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MONDO

Le sfide politiche del ballottaggio in Perù tra Castillo e Fujimori

Dopo i risultati di un primo turno che ha scosso la società peruviana, le forze si stanno riorganizzando per passare da uno scenario frammentato e disperso a uno di massima polarizzazione. Una destra ormai datata contro una sinistra rozza. Gli anni Novanta e il passato neoliberale contro un futuro di cambiamenti radicali senza garanzie. L’élite contro la plebe. La capitale della repubblica contro il sud andino. Chi è Pedro Castillo, l’insegnante di Cajamarca che nessuno ha visto arrivare? Da Lima, un’analisi per andare oltre la prima impressione

«Non l’abbiamo visto arrivare» è stata la frase con cui stampa e istruzione egemoniche locali hanno manifestato la propria perplessità davanti ai risultati dell’11 aprile. Parlano di Pedro Castillo, candidato di Perú Libre e del suo simbolo della matita rossa che, come un’alluvione elettorale, ha fatto la sua entrata in scena nelle due ultime settimane, riuscendo a vincere il primo turno e a passare a un impensabile secondo turno insieme a Keiko Fujimori.

Per colmo, il primo sondaggio sul ballottaggio del 6 giugno mostra che le preferenze dei cittadini sono per Castillo, che potrebbe ottenere il 42% dei voti staccando Fujimori, ferma al 31%, con un 16% di schede bianche o nulle, mentre l’11% ancora non si esprime.

 

Lo Stato del malessere

I comizi si sono svolti in condizioni molto particolari esenza precedenti ed è possibile compararli, forse, solo a quelli del 1990, che definirono la direzione neoliberale del Paese, culminata con il trionfo di Fujimori su Vargas Llosa. Anche trent’anni fa, la situazione era vicina alla catastrofe, con una crisi economica e un’iperinflazione fuori dal comune, uno Stato impotente e una violenza generalizzata e fu proprio questo scenario che alla fine della campagna elettorale consentì allo sconosciuto ingegnere di emergere, di proporsi come alternativa allo scrittore ultraliberale, di raggiungere il ballottaggio e di vincere, mettendo poi in atto il programma dell’avversario.

 

Stavolta, il processo è stato segnato dalla crisi sanitaria – i cittadini peruviani sono andati a votare durante il picco della seconda ondata –, che ha visto i servizi sanitari al collasso e una disoccupazione di massa, causata a sua volta da un alto tasso di precarietà e informalità nel mercato del lavoro e, più in generale, nell’economia.

 

L’economista Pedro Fracke ha calcolato che, dall’inizio della pandemia, in Perù sono andati persi due milioni di posti di lavoro, a cui si aggiunge una crisi politica senza precedenti: negli ultimi cinque anni si sono susseguiti quattro presidenti (due si sono dimessi e un altro è stato destituito) e due governi (uno sciolto dal potere esecutivo). Come se non bastasse, tutti gli ex presidenti sono stati condannati o hanno processi in corso per corruzione e uno di loro, Alan García, ha preferito depennarsi da questa lista vergognosa togliendosi la vita.

 

In definitiva, la «transizione democratica» iniziata nel 2000 non è riuscita a correggere il modello imposto durante gli anni Novanta né a produrre accordi istituzionali in grado di arginare il conflitto politico.

 

Il risultato è stata una crescente delegittimazione delle istituzioni, che hanno cercato di bloccare in maniera sistematica qualsiasi riforma o modifica del regime economico attraverso vari meccanismi, tra cui il «terruqueo» [l’accusa di essere collegati al terrorismo alle Sendero Luminoso, ndr]e la criminalizzazione delle proteste sociali, che ha provocato un numero scandaloso di morti.

La disaffezione verso la politica ufficiale si è inasprita durante le ultime elezioni a causa di un’offerta partitica molto frammentata (diciotto candidati alla presidenza), a cui si somma una campagna atipica, tra quarantene e percentuali di astensione senza precedenti che sono diminuite solamente nelle ultime tre settimane.

 

Foto di: Aldair Mejia

 

Le regole della fortuna

Si dice spesso che le elezioni peruviane del Ventunesimo secolo siano un’ode all’imprevedibilità, ma nelle ultime cinque ci sono state senz’altro due costanti: la caduta del candidato di punta di inizio campagna; l’irruzione a sorpresa di un secondo candidato, più precisamente un outsider anti-establishment con una forte influenza nel sud andino.

Stavolta la disputa elettorale ha portato due novità: una a destra, il disruttivo imprenditore López Aliaga, di Renovación Popular; la seconda a sinistra, il professore e rondero Pedro Castillo [“militante di base”, nel senso delle ronde di autodifesa contadina degli anni Settanta, ndr].

 

La candidata favorita della sinistra, Verónika Mendoza, che nel 2016 aveva quasi superato il secondo turno, non è riuscita a consolidarsi.

