OPINIONI
Le molte facce della transfobia
La transfobia è talmente radicata nel substrato culturale che la riteniamo normale, riguarda soggettività numericamente marginali e socialmente marginalizzate. Eppure per evitare discorsi transfobici la cose da tenere in considerazione non sono poi molte
La transfobia è qualcosa di molto insidioso. Come altri tipi di violenza sessista o razzista o omolesbobifobica ha un aspetto evidente ed esplicito, quella che si riconosce immediatamente come tale – le botte, le ferite, le morti, ma ce n’è anche uno meno esplicito. Per farla visualizzare meglio immaginate un iceberg. C’è tanto ghiaccio emerso ma ancora di più sommerso, un po’ come l’economia italiana.
La transfobia è talmente radicata nel substrato culturale che la riteniamo normale, se non proprio un fatto naturale. Riguarda soggettività numericamente marginali, socialmente marginalizzate e relegate da svariati decenni all’ambito del sex work, che è già di per sé una professione marginalizzata ma comunque sfruttata. Non c’è niente di male a prendersela con persone considerate di volta in volta mostruose o sublimi, a seconda di quanto ci si avvicina agli standard estetici. Interpretiamo la transfobia come un forte disgusto, come l’ha intesa Martha Nussbaum.
Disgusto verso i corpi trans, verso la stessa decisione di alterare il proprio genere, disgusto verso persone e corpi considerati non desiderabili proprio in quanto trans, disgusto verso genitali che sono dove non dovrebbero essere (cioè nella mente di chi ne fa un’ossessione).
La parte sommersa va dal mobbing al lavoro, al non voler usare i pronomi corretti. Praticamente ogni tipo di vessazione possibile. I fatti delle ultime settimane hanno scoperchiato per l’ennesima volta la transfobia latente della società. Non è stata la prima e non sarà l’ultima volta. L’evoluzione procede per strappi violenti e prese di coscienza, dolorose per le persone trans che si vedono sempre oggettificate, molto meno dolorose per il resto della popolazione che ha un altro argomento di cui parlare e dibattere. Ma questo vale per ogni avanzamento dei diritti civili e sociali.
Deve cambiare la narrazione, deve cambiare l’idea che si ha delle soggettività in questione, altrimenti sarà sempre e solo una concessione che il corpo sociale dominante elargisce (non che anche con un narrazione diversa non sia comunque una concessione).
Nella triste storia di Ciro e Maria Paola la stampa è stata presa un po’ in contropiede. I primi lanci d’agenzia hanno parlato di Ciro come di una persona di genere femminile, la relazione è diventata di conseguenza una relazione gay (neanche lesbica, perché lesbica non è un termine adatto ai titoli. Al massimo lesbo, come se fossimo in un porno qualsiasi).
La stampa non era pronta a parlare di un caso di cronaca che coinvolgesse una persona trans che non fosse una donna trans, che non fosse stata uccisa, che questa persona non fosse nemmeno una sex worker. Oppure che non fosse una storia di riscatto sociale nonostante il fatto di essere trans. Queste sono le due possibilità perché la stampa prenda in considerazione una persona trans. Gioia o dolore, liberazione o aberrazione.
La stampa non vuole formarsi, la stampa è corresponsabile della visione distorta che le persone che leggono i giornali, o che leggono anche solo i titoli, hanno. Lo facciamo tutte e tutti di fermarci ai titoli e alle anteprime.
L’errore più frequente è usare il maschile per parlare di una donna trans, che diventa inevitabilmente “un trans o il trans”. Le parole formano il modo in cui vediamo la realtà. Usare il maschile per parlare di una donna porterà inevitabilmente a reiterare l’idea che una donna trans sia un uomo. Questa è un tipo di transfobia narrativa. Si racconta una storia ma nel modo sbagliato.
C’è poi la transfobia istituzionale, dove le leggi, i percorsi clinici sono il riflesso di una determinata e ben precisa concezione che lo Stato ha delle persone trans.
Persone che hanno bisogno di un determinato numero di check e concessioni. C’è una legge ma del 1982, quando tutto era diverso. Con una sentenza della Corte di cassazione nel 2015 a fare da piccolo ma decisivo aggiornamento come unico aggiornamento che prevede la rettifica anagrafica anche senza rettifica chirurgica genitale, ovvero il cosiddetto cambio di sesso.
L’iter per richiedere ed eventualmente ottenere una rettifica anagrafica o insieme una rettifica chirurgica dei genitali può durare vari anni dove avere dei documenti non corrispondenti porta a un minore accesso al lavoro, possibili discriminazioni in qualsiasi tipo di ufficio pubblico e privato. O tutto il discorso psichiatrico patologizzante, nel quale fino a non molti anni fa l’esperienza trans era fortemente patologizzata ovvero trattata come una patologia mentale che necessita di una cura, il cui nome tecnico è disforia di genere.
Di fronte a un iter così formalmente lungo non si può non pensare che non ci sia una precisa volontà di non cambiarlo, una non scelta è una scelta. E se non c’è una precisa volontà di cambiarlo è anche solo una solenne indifferenza. Mancano anche dei referenti politici, in realtà non solo per le persone trans e Lgbtqi ma direi per tutta la sinistra e per il movimento transfemminista. Per ultimo prendiamo la situazione carceraria, negli istituti che hanno una sezione per le donne trans sono o nei reparti isolati insieme ai sex offender o nei reparti maschili. Solo in un penitenziario le donne trans sono nel reparto femminile.
Questa situazione è abbastanza indicativa sia della concezione “rieducativa” del carcere che del discorso transfobico. Di fronte alla transfobia, allo smuoversi delle viscere, all’odio non c’è legge contro l’omolesbobitransfobia che tenga, nessuno spostamento da un manuale diagnostico all’altro che possa fare cambiare idea a qualcuno che prova un disgusto talmente forte da voler agire la violenza come risposta al proprio istinto.
Potrebbe essere una forma di difesa verso una realtà che non segue più alcune regole (cioè dal nostro punto di vista la norma eterocis, secondo la quale si può essere solo etero e solo cis) così come la sola volontà di prevaricare, di porsi come pietra angolare della norma. È quanto successo negli assassini di Willy Duarte e Maria Paola Gaglione.
Alla fine per evitare discorsi transfobici la cose da tenere in considerazione non sono poi molte anzi per farla facile facile è una sola: rispettare l’autodeterminazione delle persone, che riguardi il genere, il percorso, i pronomi, l’aspetto, il look, le pratiche sessuali e quelle relazionali.
Foto di copertina di Vittorio Giannitelli