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L’esame di maturità ai tempi del regime di Orbán

Il 2 maggio è uscito nelle sale “Una spiegazione per tutto” un film politico e prismatico sulle difficoltà dell’Ungheria dei nostri giorni. Un film che parla molto anche a noi, che viviamo in un paese alleato e sempre più simile

Una spiegazione per tutto, del regista ungherese Gábor Reisz, premiato nella sezione Orizzonti a Venezia nel 2023 offre uno sguardo molteplice e profondo sull’Ungheria contemporanea.

La trama, ambientata in nove giorni di inizio estate a Budapest, narra la storia di Abel, un ragazzo che giunge alla soglia dell’esame di maturità in preda a una crisi tardo-adolescenziale in cui si sommano un innamoramento e un’enorme fatica a stare sui libri.

All’esame di storia fa scena muta e quando ormai si avvia a uscire dall’aula, il professor Jakab gli domanda con leggerezza come mai abbia spillata sulla giacca una piccola coccarda tricolore, simbolo nazionalista e patriottico che, scopriremo in seguito, Orbán aveva invitato tutta la popolazione a indossare.

Per giustificare la débâcle che gli costa la bocciatura, Abel racconta al padre che non è stato promosso per colpa della coccarda, visto che, a suo dire, il professor Jakab lo ha preso di mira in quanto figlio di un convinto sostenitore di Fidesz cioè il partito di Orbán. Durante un colloquio tra professore e genitore di qualche mese prima, Jakab aveva infatti discusso animatamente con György – il padre di Abel- proprio sulla base di posizionamenti politici antitetici.

La bugia di Abel scatenerà una reazione a catena sempre più incontrollata che coinvolgerà la scuola, i media e diventerà un caso nazionale intersecandosi con il sistema di potere e controllo sulla società che Orbán è riuscito a instaurare.

La sceneggiatura, scritta dallo stesso regista, fa entrare nelle vicende dei personaggi attraverso lunghi dialoghi, spesso a due, in cui emergono i temi più profondi e centrali del film. Passato e presente dell’Ungheria si intrecciano pertanto in conversazioni in cui si affronta il rapporto con il proprio paese, la censura nella stampa, l’autonomia educativa degli insegnanti, i diritti civili sempre più negati e l’orgoglio nazionale.

Il regista si sofferma poi sul mondo giovanile di Abel e di chi gli sta attorno ma non solo, cercando di esplorare le dinamiche psicologiche che stanno alla base dei comportamenti e delle azioni.

Tutto si svolge poi in una Budapest estiva rigogliosa di verde, estremamente luminosa ed elegante nella sua monumentalità. 

Con una trama del genere ci si aspetterebbe il classico film militante: i buoni contro i cattivi, la democrazia contro la repressione, il bianco contro il nero. Invece la scelta di Reisz è meno scontata e forse per questo più interessante. Jakab è indubbiamente un coraggioso professore di storia che si oppone al regime, ma è pure un padre poco presente con figli e compagna, è un ricercatore che quando incontra testimoni del passato ungherese commette errori grossolani, e soprattutto è una persona molto sola, e viene da chiedersi perché.

Abel, invece, racconta la bugia che scatena il film, ma viene ritratto in modo molto empatico, un modo capace di trasmettere il dolore di quella fase della vita solcata da innamoramenti non corrisposti, aspettative genitoriali ingestibili e fatiche che il giovane compensa con adrenaliniche corse in bici su e giù per Budapest.

Il regista sceglie pure di girare alcune scene più volte, guardandole attraverso la prospettiva di un personaggio differente, quasi a voler rimarcare la natura prismatica e soggettiva della realtà che si vive.

Con questa scelta narrativa, che rifugge ogni possibile approccio didascalico, Reisz dirige pertanto un film politico ma non retorico: è l’immanenza delle vicende narrate – e non una loro lettura manichea – che trasmette il contenuto politico, che è comunque evidente e schierato.

È proprio questo contenuto cristallino che ti scuote all’uscita dalla sala cinematografica e forse scuote molto di più qui in Italia che in altri paesi.

Il film infatti raffigura una Ungheria in cui il regime orbaniano è riuscito a controllare il sistema scolastico, a imporsi in modo censorio nel mondo dell’informazione e a sfruttare il malcontento di persone come il padre di Abel. György, infatti, è rimasto con fatica a vivere in un paese da cui molti invece migrano verso zone ricche d’Europa – grande nemica nella sua visione – e riversa nei confronti di persone come Jakab la sua rabbia, a tratti xenofoba e antisemita, a tratti antidemocratica, a tratti orgogliosa del passato regime filosovietico.

Difficile non pensare a quanto sta accadendo oggi nel nostro paese, con il perenne attacco al mondo della cultura e della scuola, con il controllo censorio nei confronti dei mezzi di comunicazione che il governo Meloni sta effettuando, con l’uso strumentale del malcontento della classe media per marginalizzare minoranze e imporre una restaurazione ultraconservatrice e bigotta della società.

Mentre scorrono i titoli di coda si ha quasi la sensazione di aver visto un film che racconta l’Italia tra quattro o cinque anni, ma proprio perché è un bel film politico, si può anche uscire dal cinema con il desiderio di provare a fare qualcosa prima che il processo di orbanizzazione del nostro paese sia del tutto compiuto.

Foto di copertina, frame del film “Una spiegazione per tutto”

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