approfondimenti
MOVIMENTO
L’ape militante e lo sciame
Storia della militanza a volo d’uccello e di come oggi sia diventata ibrida, mettendo insieme forme antiche e nuove. Vedi i Gilets Jaunes
Cospiratori, militanti, attivisti – di cosa si parla lo si sa. Lo sanno all’incirca i protagonisti, lo sanno gli sbirri che li sorvegliano e sono attenti in prima battuta ai “caporioni”, lo sa con qualche approssimazione l’opinione pubblica che li teme o ne è affascinata e in qualche occasione insurrezionale alta se ne fa addirittura trascinare. È gente che si muove e smuove il mondo intorno a loro: avanguardia, canaglia, racaille, mob, insomma il fiore del genere umano.
Sono cospiratori/militanti/attivisti occasionali e professionali, militanti immaginari fuori contesto, militanti delusi o burocratizzati o pensionati troppo spesso impegnati ferocemente a demolire ogni pratica sovversiva delle generazioni successive, martiri e terroristi, eroi e traditori, asceti e libertini…
Quasi sempre si presentano come leader di movimento, che conducono strati più numerosi e meno motivati, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del ruolo. I rapporti fra avanguardia e massa si sono configurati in modi assai diversi nel corso del tempo.
Nella Rivoluzione inglese i colonnelli della New Model Army sono allo stesso tempo leader politici, ma a loro si affiancano agitatori politici senza gradi quali i Levellers o i predicatori di sette puritane eterodosse.
Nella Rivoluzione francese intorno ai grandi capi assembleari della Convenzione e della Comune si muove una folla di quadri di base sanculotti che hanno la loro base nei comitati rivoluzionari e nelle legioni delle 48 sezioni parigine; dopo la sconfitta di Termidoro il giacobinismo prende spesso la forma di società segreta, come la congiura degli Eguali o di Babeuf nel 1796, famosa anche perché uno dei sopravvissuti, Filippo Buonarroti, trasmise la forma-cospirazione alle società segrete della Restaurazione e delle prime leghe socialiste illegali.
Con lo sviluppo del movimento operaio il carattere cospirativo e l’ideologia giacobino-egualitaria vengono meno e si formano partiti e sindacati che definiscono forma differenziate e pubbliche di militanza, con inevitabile ricorso alla professionalizzazione dei quadri. Non rientrano in questa modalità per principio le organizzazioni anarchiche e quelle che all’illegalità sono costrette dalla repressione. In questi casi la figura del militante ha un forte segno vocazionale e integrale e il suo esempio più intenso e prolungato nel tempo fu il populismo russo dei naródniki, dove si fondevano apostolato presso i contadini, utopie esistenziali e pratiche terroristiche.
Molti di questi elementi si mescolano nella figura del rivoluzionario professionale bolscevico e nel concetto leniniano di avanguardia politica esterna alla coscienza spontanea della classe, che si contrappose al cospirazionismo nei naródniki più radicali quanto alla pratica moderata socialdemocratica – non senza assorbirne spregiudicatamente quanto poteva servire alla causa insurrezionale, fossero le rapine in banca o l’organizzativismo kautskiano. Dalle critiche dell’altra grande rivoluzionaria coeva, Rosa Luxemburg, nasce invece un altro modello, quello dell’avanguardia interna alle masse, che segnerà dopo il 1968 larga parte del movimento italiano ed europeo in alternativa alle esperienze armate.
Abbiamo finora parlato di bianchi, ma ricordiamo che le rivolte degli schiavi e dei colonizzati hanno contrappuntato tutta questa storia, riprendendo peraltro i vari modelli occidentali di militanza e leadership, dal giacobinismo conseguente di Toussaint Louverture e Dessalines ad Haiti, al leninismo di Mao e alle più recenti esperienze populistiche e libertarie dalla seconda metà del Novecento in poi.
Abbiamo finora parlato di maschi: nella forma i movimenti delle donne – dopo l’exploit “girondino” di Olympe de Gouges – nell’Ottocento e primo Novecento ricalcano le orme dell’associazionismo liberale riformista, mentre da metà Novecento in poi assumono connotati specifici e forzano lo slittamento da “militante” ad “attivista” in cui cade il ruolo universale e separato di portatore di un’ideologia egemonica complessiva. Con qualche ambiguità la distinzione fra autorità e autorevolezza rinnova la dialettica di organizzazione e spontaneità in cui si era impigliato il movimento comunista all’epoca di Vladimir e Rosa. Prima ancora della de-strutturazione della classe operaia di fabbrica bianca e maschile che fungeva da soggetto ideale della militanza in Occidente, il movimento delle donne attraversa e movimenta altri strati sociali e di genere, sperimentando uno stile diverso di intervento, cui si richiameranno altri movimenti settoriali e correnti moltitudinarie generaliste.
Nel variegato cosmo dell’attivismo il leader è degradato a semplice influencer. Tuttavia anche un movimento leaderless spesso significa solo che i leader sono numerosi e intercambiabili, che essi, come gli angeli di una leggenda talmudica citata da Benjamin, sono creati nuovi ogni istante, in schiere innumerevoli affinché, dopo aver cantato il loro inno al cospetto del Signore, cessino e svaniscano nel nulla.
