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EUROPA

Le elezioni in Spagna e il dilemma dell’ingovernabilità

La tornata elettorale dello scorso 10 novembre, consegna alla Spagna un quadro quantomai aperto tra radicalizzazione delle destre, l’irrisolta questione territoriale e la forza crescente dei movimenti in tutto il paese

10 novembre 2019, la Spagna ha votato di nuovo. Quarta volta in quattro anni, due solo durante l’ultimo. Il partito socialista (PSOE) ritorna a vincere, ma non cresce, bensì perde tre scanni rispetto al 28 aprile e si allontana ulteriormente dalla maggioranza assoluta. La destra del partito popolare (PP), che in primavera aveva toccato i minimi storici, inverte la tendenza e conferma la seconda posizione, pur rimanendo abbondantemente distante dalla prima.

L’estrema destra di Vox è certamente la rivelazione di questa tornata elettorale: guadagna un milione di voti in più e si attesta come terzo gruppo parlamentare. Ridotto ai minimi termini, invece, il centro-destra di Ciutadanos, che occuperà la modestissima cifra di 10 scanni su 350.

A sinistra troviamo un Podemos fortemente debilitato: con 600 mila voti in meno rispetto ad aprile, la metà di quelli ottenuti quattro anni fa, approssima in modo sempre più nitido il “peso” esercitato da Izquierda Unida nei decenni anteriori al 15M. Non va meglio a Más País, il progetto capitanato da Íñigo Errejón, che con soli tre scanni rimane condannato all’ininfluenza.

 

Fig.1: Percentuale dei voti ottenuti da (da sinistra a destra) Partito Socialista (PSOE), Partito Popolare (PP), Vox, Unidas Podemos (UP) e Ciutadanos (Cs). La barra a sinistra si riferisce alle elezioni del 10 di Novembre (10N), quella sbiadita a destra alle elezioni del 28 Aprile (28A). 

 

Se dopo il turno primaverile il PSOE aveva come unica ostinata aspirazione quella di governare in solitaria (finendo di fatto per fracassare provocando nuove elezioni) ora sembra aperto (in parte indotto) alla possibilità di una coalizione. Al momento l’ipotesi più probabile pare essere un asse con Unidas Podemos, ma si tratta di un’opzione per nulla scontata, specialmente in un periodo segnato dalla crisi in Catalogna, che rende i patti necessari al via libera del parlamento particolarmente spinosi.

La situazione, pertanto, è tutta da definire e i tempi sono lunghi. Per questo, piuttosto che cimentarci in improbabili speculazioni sull’esecutivo che verrà, risulta più interessante analizzare la realtà consegnata dalle urne per provare a individuare le tendenze emerse e le discontinuità prodotte.

 

La radicalizzazione della destra

Vox è l’unico a uscire davvero a testa alta dalla giornata del 10 novembre. Nato nel 2013 da una costola di un PP in ginocchio per la corruzione, il partito entra in parlamento solo nell’aprile scorso, diventando nel giro di pochi mesi il più votato dopo quelli storici del bipartitismo [1]. Si conclude così quell’anomalia spagnola, che aveva visto la monarchia iberica resistere alla nascita di soggetti collocati a destra dei conservatorismi tradizionali, diversamente da numerosi stati europei. Tuttavia, esistono alcune differenze tra l’exploit della destra reazionaria in Spagna e nel resto d’Europa che è importante approfondire al fine di comprendere bene la natura del fenomeno.

In molti paesi il boom della destra è stata la manifestazione di una fascistizzazione trasversale della società una cui traduzione elettorale è stata (tra le tante cose) un travaso di voti dal blocco comunemente definito di sinistra a quello di destra. È il caso ad esempio della Francia dove il Rassemblement National riesce ad affermarsi anche in zone industriali in decadenza che prima appoggiavano il partito comunista. Niente di simile sembra darsi (per ora) in Spagna, almeno in maniera tangibile. Qui, le ultime quattro elezioni si sono caratterizzate proprio per una stabilità dei blocchi di destra e sinistra: nessuno dei due ha mai ottenuto meno del 42% (vedi Fig. 2), lasciando intendere che, al netto di fluttuazioni puntuali, non c’è stata una fuga di voti dal secondo al primo tale da alimentare la crescita dei reazionari.