 

Secondo alcuni a causa di una strategia che non ha puntato a «radicalizzarla», ma piuttosto a orientarla verso il «centro». Non credo sia andata così: credo, invece, che il suo messaggio forte sia stato comunicato in modo troppo frammentario e dispersivo, mettendo sullo stesso piano i problemi più urgenti per la maggior parte dei peruviani (come la salute, l’occupazione e la riattivazione economica) e i punti dell’agenda ecologica e di genere, oltre al progetto di riforma costituzionale. L’analista Sinesio López ha sottolineato infatti che il malessere e la rabbia delle persone avrebbero richiesto forse un atteggiamento e un tono più conflittuale e dirompente, per raggiungere ampi settori della popolazione.

 

Vita interna dei partiti dell’entroterra

La figura di Pedro Castillo ha fatto irruzione da questo stesso fianco sinistro verso la fine della campagna, in un territorio che nel 2016 aveva votato per Verónika Mendoza e prima per Ollanta Humala [Presidente del Perù dal 2011 al 2016, ndr].  All’origine del suo profilo politico ci sono le Rondas Campesinas di Cajamarca, organizzazione popolare che ha dato vita a forme di autogoverno e ha fermato in varie regioni l’avanzata di Sendero Luminoso, fattore chiave per la sua sconfitta.

 

Per quindici anni inoltre, dal 2002 al 2017, ha fatto parte del partito di centro-destra Perú Posible, dell’ex presidente Alejandro Toledo. Ma è stata la leadership durante lo sciopero degli insegnanti nel 2017 a portarlo alla ribalta nazionale.

 

In occasione di quella protesta, le cui richieste principali erano l’eliminazione della valutazione dei docenti, l’aumento degli stipendi e il riconoscimento del sindacato alternativo, il CONARE, Comité Nacional de Reorientación del SUTEP, il Sindicato Unitario de Trabajadores en la Educación del Perú, Castillo è riuscito a mettere d’accordo i settori che si opponevano alla direzione ufficiale del sindacato degli insegnanti in mano al Partito Comunista del Perù–Patria Roja, un’organizzazione di stampo maoista.

Tra i gruppi di opposizione che l’attuale candidato alla presidenza è riuscito a guidare c’erano il Movimiento por la Amnistía y Derechos Fundamentales (MOVADEF), organizzazione vicina a Sendero Luminoso, e altri gruppi della sinistra estremista con una forte presenza nell’ambito dell’educazione. È stata questa esperienza a dare vita alla principale base di appoggio, un attivo settore di insegnanti con una presenza territoriale significativa, soprattutto nel sud andino, che gli ha permesso di diventare candidato del partito Perú Libre, organizzazione marxista-leninista il cui leader, Vladimir Cerrón, è stato eletto governatore di Junín, regione situata nella parte centrale del Paese, ma è stato escluso dalle presidenziali dal Jurado Electoral a causa di una condanna per corruzione.

 

Grazie a un discorso frontale e travolgente, con il quale è riuscito ad animare comizi affollati nonostante i divieti sanitari, si è guadagnato spazio tra i mezzi di comunicazione regionali, estranei alle preoccupazioni e ai luoghi comuni della stampa nazionale, e sui social network, attraverso account di appoggio su Facebook.

 

Formato alla pratica rondera e al sindacalismo radicale, ha dimostrato grande pragmatismo, riuscendo a destreggiarsi con astuzia in ambienti dissimili. Al contrario di quanto si crede nella mia piccola grande provincia limeña, anche il pragmatismo può muoversi verso sinistra.

Restano molte cose da chiarire. Per esempio, non si sa da chi è formato il suo entourage, né quale sarà la squadra di governo. A un certo punto è stato lui stesso ad affermare che i ministri non dovrebbero essere eletti dal presidente, ma ognuno dal settore corrispondente. Bisognerà vedere, poi, se tornerà ad affermare il suo manifesto conservatorismo – segnato da citazioni bibliche –, la sua esplicita opposizione all’agenda di genere e all’espansione dei diritti civili della comunità LGBTIQ+, in linea con la frangia più estrema della destra.

 

Per ora, entrambi i finalisti, che insieme non hanno raggiunto il 32% del voto valido, hanno giocato le loro prime carte.

 

Keiko ha chiesto un fronte anticomunista e ha ricevuto l’appoggio del suo storico arcinemico, il premio Nobel Mario Vargas Llosa: ciò suggerisce che l’asse della contesa sarà – anche in maniera più accentuata rispetto al primo turno – tra la difesa del modello economico o la scommessa per un cambiamento che deve ancora prendere forma. Castillo, dal canto suo, ha auspicato un ampio dialogo, al quale hanno risposto Verónika Mendoza e altre forze di sinistra con la proposta di formare un’agenda minima per fare fronte al fujimorismo.

La logica vuole che entrambi i candidati allarghino la loro base politica e sociale, ma la moderazione è difficile in uno scenario ideologicamente polarizzato, dove l’«antivoto» giocherà un ruolo centrale e, può darsi, definitivo. Forse è per questo che Castillo parte avvantaggiato, ma dovrà sopportare un intenso e prolungato bombardamento mediatico.

 

Articolo pubblicato con il titolo “Un castillo en construcción” su Revista Crisis che ringraziamo per la gentile concessione.

Traduzione in italiano di Giulia Di Filippo per DINAMOpress.

Immagine di copertina: Aldair Mejia per Revista Crisis