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L’atto mancato
La super-produzione di quest’anno del Piccolo Teatro di Milano è dedicata a Sigmund Freud e a “L’interpretazione dei sogni”. Uno spettacolo affascinante ma che non si libera di alcuni luoghi comuni sulla psicoanalisi. Con la regia di Federico Tiezzi da un testo di Stefano Massini e l’interpretazione principale di Fabrizio Gifuni
Quando all’inizio si vede un sipario trasparente con il disegno di uno spazio prospettico e a lato un uomo seduto con la testa tra le spalle in segno di disperazione, si può già intuire dove lo spettacolo andrà a parare. La prospettiva, che spesso ci viene detto è simbolo di un’umanità razionalizzante e accentratrice che vuole sottomettere la concretezza dello spazio all’astratto del pensiero, viene “svuotata” lateralmente dal dubbio di un uomo che sta perdendo i suoi punti di riferimento. È la celebre vulgata di un inizio Novecento attraversato dai “maestri del sospetto” – Nietzsche, Freud e Marx – che mostrerebbero “l’altra faccia” del progressismo Ottocentesco: là dove c’era la razionalità positivistica, ora c’è l’irrazionale dell’inconscio; là dove c’era la trasformazione della società, ora c’è il sovversivismo piccolo-borghese; là dove c’era la promessa di emancipazione, ora c’è il dubbio. Questo modo, umanistico e “debole” ante-litteram, di vedere la svolta d’inizio secolo risponde a un preciso progetto riguardo alla psicoanalisi: farne una disciplina dell’altro della coscienza che “svelerebbe” finalmente la falsità e la natura irrazionale del soggetto della scienza. I termini che vengono usati per descrivere la psicoanalisi sono spesso rivelatori: la profondità, il rimosso”, il baratro. È sempre tutto uno “scandagliare”, uno scavare, un “penetrare” quello che sta “sotto”. E allora la psicoanalisi di inizio secolo è quella che è stata in grado di guardare i meandri nascosti là dove il soggetto della modernità non aveva il coraggio di andare. Ma è davvero così?
Freud o l’interpretazioni dei sogni (regia di Federico Tiezzi, da un testo di Stefano Massini, al Piccolo Teatro Strehler di Milano fino all’11 marzo 2018) sembra essere in tutto e per tutto portatore di questa idea della psicoanalisi invero ideologica, che però sarebbe sbagliato non riconoscere che faccia ormai parte del senso comune. D’altra parte che cosa si dice faccia l’esperienza analitica? Non serve forse a conoscere una parte di noi a cui non siamo in grado di dare senso? A “gettare luce” sul cono d’ombra della nostra soggettività? Ed ecco che la scena, splendidamente curata da Marco Rossi, con l’aiuto dei video Luca Brinchi e Daniele Spanò, è caratterizzata dal buio e da una serie di porte, tutte uguali, che danno un senso quasi labirintico di smarrimento e di soglia che deve essere oltrepassata. L’inconscio è “nascosto” e noi dobbiamo andare a scoprirlo; dobbiamo essere in grado di “varcare” quella porta. Non è un caso che lo spettacolo venga portato per quasi tre ore sulle spalle di Fabrizio Gifuni, che dà un’immagine di un Freud solitario, un “padre della psicoanalisi” che sembra aver inventato una disciplina dal nulla.
E tuttavia c’è qualcosa che non torna in tutto questo, perché l’inconscio è tutt’altro che l’essenza del profondo, semmai è il tassello mancante della consistenza della superficie. La psicoanalisi non “scava”, piuttosto si mette a guardare quelle cose che essendo così tanto in superficie non vengono solitamente ritenute degne di alcuna importanza. Le battute (“ma stavo solo scherzando”), le dimenticanze, i piccoli tic della vita quotidiana sui quali passeremmo volentieri sopra, sono proprio quelli sui quali invece Freud sosteneva di dover soffermarsi a pensare. Non le questioni più importanti, ma quelle meno. Non le grandi questioni dell’esistenza ma quelle apparentemente senza alcun significato: una psicopatologia della vita quotidiana appunto. E questo discorso è ancora più valido per quanto riguarda le analisi dei sogni. Normalmente si pensa che i sogni siano custodi di una verità nascosta, inaccessibile al soggetto. Freud invece sapeva bene che solitamente il desiderio che muove un sogno ci è per lo più assolutamente noto: il problema non è tanto quello che il sogno vuole dire, ma il modo in cui lo dice. La questione non è il contenuto, ma la forma. Il soggetto vorrebbe esprimere il proprio desiderio, ma non riesce a controllare fino in fondo la tessitura linguistica del suo enunciato. L’enigma del sogno non è nel profondo, ma è nella superficie. O per meglio dire, l’enigma è la sua messa in scena. Perché il mio desiderio viene espresso in quel luogo? Con quei personaggi così strani? Con tutti quei dettagli che sembrano non c’entrare nulla?
