ROMA
Le donne e il sogno
Per festeggiare il loro decennale, l’associazione Le donne del Muro Alto, che raccoglie ex detenute o ammesse alle misure alternative nel carcere di Rebibbia, hanno replicato al teatro India di Roma “Olympe” storia di una donna vissuta e uccisa per non aver potuto e voluto rinunciare a se stessa
C’è stato un giorno, duecentotrenta anni fa, in cui una donna ha preferito morire pur di restare interamente se stessa. Il suo nome era Olympe de Gouges, era il 1793, anno in cui la rivoluzione francese divenne Il Terrore e con esso la fine di una storia e di una speranza. Il reato per il quale Olympe venne condannata a morte fu di scrivere quel che stava accadendo e questo, duecentotrenta anni fa, era una doppia colpa: quella di denunciare e quella di scrivere. Per una donna, una colpa mortale: «Non mi hanno perdonato – è la stessa condannata a dirlo – di essere una donna che scrive alla Francia invece che all’amante»
Ovviamente non è, quello di Olympe, un caso isolato né nella storia né nell’attualità. Ma La donna che visse per un sogno, liberamente tratto da un libro di Maria Rosa Cutrufelli (Sperling & Kupfer 2008), è rimbalzato ovunque dopo essere approdato in teatro con la regia di Francesca Tricarico e con attrici della associazione Le donne del Muro Alto, ex-detenute e ammesse alle misure alternative alla detenzione del carcere di Rebibbia, nella sezione Alta sicurezza, e con studentesse di Roma Tre.
Forse per caso o forse per un comune sentire, l’autrice del romanzo e la regista si sono incontrate nel carcere di Rebibbia e dall’incontro è nata una inedita alchimia. Maria Rosa, scrittrice e giornalista, con è La donna che visse per un sogno, è stata finalista al premio Strega. Francesca entra nella sezione alta sicurezza di Rebibbia nel 2008, grazie a un master, e ci rimane cinque anni durante i quali lavora anche con i fratelli Taviani per la regia del film Cesare deve morire, interpretato da un gruppo di carcerati e vince l’Orso d’Oro a Berlino nel 2012, oltre ad ottenere varie nomination sia per l’Oscar che per altri premi.
Dal magnetismo del libro di Cutrufelli e dalle antenne di Tricarico nasce il progetto teatrale che ripercorre gli ultimi mesi di vita di Olympe de Gouges, drammaturga e attivista francese vissuta durante la rivoluzione, che dedicò la sua vita e le sue opere ai diritti delle donne e di tutti gli emarginati. La scena è fissa: attorno a un tavolaccio tre detenute nel carcere della “rivoluzione” e, poco più in là, una donna né giovane né anziana. Le luci illuminano alternativamente Olympe o le tre donne che, a guardar bene, “in quanto prigioniere” parlano il linguaggio della reclusione, senza tempo né luogo. È Olympe a scandire il tempo e i luoghi della storia delle donne.
Ma perché Francesca Tricarico sceglie di rivolgere la sua attenzione alle donne che, a ben vedere, rappresentano “solo” il 4 per cento dell’intera popolazione carceraria? Tutto è cominciato da una domanda che la regista ha fatto a se stessa e all’istituzione: per quale ragione le sole attività previste per le detenute sono cucina, cucito o poco altro? Perché per loro non sono previste attività culturali? Le risposte possono essere molte ma quella che convince la regista a presentare il progetto teatrale è che «le donne sono più difficili». L’inizio del lavoro assieme è stato, infatti, segnato da diffidenza e lontananza per oltre un anno. Al termine del quale è scattato qualcosa: le detenute coinvolte nel progetto teatrale hanno iniziato a leggere, fare ricerche in biblioteca, proporre testi da rappresentare. È stata questa la “scoperta” de La donna che visse per un sogno. È stata questa la scelta.
A dieci anni dalla nascita della associazione, a otto dal primo allestimento teatrale, il compleanno è stato festeggiato il 10 novembre al teatro India di Roma con dieci candeline e una nuova rappresentazione di Olympe.
Può il teatro cambiare il sentire e forse anche l’agire di donne detenute o ex nell’alta sicurezza? Sì perché, ha detto in modo convincente l’autrice Cutrufelli, il teatro mette in gioco i corpi più di ogni altra forma di arte e nessuno meglio delle donne tantopiù se rinchiuse il carcere, sa cosa questo voglia dire. «A casa mia – lo ha detto una delle attrici detenute – mi hanno insegnato che nessuno muore per nessuno. Invece questa storia e i libri per studiarla su donne e uomini morti per il bene comune dicono altro. E adesso?».
La domanda cade come una pietra sull’intero sistema detentivo perché il carcere rinchiude ed esclude ma anche i pregiudizi, una volta scontata la pena, possono farlo.
Così, Olympe diventa anche il riscatto, la possibilità di restare se stesse senza dover cedere a legami familiari pesanti come catene. “Adesso” per molte detenute, può voler dire che il “fuori” non è un baratro ma un’alternativa.
È la lezione di Christa Wolf: «tra uccidere e morire c’è una terza via, vivere».
Immagine di copertina da Le Donne del Muro Alto (profilo fb)