 

Fig.2: Percentuale dei voti ottenuti dal blocco di destra e sinistra nelle elezioni del (da destra a sinistra) 20 Dicembre 2015, 26 Giugno 2016, 28 Aprile 2019, 11 Novembre 2019. Il blocco di sinistra include PSOE, Unidas Podemos (UP) e Más País (MM). Quello di destra Vox, Partito Popolare (PP) e Ciutadanos (Cs) [2].

 

Risultano dunque infondati i proclami del leader verde Santiago Abascal che si vanta di aver strappato un terzo dei votanti al PSOE. Il successo del suo partito sembra piuttosto essere frutto di una radicalizzazione tutta interna all’elettorato di destra, avvenuta a danno del PP e soprattutto di Ciutadanos. Un processo le cui tappe salienti si ritrovano nella sentenza all’indipendentismo, che ha condizionato gran parte della campagna, e nell’esumazione del dittatore Franco. In questo contesto Vox è riuscito a acquisire grande centralità mediatica (da notare che un suo membro, Ortega Smith, ha svolto il ruolo di accusa popolare nel processo all’indipendentismo) presentandosi come realizzazione più pura dell’opposizione patriota alla blasfemia socialista.

In questo quadro fenomeni come “il malessere degli esclusi dal progresso” e “i dimenticati dalla sinistra”, di cui spesso si parla a proposito delle nuove destre, rimangono fuori. L’ascesa di Vox segue una spinta ideologica, anziché sociale. Se ad esempio classifichiamo i voti in base al reddito medio dei seggi è possibile riscontrare come il partito di Abascal (ed in generale il blocco di destra) non sfonda nelle fasce meno abbienti, dove al contrario è egemone il partito socialista. In Fig. 3 è riportato la situazione dell’Andalusia, ma il medesimo comportamento sussiste anche per le altre comunità [3]. In fondo ciò non stupisce: la proposta di Vox è un ultraliberismo discrminatorio privo di quegli elementi di nazional-socialismo che pure compaiono nei discorsi dei vari Salvini, sotto forma di protezionismo o laburismo razzista. Non c’è traccia inoltre di quell’anti-elitismo con il quale le nuove destre provano talvolta a mascherarsi, cosa che nel caso di Vox distorcerebbe tremendamente con l’estrazione sociale dei suoi rappresentanti e il “sound” aristocratico dei loro cognomi.

Ovviamente questo scenario può mutare, ed in un certo senso dei primi segnali di viraggio verso un lessico più sociale ed anti-casta già si possono evidenziare. D’altro canto questa è l’unica possibilità per Vox di smarcarsi definitivamente da un PP che ha assolutamente bisogno di subordinarlo e controllarlo, come fatto con il raggruppamento Navarra Suma, per tornare a sperare di governare.

 

Fig.3: Percentuale di voto nei seggi andalusi espressa in funzione del reddito. Ogni punto rappresenta un seggio: la sua coordinata verticale indica la percentuale di voto ottenuta dai blocchi, mentre quella orizzontale il reddito medio del seggio. I valori sull’asse orizzontale sono i percentili del reddito medio, disposti in ordine crescente.

Il protagonismo dei territori

Si è già accennato all’importanza ricoperta dal conflitto catalano nel corso della campagna elettorale. Al di là della contingenza della sentenza, ciò costituisce una sfaccettatura di una più ampia questione territoriale che va oltre i sovranismi classici (basco, catalano, canario), e punta il dito contro quell’assetto centralista dello stato, nascosto dietro la foglia di fico dell’autonomismo. Su questo piano, il10N fornisce un’indicazione estremamente chiara rispetto a come votano gli spagnoli: pensando ai propri territori (con tutte le differenti declinazioni che ciò possiede) [4].

