OPINIONI
Le Ombre Rosse e l’immondezzaio della storia
Riflessioni a freddo dopo gli arresti di Parigi: alla retorica degli anni di piombo fa d’altra parte da contraltare quella di una ferita ancora aperta, la cui cicatrizzazione provocherebbe l’estinzione della categoria sociale, tutta italiana, costituita dai parenti della vittime
Un’inchiesta condotta una dozzina di anni fa nei licei milanesi, a ridosso di uno dei tanti 12 dicembre a ricordo della strage commessa nella Banca dell’Agricoltura di Milano nel 1969, consentì di mettere in evidenza che la maggior parte degli intervistati riteneva che la bomba alla stazione di Bologna nell’agosto del 1980 fosse stata depositata dalle Brigate Rosse. In questo vuoto di memoria, perfettamente funzionale a un giustizialismo nutritosi per anni della semantica dell’emergenza, si colloca l’operazione politico-giudiziaria concretizzatasi a Parigi all’alba di martedì 27 aprile.
“Sette terroristi rossi arrestati, altri tre in fuga”. “Anni di piombo ultimo atto” è il titolo centrale in prima de la Repubblica. Sotto c’è una foto con un unico oggetto abbandonato sul selciato, contornato da un segno di gesso: un mitra. Non occorre leggere altro, e in effetti non c’è altro da leggere. Gli studenti dei licei milanesi (con tutto il rispetto per la categoria) sono serviti.
Facile indagare la prima asserzione, è sufficiente una veloce scorribanda in rete in cerca delle diverse identità degli arrestati (per due dei quali è scattata la prescrizione tra il 10 e l’11 maggio). Il più anziano, prossimo agli 80, militante (meglio: dirigente) di Lotta Continua, organismo extraparlamentare (per usare una definizione d’epoca) che in quanto tale ha mantenuto nitidamente una distanza indiscutibile dalle pratiche della lotta armata. Condannato quale mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi (maggio ’72) in un processo in cui l’unico tema di prova è stata la testimonianza di un unico coimputato, autoaccusatosi a distanza di sedici anni dai fatti dopo aver trascorso diciassette giorni in una caserma dei Carabinieri in assenza di difensore.
Un ultrasettantenne attivista di Autonomia Operaia condannato per concorso morale nell’omicidio di un agente di Polizia in servizio di ordine pubblico, in ragione di una di quelle forzature giuridiche ampiamente in uso nei processi degli anni ’80. In mezzo un gruppetto di poco più giovani militanti della Brigate Rosse di seconda generazione, per alcuni dei quali le condanne sono per omicidio “tentato”; uno dei Proletari Armati per il Comunismo definito “ideologo”, anche per lui omicidio in concorso morale. L’ultimo reato contestato si colloca nel 1982.
Era lo Stato che nel ’46 aveva amnistiato i fascisti e processato i partigiani per poi inventarsi la strategia della tensione e la teoria degli opposti estremismi, nel frattempo piazzando attraverso manovalanza fascista e servizi segreti (deviati è un’altra bufala) bombe nelle università, nelle banche, nelle piazze, sui treni, assassinando manifestanti, torturando prigionieri, confezionando teoremi giudiziari, promulgando leggi speciali e retroattive, premiando la delazione quale unico strumento di inquisizione giudiziaria. Arrivando così a processare e incarcerare migliaia di giovani che avevano scelto il terreno di quella rottura rivoluzionaria che simultaneamente stava infiammando tutti i quadranti di lotta dall’Europa all’America latina al sud est asiatico.
La stragrande maggioranza di quei giovani che aveva ritenuto indispensabili l’appropriazione del sapere, della ricchezza, del tempo liberato dal lavoro, l’autodifesa e l’uso della forza non aveva comunque mai abbandonato il principio del rispetto della vita umana. E riteneva con sicurezza che terrorista fosse lo Stato. Per tutti loro, a prescindere dalle distinzioni e dalle appartenenze, sono stati gli anni di un Grande Sogno collettivo.