Lo spettacolo di Tiezzi e Massini su questo punto esprime una posizione ondivaga: pur veicolando diversi luoghi comuni sulla psicoanalisi come disciplina del profondo, riesce a volte a mettere a tema il nocciolo formale dell’inconscio, come quando in una scena spiegando il concetto di “spostamento” ci si sofferma sul dettaglio di un sogno che a prima vista sembrava marginale (un giardiniere con il volto coperto che rimane per diversi minuti nascosto sul fondo della scena e che poi si scopre essere legato a un ricordo d’infanzia). Ma c’è anche un’altra scena che in questo senso risulta ancora più efficace (ed è forse la più riuscita di tutto lo spettacolo): uno dei pazienti si rifiuta di raccontare il proprio sogno, allora Freud/Gifuni fingendo di trattarlo alla pari e facendogli credere di considerarlo un collega durante una conversazione informale, decide di raccontare lui stesso al proprio paziente un suo sogno. Con una certa astuzia retorica spinge poi il proprio interlocutore a “ripetere” quello che gli ha appena raccontato. Nello scarto tra le due versioni, nella scelta di omettere o di sottolineare qualcosa di diverso, emerge qualcosa della verità soggettiva, indipendentemente dal fatto che il soggetto voglia o non voglia dirla. È la verità che parla al nostro posto, anche se non ne vogliamo sapere nulla. Lacan diceva ai propri pazienti che l’unica regola della psicoanalisi è quella di parlare. Un analizzante può pure inventarsi tutto di sana pianta e raccontare qualcosa che apparentemente non lo riguarda: il suo inconscio comunque verrà fuori ed emergerà dalle sue parole. Questo perché non importa il contenuto di quello che verrà detto, ma il modo in cui verrà detto, la scelta delle parole, l’ordine sintattico, le ricorrenze significanti. L’inconscio è strutturato come un linguaggio perché è nel linguaggio che ha il suo luogo d’emersione. Cioè nella superficie, non nel profondo.
Ma allora il problema che forse bisognerebbe porsi è: qual è la forma teatrale di questa dimensione dell’inconscio linguistica e superficiale? Come è possibile mettere in scena l’effetto prospettico di spostamento che è implicato nel linguaggio? Se l’inconscio non riguarda il profondo ma riguarda la stessa messa in scena, cosa vuol dire affrontare il problema dell’inconscio a teatro, se il teatro non è nient’altro che questa messa in scena?
In uno spettacolo più lynchiano (soprattutto Rabbits) che ronconiano – perché in effetti è il cinema il vero convitato di pietra della regia di Tiezzi – si finisce allora proprio con il teatro e con lo svelamento delle quinte (la mossa meta-teatrale per eccellenza). “L’inconscio è il teatro” – la suggestione sul quale termina lo spettacolo – non è allora solo un’affermazione puramente retorica (sembra ormai che non si possa arrivare alla fine di uno spettacolo teatrale senza che ci venga ripetuto il classico elogio di circostanza del teatro stesso) ma l’idea che l’unico vero luogo dove andare a cercare l’inconscio a teatro sia proprio la scena stessa. E allora forse non c’era davvero bisogno di scomodare Freud per parlare dell’inconscio a teatro, se non per accorgerci proprio alla fine che Freud in realtà era già da sempre con noi… il problema è che era così in superficie che forse non ci eravamo nemmeno accorti della sua presenza.