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MONDO
L’appello di Öcalan dalla prigione di Imrali: parole di pace per un mondo in guerra
Nel pomeriggio di giovedì 27 febbraio, il leader del movimento di liberazione curdo ha rilasciato una dichiarazione sul futuro del Pkk e della questione curda in Turchia. Il commento ragionato di DINAMOpress
Finalmente, dopo mesi di attesa, è arrivato il messaggio di Abdullah Öcalan dall’isola-carcere di Imrali, circondata dal mar di Marmara in Turchia. Un momento di un’importanza storica significativa, anche solo per il fatto che sia avvenuto. Il leader del movimento di liberazione curdo è imprigionato dal 1999, ovvero da circa 26 anni, e dalla sua incarcerazione ci sono stati vari tentativi di apertura di negoziati con lo stato turco, soprattutto nel periodo 2013-2015.
Negoziati che all’epoca sono naufragati per colpa del governo di Erdoğan, che ha tentato di schiacciare in ogni modo la resistenza del popolo curdo: in Siria lo ha fatto tramite le bande dell’Isis, mentre nel territorio della Repubblica turca si è avvalso delle truppe dell’esercito regolare turco e delle milizie fasciste, che hanno massacrato le popolazioni delle città del sud-est della Turchia, mettendo sotto assedio la popolazione con carri armati e artiglieria pesante.
L’attacco del governo di Erdoğan in Turchia è stato anche istituzionale, prendendo di mira il Partito Democratico del Popoli (HDP), la formazione politica nata nel 2012 che univa forze politiche filo-curde e di sinistra.
Nel 2016 sono stati arrestati, con accuse infondate, i suoi principali leader e migliaia di dirigenti e militanti politici, nonché destituiti decine di sindaci democraticamente eletti. Nel 2021 è stata presentata dalla procura della Repubblica turca alla Corte costituzionale la richiesta di messa a bando dell’HDP.
Sta di fatto che nelle elezioni del 2023, il Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia del Popoli (DEM), una delle compagini politiche che hanno dato vita all’HDP e che ha poi “accolto” i suoi candidati dopo la purga di Erdoğan, è di nuovo riuscito a entrare in Parlamento superando la soglia di sbarramento del 10%.
Insomma il movimento di liberazione curdo è tenace e per Erdoğan combatterlo militarmente potrebbe non essere più l’opzione migliore, per lo meno nei confini turchi. È in questo quadro che va letta la dichiarazione fatta da Öcalan giovedì 27 febbraio.
Sebbene la caduta del clan degli Assad in Siria sia effettivamente una vittoria politico-militare significativa per Erdoğan, questa nasconde anche una fragilità per il suo piano neo-ottomano di conquista nella regione. La mappa del Medio oriente si sta radicalmente trasformando, e i video Ai generated fatti circolare da Trump sul futuro di Gaza preannunciano altri grandi e terribili cambiamenti, qualsiasi essi siano.
Erdoğan è esposto su molti fronti militari, con una economia nazionale in crisi da anni e un consenso solido ma che non splende più come negli anni scorsi.
Un sollevamento del popolo curdo in Turchia dovuto a una mancata risoluzione della questione curda potrebbe essere il “guaio” che Erdoğan non si può permettere in questo periodo. Questo potrebbe essere il motivo dell’apertura al negoziato attuale, che è iniziato a settembre dell’anno scorso. Il condizionale è d’obbligo, perché il doppiogiochismo, la cattiveria e l’infamia di Erdoğan sono ben noti e non c’è nessuna garanzia che compia qualunque tipo di passo avanti nel dialogo con il movimento curdo.
Ma riprendere le fila del contesto precedente all’ultima dichiarazione di Öcalan serve appunto per rimarcare che quanto detto dal leader curdo non deve essere letto come una ingenuità, come un discorso moderato, o di resa, men che meno di tradimento della causa. Al centro del messaggio, come è stato per il cambio di paradigma degli inizi del 2000 che ha abbracciato il concetto di Confederalismo democratico, sta il nuovo cambio della politica del movimento curdo, e in particolare del PKK. Ovvero che la lotta non deve più concentrarsi sul piano armato e militare, ma su quello politico e di confronto democratico.
Il significato di questo messaggio, che a prima vista può sembrare contraddittorio, è che l’utilizzo delle armi non deve più essere il centro dell’azione politica del movimento curdo, che invece deve essere focalizzato sulla costruzione di una società democratica, rispettosa delle differenze e dell’auto-determinazione dei popoli.
E questo non è solo un auspicio per il futuro, ma è la descrizione di ciò che già sta accadendo lì dove si sta mettendo in pratica il concetto di Confederalismo democratico, basato sull’emancipazione delle donne, sull’ecologia e sul municipalismo radicale.
E questo non vuol dire, in nessun modo, la resa incondizionata e l’abbandono della lotta armata per principio, anzi. Lo spiega bene un passaggio di questo articolo pubblicato sulla rivista Lêgerîn:
«“Öcalan ha chiaramente sottolineato nel suo appello “Il secondo secolo della Repubblica (turca) può ottenere una continuità fraterna e duratura solo se coronato dalla democrazia. Non esiste un percorso al di fuori della democrazia per la costruzione e l’attuazione del sistema”. Quindi o la Repubblica di Turchia si trasforma nel suo profondo e adotta concrete misure di democratizzazione o non terminerà il suo secondo secolo di esistenza». Più che essere una minaccia, questa è una lettura lucida del contesto attuale.
Infatti il PKK, tramite Murat Karayılan, membro del consiglio esecutivo del partito, ha dichiarato subito dopo il messaggio di Öcalan le condizioni dell’organizzazione per discutere del disarmo, tra cui è chiaramente richiesta la liberazione del leader e la dichiarazione di un cessate il fuoco bilaterale. Il partito dichiara che non deporrà le armi senza garanzie e condizioni solide, ma soprattutto sottolinea che vede di buon grado l’apertura al dialogo di una parte dell’apparato statale turco, ma permangono grandi problemi di fiducia.
Fiducia ancora lontana dall’essere raggiunta, visto che nella notte dopo l’uscita dell’appello sono stati riportati scontri tra l’esercito turco e il PKK intorno alla città di Duhok, nel nord dell’Irak. Intanto le parole di Öcalan hanno già fatto il giro del mondo, raccogliendo l’appoggio del presidente dell’Unione patriottica del Kurdistan (PUK), Bafel Talabani, a capo di uno dei due partiti curdi che governano il nord dell’Irak. Ma hanno accolto positivamente il messaggio anche rappresentanti dei governi di Stati Uniti, Francia, Regno unito e si sono espresse a favore anche le Nazioni unite, tramite il segretario generale António Guterres.
Segni di speranza per un futuro di pace, che devono però essere passo passo calibrati nel contesto politico globale, segnato da continue escalation di guerra e distruzione. Il percorso che prenderà l’appello di Öcalan è incerto e non è per nulla scontato che il governo di Erdoğan risponda in modo pacifico. Ma le parole che arrivano da Imrali rimangono in ogni caso un’occasione imperdibile per aprire un dialogo di pace in un mondo in guerra.
Immagine di copertina di Renato Ferrantini
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