Alla retorica degli anni di piombo fa d’altra parte da contraltare quella della ferita ancora aperta. Che è lecito supporre verrà alimentata fino a quando non ne sarà esaurita la necessità politica. È infatti questa parola d’ordine che ha consentito l’azione coordinata Cartabia – Draghi – Macron in cui ognuno degli attori ha portato a casa un bottino politico di ottimo rilievo. La ministra guardasigilli uscendo dall’anonimato della Corte Costituzionale per appuntarsi sul petto la medaglia della pagina storica (sua definizione) della giustizia italiana, provando con ciò a stendere un velo pietoso sull’inguardabile pagliacciata di Bonafede e Salvini all’aeroporto di Ciampino per la riconsegna di Cesare Battisti.
Il presidente del Consiglio, forte del suo rapporto privilegiato con Macron, intestandosi un gesto politico risolutivo che nessuno dei suoi predecessori aveva ritenuto di poter di fare, soprattutto evitando così che potesse intestarselo uno come Salvini. Il presidente francese riducendo di una qualche misura l’ apparentemente inarrestabile erosione di consenso che la sua immagine sta subendo, pilotata soprattutto da Marine Le Pen in vista delle ormai prossime elezioni presidenziali.
Operazione quindi squisitamente politica, orientata a una durata di medio-lungo periodo, con buona pace di chi legittimamente vi intravede una vendetta dello Stato non solo contro i fuggitivi, ma anche nei confronti di quella Dottrina Mitterand che non riconosceva nella giustizia italiana la volontà di rispettare le regole del diritto nella conduzione dei processi per i reati di eversione dell’ordine sociale degli anni ’80. Le foto dei genitali ustionati del brigatista Cesare Di Lenardo, accusato nel ’81 del sequestro di un generale americano, avevano peraltro fatto il giro di tutta Europa.
La ferita deve restare aperta anche perché la sua cicatrizzazione potrebbe provocare l’estinzione di quella singolare categoria sociale, tutta italiana, costituita dai parenti della vittime. Tutelata nei processi e da normative di sostegno finanziario appare comunque sempre a credito di riconoscimenti mai del tutto completati. Pur avendo spesso ricoperto un ruolo extralegale in dinamiche di applicazione della giustizia penale e della sua esecuzione, addirittura intervenendo in casi di scrittura cinematografica (La prima linea di Renato De Maria, ma non solo) presuppone che non tutta la verità storica sia contenuta negli atti processuali.
E che al contrario una sua parte importante sia occultata dai protagonisti di quella stagione giudiziaria, in particolar modo i latitanti. Indifferente allo stragismo e al piduismo, alla strategia della tensione e alle svolte autoritarie, non annovera nelle sue file i figli di Francesco Lorusso, Giorgiana Masi, Pietro Greco e degli altri assassinati inermi dalle nostre polizie: sono morti troppo giovani per averli. Restando concentrata nel compito di consegnare gli anni ’70 e ’80 a quell’Immondezzaio della Storia a cui Trotzkij aveva destinato menscevichi e socialisti dopo la presa del Palazzo d’Inverno si prepara ora a dare battaglia contro la lungaggine che con certezza caratterizzerà le procedure di estradizione, l’esito delle quali è tutt’altro che scontato.
Ecco, per molti di noi quegli anni sono stati un po’ così. Una traversata entusiasmante e spericolata compiuta senza sapere chi era quello che correva al tuo fianco: era semplicemente un compagno. E per ciò stesso tuo amico, tuo complice, tuo fratello. Allo stesso modo poi si è magari scoperto che il banchiere era un ladro e che l’evaso era innocente. Esauritasi l’enfasi cronachistica, che esito giudiziario avranno gli arresti di Parigi non è dato sapere con certezza. Sicuramente sappiamo però che alla fine del film lo sceriffo arresta l’evaso, ma poi lo lascia fuggire con la prostituta.
In copertina una foto della strage di piazza Fontana: 17 morti e 88 feriti per la bomba fascista nella Banca nazionale dell’agricoltura di Milano, il 12 dicembre 1969 (foto da wikipedia)