editoriale
Le parole e i fatti
Il primo giorno da ministro Luigi Di Maio l’ha passato tra una sponda e l’altra di via Veneto, tra precari e imprenditori. Mentre molti commentatori invitano a “giudicare i fatti”, le parole del governo “giallo-verde” producono i primi effetti concreti
La fine della rappresentanza, dopo anni di crisi, e quella della verità, elaborata dal pensiero postmoderno, vengono percepite inconsciamente ma perfettamente interpretate dagli elettori. La stragrande maggioranza degli italiani considera le parole e gli impegni del contratto di governo come orpelli inutili. Se gli chiedi che pensano dei giallo-verdi parlano quasi tutti come fa oggi MedioMan-Scanzi: «Siccome prima c’era il male assoluto e il male assoluto era la sinistra [sic], questi peggio non possono essere. Aspettiamo». Dicono, inoltre, che bisogna «giudicare i fatti». Ma le parole, soprattutto in politica, non sono già «fatti» da tener presenti? Le parole non producono dispositivi, non costituiscono manufatti sui quali poggiare l’azione di governo? Non lo abbiamo visto con l’invenzione dell’emergenza sbarchi, con i taxi del mare di Di Maio e i conseguenti regolamenti anti-salvataggio di Minniti, che le parole possono diventare concretissime e rafforzare confini? No, dicono quasi tutti. Le chiacchiere stanno a zero.
Vogliono «vedere», come se d’incanto una realtà oggettiva ad un certo punto si parerà loro davanti. Chi pretende di analizzare le idee, e gli effetti concretissimi che producono in amministrazioni comunali e regionali, gialle o verdi, viene etichettato come ideologico.
Il potere esecutivo riparte con nuove gerarchie ma innesca un motore che gira a vuoto, che marcia a mille giri senza dover render conto ad alcun addentellato sociale. Pare aver introiettato anche questa condizione Luigi Di Maio, che oggi ha fatto il suo doppio debutto ai due ministeri del lavoro e dello sviluppo. Si trovano uno di fronte all’altro, in via Veneto. Qui la dolce vita del ministro è cominciata con la promessa dell’annullamento dei conflitti. «Unire parte datoriale e dipendente può creare pace sociale», ha detto il ministro muovendosi da una sponda all’altra del palazzo.
Come in quella vecchia commedia Pippo Franco si alternava nel corso della stessa partita tra le curva della Roma e quella della Lazio, il ministro ha incontrato i riders precari e gli imprenditori vessati dallo stato, promettendo sicurezza e reddito agli uni e sburocratizzazione e taglio delle imposte agli altri.
Pendolando da una parte all’altra della strada, da una sede istituzionale all’altra, ovviamente senza trovare il tempo di accorgersi che in Calabria, nella piana di Gioia Tauro, hanno ammazzato come un cane un sindacalista. Del resto, quando l’altro giorno dal palco della Bocca della verità Di Maio ha annunciato «Adesso lo Stato siamo noi», l’ha fatto per invitare la gente a non fischiare. Basta proteste scomposte. È finito quel tempo – per carità! – adesso è il momento della «pace sociale». Non vorrete venire a turbare le coscienze con questa storia dei braccianti e della ‘ndrangheta.
*L’articolo è stato pubblicato sul blog dell’autore