Rispetto al 2015, infatti, le liste legate a specificità locali sono quasi raddoppiate, e riguardano comunità come Valencia e la Galizia, la Cantabria e l’Aragona [5]. Qui la candidatura del movimento “Teruel Existe” ha un valore emblematico, anziché aneddotico. Teruel è un capoluogo di provincia di soli 35 mila abitanti situato a 300 kilometri da Madrid ed altrettanti dalla costa. Negli ultimi anni si è convertito nel simbolo della “Spagna svuotata” (España vaciada), ovvero quel percorso di mobilitazione che denuncia lo spopolamento delle aree rurali della penisola, e la mancanza di infrastrutture, nonché di un meccanismo appropriato di distribuzione dei fondi tale de consentire un livello minimo di benessere. Si tratta di un problema che riguarda una buona porzione della parte interna dello stato dove ormai si concentra meno del 20% della popolazione.

Domenica scorsa Teruel Existe è entrato in parlamento. Un’analisi dei risultati nella relativa circoscrizione suggerisce che una frazione rilevante dei suoi voti proviene dal blocco di sinistra. Una tendenza simile (seppur in situazioni storico/culturali molto diverse) si riscontra a Corunha dove sale il Blocco Nazionalista Galiziano e già da qualche anno in Euskadi e Cataluña, a favore rispettivamente di Bildu ed Esquerra Repubblicana (qui va evidenziato la candidatura della CUP, premiata con 2 scanni). Anche il voto a Más País va letto in chiave territoriale: conquista uno scanno a Valencia, dove si fonde con Compromís, e due a Madrid in cui si beneficia del municipalismo di Carmena.

Si sgretola sempre di più, quindi, l’idea pablista di “gestione centralizzata del cambiamento”. Probabilmente le cause della crisi di Podemos vanno cercate pure qui: non solo nella fine dell’illusione 15M o nelle guerre interne tra i suoi dirigenti, ma anche nell’incapacità di farsi interprete di una nuova dimensione territoriale della politica spagnola. Un’incapacità (o mancanza di volontà) organizzativa, ma prima ancora emotiva, che ha visto Iglesias & Co non riuscire a sintonizzarsi con il senso comune dei “territori indignati”.

 

La debacle di Ciutadanos

Ma il vero sconfitto del 10 novembre è il partito di Albert Rivera. Ciudadanos entra in parlamento nel 2015 contendendo a Podemos la bandiera della “nuova politica”. Lo fa con un discorso cool e neoliberale, che a tratti ricorda Renzi, dotato di particolare appeal agli occhi di quel centro-sinistra deluso dalla corruzione e l’inerzia del partito socialista. Negli ultimi due anni assistiamo però ad una pesante svolta a destra in cui la lotta all’indipendentismo (condita da un’insopportabile astio che non risparmia il femminismo) riveste un ruolo di spicco. Sebbene in una prima fase questa strategia da i suoi frutti in termini di trasversalità dell’elettorato, il crollo della settimana scorsa ha dell’incredibile. Rivera ha già lasciato la politica ed è difficile immaginare per il suo partito un destino diverso dalla scomparsa (magari attraverso l’assorbimento da parte del PP).

Su questo processo sono possibili varie letture. La più ovvia è quella che si riferisce alla figura di Rivera. Un personaggio istrionico e gasato, accelerato ed in alcuni casi ridicolo, ha finito per risultare oggettivamente sgradevole.

Più interessante è guardare all’inconsistenza del suo progetto politico. Ciudadanos ha fallito nell’intento di aprire in Spagna uno spazio liberale, nel senso europeo della parola: diritti civili, tecnica, modernità, ma soprattutto potere di stato controllato e ridotto. Al contrario, non è andato oltre una versione 2.0 del PP: troppo stato, troppo regime, troppo poco “liberal”. Non sorprende che i suoi voti siano passati a Vox.

