con la bandiera di Panama. Ma è durata solo 20 giorni: anche lo stato centroamericano ha ritirato la bandiera, dichiarando pubblicamente di essere stato minacciato dall’Italia. Il nuovo governo Di Maio-Salvini aveva detto che era pronto a chiudere i porti a tutte le navi panamensi se non fosse stato preso il provvedimento contro l’Aquarius. Nessuno stato ha voluto dare una nuova bandiera a quella nave. Neanche la Svizzera, a cui era stato chiesto pubblicamente con una grande campagna che aveva raccolto migliaia di firme tra professori universitari, artisti, attori. Poi è arrivata l’ultima tegola, l’inchiesta sul presunto traffico illecito di rifiuti. Accuse che il tribunale del riesame di Catania ha smontato e fatto cadere a inizio febbraio».
«Io intanto ero finito in Sud Sudan. Ad aprile 2018 avevo finito le missioni sulle navi. Avevo anche trascorso due mesi in Grecia organizzando iniziative e manifestazioni sul tema, intervenendo in assemblee e in televisione, mantenendo contatti sia con il movimento che con soggetti più istituzionali. Ero l’unico greco con un’esperienza di questo tipo. Per questo mi invitavano ovunque. Sono stato nel paese africano quattro mesi, lavorando alla costruzione di un ospedale nella giungla, con Msf. Il mio lavoro principale è ingegnere civile. Poi sono ritornato e dopo un po’ sono ripartito ancora, per altri quattro mesi, per continuare quel progetto. Sono rimasto là fino a febbraio 2019».
MEDITERRANEA
«Ho sentito di Mediterranea appena è partita. Quando sono tornato dal Sud Sudan, ho saputo che sarebbe tornata in mare e aveva bisogno di persone con esperienza. Ho presentato la mia candidatura e mi hanno preso. Ero a bordo quando il 18 marzo abbiamo salvato 49 persone».
«Riprendendo le missioni in mare dopo qualche mese ho ritrovato un contesto completamente diverso. I salvataggi ormai sono autogestiti. Li facciamo solo noi, i civili. Con i nostri strumenti. Abbiamo potuto trovare quella barca solo grazie ad Alarm Phone e all’aereo Moonbird. La guardia costiera italiana e quella maltese hanno smesso di fare search and rescue, di coordinare le operazioni. Non gli interessa più niente delle persone che annegano. Ci siamo solo noi: salvataggi autogestiti e più politici. Adesso è una guerra continua, per mare e per terra. Di umanitario è rimasto ben poco, per salvare le persone devi essere pronto allo scontro politico. E attenzione: la criminalizzazione della solidarietà non riguarda solo le Ong, ma tutti quanti. Anche i pescatori o i capitani delle navi commerciali possono essere incriminati».
«Bisogna rompere tutto questo. Penso che solo un movimento come Mediterranea può farlo, perché ha relazioni politiche con le lotte, i collettivi, le assemblee. Per questo volevo partecipare alla missione. Per questo sto per ripartire di nuovo sulla Mare Jonio. Non mi interessa dei rischi. Noi nn abbiamo paura perché sappiamo di aver ragione e abbiamo il diritto dalla nostra parte. Non è pensabile che qualcuno rischi di essere arrestato per aver salvato delle persone che altrimenti sarebbero affogate. Non è mai successo nella storia. Non possiamo accettarlo. È una situazione incredibile e schifosa. Tutti noi dobbiamo fare qualcosa affinché finisca quanto prima».
Le fotografie sono di Iasonas Apostolopoulos