Domandiamoci ora il perché di queste variazioni che attraversano e contrappongono una minoranza attiva – il fiore del genere umano, ribadiamo, il suo principio di movimento – capace di persuadere e trascinare masse molto più vaste e rovesciare assetti di ingiustizia e di oppressione. Per Machiavelli il popolo ha un umore specifico, quello di non volere essere comandato, mentre i Grandi hanno quello opposto di comandare. Il popolo (o una classe), appunto, non “è” un umore ma lo “ha”, cioè non si pone in un rapporto consustanziale di identità (“è”), piuttosto si mantiene in un rapporto di distinzione, “ha”, e quindi potrebbe anche non averlo, sebbene esso sia di sua pertinenza più probabile. Il soggetto – collettivo ancor più di quello individuale – è un soggetto diviso, che non collima con la propria essenza ma “usa” i propri presupposti. Dunque è verosimile che solo in alcune congiunture quell’umore si manifesti e un nucleo consistente del popolo lo incarni, dando il via a fratture e cambiamenti dell’ordine costituito. Ogni appropriazione di quell’umore è operazione a rischio di fallimento o (peggio) di riuscita controintenzionale.
Anche se la struttura dell’umore sovversivo organizzato non è perfettamente speculare alla natura dell’oppressione cui si contrappone, è evidente che la metamorfosi della società disciplinare e la perdita di centralità della forma fabbrica e della sussunzione reale a favore del controllo diffuso e della sussunzione formale e dell’estrazione hanno conseguenze sulla militanza rivoluzionaria, che ricalcava a rovescio la forma fabbrica e la sua disciplina militare. La frammentazione dell’esperienza, che si connette a quella del lavoro, riporta ad attualità forme decadute di attività rivoluzionaria più che mantenere una continuità, la disseminazione corrode la centralizzazione e il tumulto sopravvive alle rivoluzioni epocali perpetuandone il senso.
Nei dibattiti umanistici sul canone letterario si diceva che il rapporto con i modelli classici doveva essere non quello del pappagallo o della scimmia, ma dell’ape che sugge il polline da vari fiori per elaborare un suo miele. Così un attivista di oggi dovrebbe attingere a varie formule militanti del passato, comprese le tradizioni anteriori al ribaltamento della sovranità disciplinare, e possibilmente inventarne di nuove, adatte a circostanze inedite. L’ape-militante ha davanti a sé praterie fiorite, prodotte proprio dal sovrapporsi del nuovo estrattivismo biopolitico alle inveterate dinamiche della società industriale. La catastrofe ambientale, per dirne una.
Quello che ci interessa è però il repertorio dei mezzi con cui intervenire, data la più stretta inerenza tra forma di vita e azione specifica, rispetto all’usuale e decaduto rapporto fra militante e ideologia complessiva. Il miglior esempio che saprei fare è l’improvvisarsi marinai per salvare in mare i migranti, come ha fatto Mediterranea. Esiste peraltro una vasta gamma di azioni performative possibili – dal volontariato alle pratiche femministe di cura, denuncia e protesta, dalla resistenza di strada allo sciopero sociale, senza che quelle invalse abbiano perso attualità stante la ricorrenza dell’oppressione ordinaria e militare.
È una prospettiva sperimentale poco rassicurante, beninteso, ma piuttosto realistica in un’epoca di sfaldamento dei partiti di massa e di disincanto per gli schemi avanguardistici cresciuti a ridosso delle grandi ondate contestatrici del decennio 1968-1978 e del volgere di millennio. La nostalgia può essere utile per indagare strumenti e forme di vita alternativa che in altri tempi hanno dato prova di sé, a patto che siano strappate alla nostalgia e usate come “citazioni”, dirottando in senso politico il vintage commerciale, che non è un ritorno integrale ma un riuso per singoli capi o acconciature. Moda e Rivoluzione sono gemelle da un bel pezzo e già da romani antichi si abbigliavano i Giacobini. Nulla di male a travestirsi da naródniki o da zapatisti, magari risparmiandoci il berlinguerismo d’accatto e i figgicciotti anni ’80. Sempre che si usi l’oggetto politico con la disinvoltura con cui si mescolano capi di vestiario o di arredamento, non con la superstizione del santino.
L’esperienza dei Gilets Jaunes francesi sembra finora su scala europea la più istruttiva, sia volgendosi contro un punto alto del neoliberalismo tecnocratico sia mixando (il termine musicale cade a proposito) gesti simbolici e blocco della circolazione di merci, pratiche e istituti di democrazia diretta e manif violente, rituali di vestiario e scadenze ed estensione progressiva degli obiettivi e dei campi di intervento, mobilitazioni di settori e aree geografiche fino allora marginali e collegamento con movimenti precedenti (studenti liceali e universitari, rigetto della Loi Travail, banlieuesards, sans papiers ribattezzatisi Gilets Noirs) e paralleli (ambientialisti). Un militante d’antan può riconoscervi esperienze che hanno un’aria di famiglia con quanto ha sperimentato in altri tempi. L’ape militante sta raccogliendo bene, ma il dato nuovo, che segna la differenza, è che si tratta di uno sciame di api e che l’operare a sciame, diversamente dalle gerarchie verticali, qualifica in modo difforme anche le attività che presentano quella familiare somiglianza.