 

Il partito di stato

Alla fine, chi raccoglie il testimone di partito di stato sono i socialisti. Il PSOE governa ormai dal primo giugno 2018, momento in cui la mozione di sfiducia contro l’esecutivo popolare di Mariano Rajoy viene approvata in parlamento. Fin dall’inizio, il neo presidente Pedro Sánchez è consapevole che il suo mandato durerà poco, per i tempi legali della legislatura ma soprattutto per la fragilità della maggioranza che lo sostiene. Per questo i mesi che seguono si convertono in una campagna elettorale a tutti gli effetti.

In una prima fase il partito socialista sembra guardare a sinistra. Otto dei ministeri, insieme alla vicepresidenza del governo, sono occupati da donne; da luce verde all’approdo dell’Aquarius nel porto di Valencia e fissa come obiettivo l’esumazione di Franco. Qualcuno parla di “PSOE podemizzato”. Con questo cocktail di femminismo decaffeinato e progressisimo verde impone il ricatto «io oppure i barbari di Vox». E funziona: il PSOE conquista il primo posto alle elezioni del 28 aprile 2019, come non accadeva da 11 anni.

È negli ultimi mesi che si sperimenta un chiaro giro a destra. Il cambio d’atteggiamento in materia di politiche migratorie è paradigmatico: lo sbarco dell’Aquarius rimane un episodio isolato e la linea che prevale è quella di multare chi soccorre persone in mare. Rispetto al tema catalano, sparisce qualsiasi auspicio di dialogo, per quanto ipocrita questo potesse essere, e si abbraccia senza esitazione la logica della repressione, fino ad arrivare a rivendicarsi «il controllo del potere giudiziario da parte del governo». Ritroviamo infine un PSOEmacronizzato”.

Con questo PSOE proverà a governare Podemos. Il distintivo di stato, che nell’ultima campagna elettorale ha brillato come non mai, è da sempre il marchio di fabbrica dei socialisti. Per questo costa molto immaginare una traduzione istituzionale delle istanze figlie del 15M, ed in generale di qualsiasi politica di governo alternativa all’inerzia di stato. È un’inerzia che ad ogni modo dovrà fare i conti con lo spettro dell’ingovernabilità, ma soprattutto con la crescente forza dei movimenti in tutto lo stato. Non solo gli indipendentismi, ma anche il femminismo, l’ambientalismo (tra poche settimane ci sarà il COP a Madrid e la mobilitazione già sta montando), i pensionati e i collettivi per la casa. Un mosaico di soggetti e percorsi che ora come ora è più vivo che mai.

 

Note

[1] In questo caso per “partiti storici del bipartitismo” ci riferiamo essenzialmente a PP e PSOE.

[2] Utilizziamo per semplicità questa definizione di “destra” e “sinistra”. Si tratta ovviamente di un’approssimazione che si scontra con il fatto che molti elettori socialisti si definiscono di centro (conformemente alle politiche del partito), così come una parte di quelli di Ciutadanos si definisce di centro-sinistra.

[3] Fanno eccezione la Castiglia, Galizia e Murcia, dove la destra ha un radicamento storico e meritano di conseguenza un ragionamento a parte, sicuramente più ampio.

[4] Anche Vox a modo suo si inserisce in questo tipo di discorso, fomentando il rancore tra regioni ipoteticamente privilegiate e quelle dimenticate, e proponendo come unica soluzione l’abolizione delle autonomie ed il centralismo assoluto.

[5] Proprio in virtù della loro carattere locale, questi soggetti hanno un’origine, una storia e dei connotati molto diversi tra loro. Si va dai partiti regionalisti come quello cantabro, agli indipendentismi dei partiti catalani. In tutte queste formule, comunque, sopravvive un elemento comune di critica al centralismo di stato e soprattutto di priorità dell’identità territoriale.